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Dopo 16 anni di lavoro in una piccola stireria industriale, con la nascita della seconda figlia Simona ha deciso di dare le dimissioni. “Per me è stato un lutto. Mi piaceva quello che facevo e mi dava un senso di indipendenza. Ora, la sola cosa positiva è che posso crescere le mie bambine”, racconta.

Le sue difficoltà a conciliare la vita familiare con il lavoro erano emerse già dopo la prima gravidanza. Al termine del congedo di maternità1 obbligatorio ha iscritto la bambina a un nido privato: 500 euro per 4 ore al giorno. “Al mattino – spiega – la portava mio marito e all’uscita andavo a prenderla io, ma se avevo l’orario prolungato non facevo in tempo ed era sempre una corsa. Quando è nata la nostra seconda figlia ci siamo confrontati a lungo su che cosa fare. Io avrei voluto tenermi il lavoro, ma non aveva senso spendere più della metà del mio stipendio per il nido. Poi con una figlia alla materna e l’altra al nido i problemi organizzativi sarebbero comunque rimasti”.

#ConciliazioneUnicorno

Questo articolo è parte della serie di Secondo Welfare sulla conciliazione vita-lavoro, che sempre più spesso, soprattutto per alcune categorie di persone, appare inafferrabile, rara, quasi mitologica. Neanche fosse un unicorno.

Nell’articolo iniziale della serie #ConciliazioneUnicorno, abbiamo tracciato un quadro delle politiche di conciliazione in Italia: dalla diffusione di asili nido al congedo parentale facoltativo2. Strumenti ancora insufficienti, che andrebbero potenziati e migliorati per evitare che il lavoro di cura (di minori o anziani) continui a ricadere soprattutto sulle spalle delle donne.

Nel 2022 sono state 44.669 le donne che hanno dato le dimissioni nei primi tre anni di vita del figlio, il 72% su un totale di 61.391 richieste convalidate dall’Ispettorato nazionale del lavoro. Per il 63% delle neo-mamme, la motivazione principale è la difficoltà a conciliare gli orari lavorativi con il lavoro di cura.

Ma la vicenda di Simona è significativa anche per un altro motivo.

Un paese di PMI

Su un totale di 4,4 milioni di imprese attive in Italia, il 95% è formato da micro-imprese, molto simili alla stireria in cui lavorava Simona. Le grandi imprese, quelle con più di 500 dipendenti, sono invece lo 0,09% del totale mentre le piccole e medie imprese (Pmi) pesano per il restante 4,78%. In termini di personale, le micro imprese assorbono circa il 45% degli occupati del nostro Paese, mentre le PMI il 21%.

Categorie di imprese

Per le piccole e, soprattutto, le micro-imprese la conciliazione è una sfida difficile. “Un’azienda più piccola, a parità di altre condizioni, ha meno capacità assoluta di spesa e dunque meno capacità economico-finanziaria di attivare interventi di sostegno alla flessibilità del lavoro”, spiega Luca Solari, professore ordinario di Organizzazione aziendale presso il dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano. “In secondo luogo – prosegue – un’impresa con pochi dipendenti fa più fatica a organizzare e mantenere l’efficienza dei processi produttivi e di conseguenza a dare accesso a forme di flessibilità ai propri lavoratori”.

Viceversa, realtà imprenditoriali più grandi e strutturate hanno più possibilità. Ci sono esempi virtuosi come il gruppo farmaceutico Chiesi che ha esteso il congedo di paternità dai 10 giorni previsti per legge a 14 settimane retribuite al 100%. Mentre i lavoratori caregiver possono usufruire di venti giorni di permessi aggiuntivi. Dal 1° gennaio 2024 anche il Gruppo Barilla garantisce a ciascun neo-genitore 12 settimane di congedo retribuito al 100%, mentre la multinazionale farmaceutica Haleon, che opera anche in Italia con uno stabilimento produttivo ad Aprilia, ha istituito nel 2022 il “Fully equal parental leave”: un congedo retribuito al 100% di 26 settimane di cui possono usufruire tutti i dipendenti “indipendentemente dal sesso o dall’orientamento sessuale e copre la nascita biologica, la maternità surrogata e l’adozione”.

La conciliazione in azienda passa anche da interventi che non hanno un costo economico diretto, ma incidono sull'organizzazione del lavoro. “Il quarto rapporto sulla contrattazione di secondo livello” di Cgil e Fondazione Di Vittorio analizza il periodo 2021-2023 e osserva che “molti dei principali rinnovi dei CCNL prevedono misure volte a sostenere la cosiddetta work life balance; tuttavia, è la contrattazione collettiva aziendale la fonte principale di riconoscimento in ambito lavorativo di misure di conciliazione tra vita professionale e vita privata. È in questo contesto, infatti, che si ritrovano le pratiche più virtuose e innovative, in maniera trasversale rispetto a tutti i macrosettori contrattuali”.

La storia di Paola

Quando si parla di conciliazione, quindi, le dimensioni di un’azienda contano. Ma a volte neanche quelle bastano. Lo dimostra la storia di Paola, quarantenne che da più di dieci anni lavora su turni come operaia in una grande azienda metalmeccanica di circa 400 dipendenti.

Paola ha due figli, di 3 e 5 anni. Da quando sono nati ha usufruito dei benefici previsti per legge, ma dalla sua azienda non ha mai avuto aiuti ad hoc: “Nel primo anno di vita dei bambini sono stata esonerata dal lavoro notturno. Ma non ho flessibilità né in entrata né in uscita e non ho nemmeno la possibilità di prendere un turno fisso. Se ho qualche esigenza particolare chiedo al mio capo-turno di venirmi incontro”, spiega la donna, ricordando la disponibilità mostrata dai suoi responsabili quando un figlio è stato in ospedale.

Superato lo scoglio dei costi legati al nido, oggi per conciliare, Paola e il marito utilizzano permessi, congedi e ferie; ma a fare la differenza è il fatto che l’uomo ha orari flessibili. Non la dimensione dell’azienda della donna.

Certo, le grandi imprese riescono a fare economie di scala e, se i fatturati sono in positivo, hanno maggiori risorse per il benessere dei lavoratori. Luca Solari invita a tenere in considerazione anche altri due elementi: “Il valore aggiunto per dipendente: una start-up di successo ha pochi dipendenti ma una redditività per persona molto elevata. E il peso della componente tecnologica.

In quest’ottica, quindi, la conciliazione è ancora più difficile nelle realtà piccole, con una bassa marginalità e un un impiego significativo di manodopera. Conciliare, invece, è teoricamente meno difficile laddove ci sono tecnologie ad alto valore aggiunto e un’alta marginalità. “È il caso ad esempio delle tech company californiane o delle grandi aziende farmaceutiche”, spiega ancora il professor Solari.

L’esempio del lavoro da remoto, in tal senso, è esemplificativo.

Paola e Simona non possono usufruirne.

“Le camicie non le posso stirare in smart working”, dice quest’ultima con un sorriso amaro, commentando le sue dimissioni.

Da un lato, lavorare da casa come possono fare altri tipi di lavoratori avrebbe sicuramente migliorato l’equilibrio delle famiglie delle due donne. Dall’altro, però, questo strumento va usato con cautela. Per Sandro Gallittu, responsabile politiche per le famiglie e l’infanzia della Cgil, il rischio è che “diventi un moltiplicatore degli squilibri di genere e classe già presenti”.

Dopo la crescita pandemica, ora i numeri di chi lavora da remoto in Italia sembrano stabili, ma il timore rimane: lo smart working potrebbe finire per amplificare le differenze di genere all’interno delle aziende e aggravare il carico del lavoro domestico delle donne, obbligate a districarsi tra una call di lavoro, l’aiuto ai compiti dei figli e una lavatrice da caricare.

Il ruolo della contrattazione: il caso di Parma

Un altro elemento che incide sulla conciliazione nelle aziende è la capacità delle organizzazioni sindacali di negoziare. Il “Rapporto sulla contrattazione collettiva” della Cgil, per esempio, registra un aumento rispetto al triennio precedente del numero di accordi che prevedono maggiore flessibilità oraria: passati dal 17% del precedente rapporto (relativo al triennio 2019-2021) al 28%.

“Negli ultimi 4-5 anni abbiamo iniziato a ragionare su quali fossero gli strumenti migliori per dare una risposta alle esigenze dei lavoratori e al benessere delle loro famiglie”, spiega Davide Doninotti, segretario provinciale della Filtem-Cgil di Parma, attiva nel comparto dell’industria del vetro, della gomma-plastica, della chimica farmaceutica e dell’elettrico nella provincia. Ma invece di partire dalle grandi aziende, lo si è fatto dal basso.

La prima azienda a essere coinvolta è stata la Serioplast, che conta una cinquantina di dipendenti. Qui, nel 2018 il congedo parentale della durata di 10 mesi è stato portato al 60% dello stipendio e successivamente al 100%. "I contratti di secondo livello sono composti da due parti: una normativa e una redistributiva, che non sono intercambiabili. Non si rinuncia ai soldi per i diritti -spiega Simone Bandini della Rsu Serioplast-. Noi siamo riusciti a farlo e siamo stati percepiti come esempio da altre aziende che hanno ottenuto accordi simili".

Questa esperienza ha fatto da apripista per iniziative analoghe in altre realtà industriali del settore: altre tre aziende hanno portato il congedo parentale retribuito al 60% mentre una quarta ha deciso un contributo mensile di 600 euro lordi alle neo-madri per sei mesi.

Tra le aziende con cui si sono confrontati i delegati della Filtem c’è anche Chiesi che, come già detto, è una delle poche realtà industriale che prevede un congedo di genitorialità retribuito al 100%. “Contrattare con Chiesi ci aiuta a cambiare il contratto nazionale. Ma il vero valore aggiunto - riflette Doninotti - è portare la contrattazione aziendale su questi temi all’interno delle aziende più piccole, dove non te lo aspetteresti. E dove spesso si respira un mondo del lavoro fermo a 40 anni fa. Aziende dove il concetto di ‘equilibrio’ si riduce al fatto che l’azienda garantisca occupazione e paghi un salario senza interessarsi a quella che è la vita dei suoi dipendenti al di fuori dell’orario di lavoro”.

La resistenza delle piccole e medie imprese, continua il sindacalista, si spiega con motivazioni di tipo economico e, in parte, culturali. La sfida è quella di “coinvolgere e affascinare” le imprese, “facendole innamorare” di una visione dell’azienda come ecosistema, all’interno del quale è fondamentale garantire anche il benessere dei lavoratori al di fuori dell’orario di lavoro. La strada scelta è stata quella della mediazione, con l’attenzione a creare dei precedenti nelle aziende in cui il numero di donne era più basso, per poi allargarsi.

Non a caso molte delle aziende parmensi che hanno promosso iniziative di conciliazione fanno parte della rete “Welldone”, nata nel 2022 e oggi composta da 22 realtà imprenditoriali unite dalla “consapevolezza che il welfare è una leva, un moltiplicatore positivo in termini di prestazioni, clima aziendale e miglioramento organizzativo”.

La questione del reddito

Al netto dell’impegno di imprese e sindacati a livello territoriale e aziendale, rimangono dei problemi strutturali nazionali. Il congedo parentale, per esempio, è uno dei principali strumenti di conciliazione ma ha ancora forti limiti, come la retribuzione: solo per due mesi di congedo l’indennità corrisposta dall’Inps arriva all’80%, mentre per i restanti otto è di appena il 30%.

Troppo poco per l’operaia metalmeccanica Paola. La donna racconta che, quando fa ricorso al congedo per restare a casa con i figli malati o per altre esigenze familiari, poi recupera le ore “perse” con una giornata di lavoro straordinario nel fine settimana. “Per non sentire troppo il calo in busta paga a fine mese”, dice. Quando i bambini erano più piccoli aveva pensato di chiedere un part-time “ma alla fine eravamo troppo tirati con le spese e avrei comunque dovuto fare i salti mortali”.

Fare spazio alla paternità, fra trasformazioni del welfare e modelli di lavoro

Simona, la donna che ha lasciato il suo lavoro in una stireria, invece, aveva un contratto di 30 ore settimanali e uno stipendio che oscillava tra gli 800 e i 900 euro al mese: Con la maternità facoltativa e il congedo, entrambe al 30%, non porti a casa nulla. Ridurre ulteriormente le ore non ci avrebbe aiutato molto e il taglio in busta paga si sarebbe sentito, soprattutto se avessimo dovuto pagare la retta del nido”, spiega amaramente.

A fare la differenza nella vita delle due donne, oltre all’importo del salario, è anche il contributo apportato dai rispettivi mariti nella gestione familiare. Quello di Paola è dipendente pubblico, ha orari di ingresso e uscita flessibili e altre misure che aiutano. Quello di Simona, invece, è un libero professionista: “non riesce - spiega la donna - a liberarsi ogni volta che c’è un imprevisto”. E così ha lasciato la sua microimpresa, magari col rimpianto che se avesse lavorato per un’azienda diversa non sarebbe stata costretta ad abbandonarla.

Conciliazione, a chi tocca?

I casi positivi di grandi aziende, come quelle di cui abbiamo parlato in precedenza, o la sempre attuale esperienza di Luxottica, vengono sempre citati quando si parla di conciliazione. Ma, secondo Solari, sono destinati a restare delle eccezioni nel tessuto produttivo italiano.

Il professore di Organizzazione aziendale insiste, poi, su un altro punto, che considera un grande fraintendimento. A suo parere, chiedere alle aziende di intervenire per “coprire” con risorse proprie le criticità strutturali del sistema italiano “è una sorta di sussidiarietà forzosa. La spesa pubblica per queste misure non è sufficiente e richiedere che siano le imprese a farsene carico è miope”, sostiene Solari.

Anche in Cgil si fa un ragionamento per certi versi simile. “Non voglio sminuire il ruolo della contrattazione di secondo livello, ma dobbiamo prendere atto che non è uno strumento egualitario”, riflette Gallittu della Cgil. Del resto, la contrattazione aziendale sul tema della conciliazione non è sempre possibile: per mancanza di numeri o interesse, o perché i lavoratori chiedono altri benefici, magari di tipo economico.

La risposta, dunque, deve arrivare soprattutto dallo Stato: “la strada maestra per riconoscere pari diritti a tutti i lavoratori, anche sul tema della conciliazione, è quella della legge. Diversamente continueranno a esserci lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, sottolinea Gallittu.

Note

  1. Il congedo di maternità è il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro riconosciuto alle lavoratrici dipendenti durante la gravidanza e il puerperio e consiste in un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per la madre che copre un arco di tempo pari a 5 mesi a cavallo del parto. L’indennità è normalmente pari all’80% della retribuzione.
  2. È un periodo di 10 mesi (frazionabili) di astensione dal lavoro di cui possono usufruire sia i padri che le madri entro i 12 anni di vita del bambino. Per i primi due mesi di congedo, l’indennità corrisposta dall’Inps arriva all’80%, mentre per i restanti otto è del 30%.
Foto di copertina: Elaborazione Secondo welfare su foto di Chevanon Photograph via Pexeles