Dopo la nascita del primo figlio, poco più di un anno fa, Maria Caputo è riuscita a mettere da parte e-mail e telefonate di lavoro per poco tempo: “Ho subito ripreso i contatti con i miei clienti, ho potuto farlo soprattutto grazie alla flessibilità del mio lavoro e al supporto della rete familiare”. La donna, che a marzo avrà il secondo figlio, è una dottoressa commercialista con molti anni di esperienza ed è titolare di uno studio a Napoli insieme ad altri tre colleghi.
“Quando ho scoperto di aspettare il mio primo figlio, oltre come professionista, ero già impegnata nell’associazionismo di categoria e ricoprivo il ruolo di delegata della Cassa dei dottori commercialisti. Diventare genitore ed essere un libero professionista richiede un importante impegno a livello organizzativo”, riflette.
Un ulteriore elemento che ha spinto la professionista a tornare subito al lavoro è la necessità di essere costantemente aggiornata su norme, decreti e circolari. Impossibile, spiega, stare cinque mesi senza leggere Il Sole 24 Ore o seguire un corso di aggiornamento: “potrei perdermi novità importanti”.
Per la donna, il parto e i primi mesi di maternità sono stati un periodo particolarmente complesso. Non solo per le fatiche e i cambiamenti legati alla nascita di un figlio, ma anche per il timore di perdere terreno sul fronte professionale. “Quando mi dedicavo al lavoro sentivo di mancare come madre. E quando stavo con mio figlio sentivo di venir meno alle responsabilità nei confronti dei miei clienti”, spiega.
I titolari di partita Iva possono organizzare il proprio lavoro con maggiore flessibilità e autonomia rispetto ai dipendenti. Ma, al tempo stesso, godono di molte meno tutele. Per questo, seppur in modo diverso, anche per loro la conciliazione vita-lavoro sembra essere un unicorno difficile da raggiungere. Per le donne, in misura ancora maggiore.
#ConciliazioneUnicornoQuesto articolo è parte della serie di Secondo Welfare sulla conciliazione vita-lavoro, che sempre più spesso, soprattutto per alcune categorie di persone, appare inafferrabile, rara, quasi mitologica. Neanche fosse un unicorno. |
Quando “staccare” è impossibile
Mentre le neo-mamme con un contratto di lavoro da dipendente usufruiscono di un congedo obbligatorio di maternità di cinque mesi, per le libere professioniste si parla di indennità di maternità. Una differenza non solo semantica. Lo spiega Chiara Altilio, ricercatrice presso Adapt (Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali): “Il congedo è una sospensione dall’attività che preserva il rapporto di lavoro al fine di tutelare la salute della madre e del bambino. L’indennità, invece, è un contributo economico che viene versato alle libere professioniste per un periodo di cinque mesi ed è compatibile con il proseguimento dell’attività lavorativa”.
In altre parole: una professionista in partita Iva può (e più spesso, deve) continuare a lavorare anche nelle settimane che precedono immediatamente il parto e nei mesi appena successivi alla nascita del bambino.
Tra lavoratori dipendenti e indipendenti ci sono alcune sostanziali differenze, anche per quanto riguarda le possibilità di conciliazione. I primi, che in Italia sono circa 18 milioni, possono usufruire di congedo di maternità e di paternità obbligatorio (cinque mesi per la madre, dieci giorni per il padre) e sei mesi di congedo parentale per ciascun figlio (di cui i primi tre retribuiti all’80%, come previsto dalla Legge di bilancio 2025, i restanti tre al 30%).
I lavoratori indipendenti, invece, sono poco più di 5 milioni, il 21% degli occupati1, e questa categoria comprende figure professionali diverse: oltre ai professionisti ci sono lavoratori autonomi e imprenditori2. A fronte di un’ampia libertà di organizzazione ricevono però compensi variabili e dispongono di minori tutele rispetto ai dipendenti in caso di malattia o dell’arrivo di un figlio.
Oltre all’indennità maternità per le donne, i liberi professionisti possono usufruire di un’indennità per congedo parentale pari al 30% del reddito dichiarato nei 12 mesi precedenti per un massimo di tre mesi per ogni figlio, da fruire entro il primo anno di vita del bambino. A questi si aggiungono poi le misure universalistiche – quelle cioè per tutti i cittadini – come l’Assegno unico universale o il Bonus nido, il cui importo è parametrato all’Isee familiare.
C’è poi un altro aspetto da considerare. Per un libero professionista declinare un’offerta di lavoro o non rispondere alle richieste di un cliente significa correre il rischio di perderlo, talvolta per sempre. E in alcuni casi non ha nemmeno la possibilità di delegare: proprio nelle settimane a cavallo del parto, la commercialista Caputo ha completato un complesso incarico che le era stato assegnato dal tribunale. “Dovevo svolgere una perizia e non potevo chiedere un rinvio ‘semplicemente’ perché avevo avuto un bambino e non potevo nemmeno affidare l’incarico a un collega”, ricorda.
In queste condizioni, la conciliazione non è una sfida facile. Caputo racconta di aver gestito i primi mesi dopo la nascita del figlio in smart working approfittando di tutti i momenti a disposizione quando il bambino era tranquillo. Ha potuto poi contare sul marito - imprenditore libero professionista come lei - che ha partecipato attivamente alla gestione della nuova routine familiare. Infine, per avere un aiuto ulteriore, la coppia ha assunto una tata: “Avere questo supporto è fondamentale per non subire grandi scossoni nell’attività professionale e abbiamo potuto farlo grazie al nostro lavoro”, riflette la donna, facendo riferimento al reddito famigliare che le ha consentito di pagare una collaboratrice domestica.
La maggior parte delle famiglie, però, non si può permettere questo tipo di spese e, come aveva spiegato nel primo episodio di #ConciliazioneUnicorno la statistica Linda Laura Sabbadini, “questo alimenta un circolo vizioso: per svolgere il lavoro di cura, le donne spesso accettano lavori part time o precari, che però riducono ulteriormente il loro reddito”.
Il peso del gender pay gap
La conciliazione per le madri lavoratrici in partita Iva, quindi, può essere particolarmente faticosa. A maggior ragione se fatturano poco. "La flessibilità e la rimodulazione del tempo di lavoro sono tra i temi principali quando si parla di conciliazione" sottolinea Altilio di Adapt. “Per le lavoratrici autonome - continua - la conseguenza può essere un impatto negativo sul benessere e sulla salute psicofisica. Si tratta di professioni che richiedono un impegno elevato, in termini di ore lavorative e di disponibilità nei confronti di clienti e committenti. Questo espone maggiormente le lavoratrici autonome madri ai rischi di una mancata conciliazione che può sfociare anche in un burnout”.
Le lavoratrici iscritte a un ordine professionale (commercialisti, avvocati, ingegneri, architetti e giornalisti, ad esempio) quando partoriscono ricevono dalla propria cassa di riferimento, ovvero l’ente che gestisce la previdenza obbligatoria, un importo pari a cinque dodicesimi dell’80% del reddito professionale prodotto nel secondo anno precedente l’evento. Se, per esempio, una commercialista che nel 2023 ha fatturato 50.000 euro partorirà quest’anno, riceverà un’indennità di circa 16.000 euro per cinque mesi.
La professionista, dunque, riceve in un’unica soluzione, in un momento di inevitabile rallentamento dell’attività lavorativa, un sostegno economico che le permette di compensare i ridotti o mancati introiti degli ultimi due mesi di gravidanza e dei primi tre mesi di vita del bambino.
È un sostegno importante sul quale però, come accade in molti altri ambiti, pesa fortemente il gender pay gap.
Nel 2023 il reddito medio di una donna commercialista è stato di circa 51.000 euro a fronte dei 94.000 di un collega uomo. Quello di una donna avvocato è stato di 26.000 euro a fronte dei 56.000 di un collega uomo. Le donne ingegnere hanno portato a casa circa 32.000 euro e le donne architetto circa 24.000 euro. Anche in questo caso, poco più della metà di quanto percepito dai colleghi uomini. A dirlo è il Rapporto sulle libere professioni 2024 di Confprofessioni3, che evidenzia come il gender pay gap si sia ulteriormente ampliato dopo la pandemia da Covid-19.
Oltre a quanto previsto per legge, Maria Caputo, che da luglio 2024 è anche Consigliere di amministrazione della Cassa dottori commercialisti, sottolinea l'impegno dell'ente a sostegno della conciliazione vita lavoro. Nel 2022, la Cassa ha aperto un bando per le spese di asilo nido e scuole d’infanzia che nella prima edizione ha coinvolto circa 600 beneficiari. Dato il riscontro positivo, è stato poi replicato negli anni successivi. Nel 2024 la Cassa ha erogato 982.000 euro a 997 professionisti: tre su quattro hanno meno di 40 anni e il 67% sono donne.
Oltre a questa misura, la Cassa eroga ulteriori contributi ai soci che hanno un figlio con disabilità o malattia invalidante, oppure un familiare anziano o non autosufficiente. L’ultimo, in ordine di tempo, prevede un sostegno della paternità con un contributo pari al 5% del reddito professionale dichiarato nell’anno precedente la nascita del figlio (con un minimo di 1.090 euro e un massimo di 2.180 euro). Le domande pervenute sono state 894.
La gestione separata Inps
Non tutti i liberi professionisti e i lavoratori in partita iva hanno però una cassa professionale di riferimento: traduttori, esperti informatici, professionisti del marketing, social media manager, fisioterapisti e fotografi (tanto per fare un breve elenco) versano i contributi alla gestione separata dell’Inps4, che prevede tutele inferiori rispetto a quelle descritte fino a qui.
Gli iscritti alla gestione separata nel 2023 hanno toccato quota 501.000, registrando “un incremento complessivo del 13% rispetto al 2013, una crescita nettamente superiore rispetto a quella degli ordinistici (gli iscritti agli ordini, ndr), che si attesta a un modesto +2% nell’arco dello stesso periodo”, si legge nel bollettino dell’Osservatorio delle libere professioni dello scorso dicembre. Gli appartenenti alle cosiddette “categorie ordinistiche” erano circa 857.000.
Acta, associazione che mette in rete i freelance con l’obiettivo di garantirne i diritti fondamentali, denuncia da anni le difficoltà che le libere professioniste devono affrontare per accedere all’indennità di maternità. “Uno degli ostacoli principali che abbiamo riscontrato, per l’accesso alla maternità e non solo, è la carenza di informazioni”, spiega Samanta Boni, traduttrice, socia di Acta e coordinatrice degli sportelli dedicati alla consulenza per i soci.
Una difficoltà specifica riguarda poi le modalità con cui avviene il calcolo dell’importo dell’indennità di maternità che (a differenza di quanto avviene per le libere professioniste) avviene sui 12 mesi precedenti l’inizio del congedo. “Ne deriva che le informazioni relative all’anno fiscale in corso possono essere fornite solo nel settembre dell’anno successivo e quindi sono ritardati i tempi di accesso all’indennità integrale”, scrive Acta. Senza dimenticare il fatto che essendo calcolati sui mesi della gravidanza o, per chi ha già un figlio di cui prendersi cura, le indennità delle neo-madri freelance possono essere più basse del dovuto, perché calcolate quando l’attività lavorativa può rallentare.
Conciliazione: le dimensioni dell’azienda contano, ma non bastano
Tutte queste difficoltà Boni le ha vissute sulla sua pelle. Ha due figli, nati a distanza di 25 mesi uno dall’altro: “Nell’anno precedente la nascita del primo avevo avuto redditi buoni e costanti: ho percepito subito, quando ne avevo bisogno, quasi tutta la maternità che mi spettava”. Le cose sono andate diversamente con il secondo: dovendosi dedicare anche alla cura del primogenito, il suo reddito si era ridotto e la donna ha ricevuto solo una piccola parte dell’indennità. “Il resto, quasi il 75% dell’importo totale, è arrivato con il conguaglio un anno e mezzo dopo”.
Anche le neo-mamme freelance iscritte alla gestione separata devono fare i conti con il gender pay gap: il loro reddito medio nel 2023 è stata di circa 23.000 euro all’anno contro una media di circa 29.000 euro per gli uomini. Di conseguenza, riprende Altilio di Adapt, “gli importi [delle indennità, ndr] sono abbastanza bassi. Inoltre sono previsti dei requisiti di accesso: ad esempio ci devono essere almeno tre mesi di contribuzione con aliquota piena”.
Secondo la ricercatrice, per le professioniste, servirebbero “strumenti di tutela per evitare che le indennità si riducano a poche migliaia di euro”. E, in tal senso, alcune esperienze interessanti a livello locale esistono già.
Buone prassi: aiuti dall’Unione europea
La Sardegna, per esempio, usa da diversi anni le risorse del Fondo sociale europeo per finanziare un “voucher conciliazione” riservato a lavoratrici autonome e libere professioniste. “I servizi pubblici sul territorio sono limitati e i liberi professionisti sono poco abituati a chiedere aiuti. Da qui, è nata l’idea di erogare voucher per coprire determinate spese: dall’asilo nido all’assistenza agli anziani”, spiega Susanna Pisano, presidente regionale di Confprofessioni5, che ha spinto perché venisse realizzata l’iniziativa.
Il voucher ha debuttato nel 2016 con un milione di euro a disposizione e, da allora, è sempre stato rinnovato. È arrivato a toccare anche una dotazione di 4 milioni all’anno per contributi che vanno dai 3.000 per un figlio ai 7.000 per tre. Nel 2023, spiegano i promotori, sono state più di un migliaio le professioniste che lo hanno richiesto e la misura è stata rinnovata anche per la programmazione europea in corso (2021-2027).
Reti di welfare e logiche di innovazione per la conciliazione
In maniera simile, anche la Regione Toscana ha utilizzato risorse UE in questo ambito, con un bando da 600.000 euro su due anni pensato per le libere professioniste che vogliono assumere un sostituto.
A muoversi non sono solo gli enti locali o gli enti previdenziali, come la Cassa dei dottori commercialisti nel caso di Maria Caputo. Esistono anche studi professionali che si impegnano sul fronte della conciliazione. Dal 2016, per esempio, lo studio legale milanese “La Scala” ha avviato anche per i collaboratori a partita Iva un piano di welfare aziendale, tra le cui misure vi è un bonus bebé da 1.000 euro.
È un caso singolo, limitato, che si scontra con i limiti strutturali delle poche tutele fornite dallo Stato. Però è anche il segnale di una tendenza: tra le partite iva, la consapevolezza del problema conciliazione sta crescendo. “Fino a dieci anni fa le persone che si rivolgevano ai nostri sportelli avevano pochissime informazioni. Oggi, invece, hanno già qualche conoscenza di base sui loro diritti, anche legati alla maternità”, spiega Boni di Acta.
Prima, i lavoratori e, soprattutto, le lavoratrici indipendenti l’unicorno della conciliazione tra vita e lavoro non se lo immaginavano nemmeno. Ora, invece, gli danno la caccia, con determinazione. “Le persone - conclude Boni - oggi sono più agguerrite: può capitare che le domande vengano respinte anche quando si hanno i requisiti, ma si impuntano e vanno avanti”.
Note
- Per maggiori dati sulla composizione della forza lavoro in Italia, consulta il IX Rapporto sulle libere professioni in Italia – Anno 2024 a pagina 75 oppure clicca qui per un’ulteriore infografica, sempre tratta dal rapporto.
- Quella degli autonomi è la categoria che comprende artigiani, commercianti e lavoratori agricoli. Il libero professionista è chi presta un servizio ad alto contenuto intellettuale ed è solitamente iscritto a un ordine di categoria. L’imprenditore invece è colui che esercita un’attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi.
- Organizzazione di rappresentanza riconosciuta come parte sociale nel 2001
- La gestione separata Inps garantisce l’assicurazione di invalidità, vecchiaia e superstiti a quei lavoratori autonomi che non svolgono nessuna delle attività rientranti nelle gestioni speciali INPS, né una libera professione in riferimento alla quale è previsto di una assicurazione presso una specifica Cassa previdenziale.
- Organizzazione di rappresentanza dei liberi professionisti, dai commercialisti agli ingegneri, dagli agronomi agli psicologi.