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Nelle principali città del mondo la speranza di vita delle persone varia in funzione del quartiere di residenza. Questa differenza è spiegata da fattori ambientali e comportamenti individuali, certo, ma un peso rilevante è dato dai fattori socioeconomici, ossia dalla cultura e dal reddito familiare. Chi ha una economia familiare stabile può nutrirsi meglio, accedere a cure sanitarie in tempi brevi, è più incline alla prevenzione, fa lavori meno usuranti. Ne consegue che il denaro sia direttamente legato alla longevità: più soldi si hanno e più a lungo si vive.

La vita, tuttavia, non è solo una questione numerica e, come è noto, le difficoltà economiche generano ansia, insonnia, conflitti familiari, assenteismi e turnover, spegnimento di fiducia nei propri mezzi e perdita generale di senso.

Per abbinare alle politiche riparative quelle di prevenzione, l’educazione finanziaria è entrata a far parte dei diritti di cittadinanza. Questo, tuttavia, risolve forse il problema del “se”, ma non quello del cosa e quello del come è utile farla. Discutere dei modelli educativi non è per nulla teorico ma avviene poco spesso, e di norma solo in luoghi istituzionali ed accademici. Gran parte della letteratura sulla “financial education” si rivolge peraltro all’utente finale, mettendolo in guardia da comportamenti ingenui e spiegando quel che si ritiene possa essergli utile. Purtroppo, tuttavia, un comportamento non si modifica con una brochure od un convegno.

Il benessere economico personale e familiare è un tema essenziale, specie in un contesto nel quale si tende sempre più a responsabilizzare il cittadino ad affrontare con i propri mezzi le nuove sfide della contemporaneità senza una adeguata e coerente preparazione. Tuttavia, la diffusione di esperienze e proposte di educazione finanziaria è stata così repentina e deregolamentata che oggi chiunque, anche in assenza di conoscenze, competenze od esperienze può realizzare programmi che vengono denominati come educazione finanziaria. L’esito è che coesistono percorsi di grande affidabilità e consigli fuorvianti, che propongono scorciatoie per diventare ricchi e possono produrre effetti economici anche devastanti per chi si appresta a seguirli.

In poche parole, l’educazione finanziaria è diventata di moda, e questo genera uno sviluppo quantitativo che può essere molto diverso dal progresso qualitativo. Come uscirne?

Educazione finanziaria: dalle mode al senso

Attivare un confronto sui programmi, i docenti, il grado di coinvolgimento dei partecipanti ed anche i contenuti dei programmi educativi è sempre stato importante ma ora è divenuto urgente. Da qui, la necessità di ampliare il dibattito e proporre tesi sulle quali confrontarsi. Ci sono, infatti, alcune questioni dirimenti, che possono condurre ad una educazione finanziaria teorica o efficace, elitaria o accessibile, noiosa o attrattiva. Quali sono gli oggetti del contendere? Alcuni esempi:

  1. L’oggetto principale deve essere costituito dal denaro, gli strumenti finanziari o il benessere personale e familiare?
  2. Che differenza c’è tra alfabetizzazione e educazione finanziaria e quale è prioritaria?
  3. Come evitare che l’educazione finanziaria sconfini in un superficiale bluewashing etico?
  4. Si può realizzare un progetto educativo se non si ha fiducia nelle persone?
  5. Educare significa rendere capaci oppure modificare i comportamenti altrui in base alle proprie opinioni su “cosa sia bene”?
  6. Chi può candidarsi a educare, con quali titoli, esperienze, atteggiamenti e se si esclude qualcuno da tale possibilità, per quali fondati motivi lo si fa?
  7. Quali teorie, metodi, sistemi di misura connotano un progetto di educazione finanziaria affidabile?
  8. Quali differenze presentano i vari target? Come si parla, e cosa serve, davvero, a un giovane, un adulto, una persona sola, una famiglia, a chi è stabile ed a chi è fragile o vulnerabile?
  9. Il fine del percorso educativo è solo mettere a posto i conti o anche recuperare fiducia, uscire dal breveterminismo, reinstallare progetti futuri, reimparare a decidere?
  10. Che differenza c’è tra nozionismo generico e educazione personale? Possiamo chiamare educazione un percorso privo di relazione diretta, personale e partecipativa con l’utente?

L’educazione supporta, non delega responsabilità

Quella sopra è solo una breve lista, che vuole evidenziare quanto cammino c’è da fare se si desidera che l’educazione finanziaria diventi uno strumento solido ed efficace di crescita delle capacità personali.

Sviluppare educazione finanziaria utile, peraltro, non significa in alcun modo arrendersi alle difficoltà del welfare pubblico, né assecondare quel trasferimento dei rischi dai forti ai deboli che purtroppo si diffonde, in Italia ed in Europa, come esito di ideologie individualiste e di una visione del welfare come costo e non come investimento.

Non si può, peraltro, educare alla finanza se non si educa anche il mondo della finanza. È però sempre più aiutare le persone ad orientarsi nella gestione dei propri conti di casa, nelle valutazione di un eventuale indebitamento, nella presa di contatto con i propri rischi, sanitari e patrimoniali, nella realizzazione dei progetti di vita, nella preparazione alla pensione e nel passaggio ordinato delle proprietà a chi verrà dopo di noi. L’educazione finanziaria, di conseguenza, deve supportare le capacità di gestire la propria economia personale. Dove svolgere questo compito essenziale?

I ruoli dei soggetti e quello delle imprese

L’educazione finanziaria dovrebbe essere impartita in famiglia, nelle scuole,  presso sportelli pubblici dedicati, tra gli utenti degli Enti del Terzo Settore ed in azienda. Qui, e non a caso, la prassi di riferimento UNI sul welfare aziendale cita l’educazione finanziaria come un servizio “chiave” da offrire ai lavoratori ed ai collaboratori, per tre ordine di motivi.

Il primo è che l’educazione finanziaria, con riguardo alle distinte fasce di popolazione lavorativa, rientra a pieno titolo e merito in quella “S” dei protocolli ESG che sono ormai oggetto di attenzione quotidiane delle imprese, contribuendo al rating di sostenibilità. Il secondo motivo, il più naturale, è che è compito onorevole delle aziende essere un luogo per lavoratori che stiano bene, e che trovano in azienda progetti utili al proprio benessere complessivo. C’è poi un terzo ordine di motivi, che riguarda la convenienza per le imprese di coordinare lavoratori economicamente stabili e quindi meno stressati, meno presenzialisti, meno assenteisti, meno pressanti in termini di richieste di prestiti, anticipazioni e supporti monetari alle Direzioni del Personale.

In pratica, l’educazione finanziaria aumenta il benessere di tutti i soggetti che la promuovono, sostengono e la adoperano. Bisogna, tuttavia, avere cura per una educazione finanziaria efficace, che utilizzi sapientemente diversi media (siti, incontri collettivi, accompagnamenti individuali) e che veda il lavoratore come soggetto di politiche di welfare attive e partecipative e non solo come oggetto passivo di offerte di servizi attraenti dal punto di vista del consenso immediato. È, di conseguenza, uno strumento di benessere e innovazione sociale da inserire nelle strategie di welfare, a patto che si orienti ai risultati e non al compitino o alla pura gradevolezza.

Non si vive o lavora bene, se si è economicamente vulnerabili. l’educazione finanziaria serve anche a questo.

 

Su questi e altri temi legati all’educazione finanziaria Sergio Sorgi ha recentemente scritto il volume “Il tempo del benessere. L’educazione finanziaria come servizio alle persone” (Egea).

 

Foto di copertina: Towfiqu barbhuiya, Pexels.com