In ogni Comune d’Italia ci deve essere un numero minimo di assistenti sociali per abitanti. È un diritto di tutti i cittadini e tutte le cittadine, a prescindere da dove vivano.
Lo ha stabilito la Legge di Bilancio 2021, che ha definito anche l’obiettivo specifico di 1 assistente sociale ogni 5.000 abitanti e che ha stanziato dei fondi appositi per raggiungerlo.
Anche se pochi lo sanno, questo è un esempio concreto di LEP.
Anzi, per essere precisi, è il LEPS relativo al servizio sociale professionale.
LEP e LEPS sono due acronimi difficili da capire, che hanno però un impatto concreto sulla vita delle persone, soprattutto quelle più in difficoltà. Proviamo a capire meglio perché. E perché proprio ora, a maggior ragione con la sentenza della Corte Costituzionale sull’autonomia differenziata della scorsa settimana, questo tema ha assunto maggiore rilevanza che in passato.
LEP e LEPS
LEP sta per Livelli Essenziali delle Prestazioni, un concetto che nasce con la riforma costituzionale del 2001, che ha previsto un potenziamento delle autonomie regionali e ha attribuito allo Stato la responsabilità di definire dei LEP in materia di diritti civili e sociali.
In pratica, a partire dalla revisione del titolo V della Costituzione, nel momento in cui lo Stato garantisce maggiori competenze alle Regioni decide anche di stabilire dei livelli essenziali da garantire a tutti i cittadini indipendentemente da dove vivano, per evitare che si creino differenze territoriali troppo marcate.
Questo vale per molti e diversi servizi. Dall’istruzione alla tutela dell’ambiente, dalla sicurezza sul lavoro alla ricerca, dai trasporti all’energia fino all’ordinamento sportivo e al governo del territorio.
Vi sono poi delle sottocategorie specifiche di LEP, che prendono altri nomi.
In ambito sanitario ci sono i LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza mentre in quello sociale ci sono i LEPS, come quello che riguarda le assistenti sociali1. Questi ultimi toccano tutti i servizi legati a “qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione, prevenzione, eliminazione o riduzione delle condizioni di svantaggio e di vulnerabilità” 2 e sono anch’essi nati prima dei LEP, seppur di poco, con la legge 328 del 2000 (il loro nome all’epoca era LivEAS – Livelli Essenziali dell’Assistenza Sociale).
In pratica, sia LEA sia LEPS, pur essendo nati autonomamente e precedentemente, sono stati ricondotti all’interno del più grande insieme dei LEP e ne sono diventati dei sottoinsiemi.
Anni di ritardo
Il percorso di definizione e implementazione di LEP e LEPS per lungo tempo è rimasto fermo. La politica, di fatto, non se ne è occupata per anni. Poi, almeno per quanto riguarda i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali qualche passo in avanti è stato fatto.
“Non è mai stata fatta una legge organica e completa sui LEPS”, spiega Franco Pesaresi, direttore dell’Azienda servizi alla persona Ambito 9 di Jesi (Ancona) e grande esperto della materia. “Però – continua – ci sono state diverse leggi settoriali che hanno identificato alcuni livelli essenziali per il settore sociale che si vanno così definendo gradualmente in attesa di una legge quadro”.
“A partire circa dal 2015, si è sviluppata in ambito sociale una ripresa della fase costruttiva e la creazione, una dopo l’altra, di diversi LEPS”, ha scritto in un contributo in uscita per la Rivista delle Politiche Sociali Angelo Marano, economista e dirigente pubblico, che si è occupato direttamente del processo per il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
“Un tentativo di ricostruzione dei LEPS” e di cosa si occupino lo fornisce un documento dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio del febbraio scorso. Complessivamente si tratta di 16 Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali che coprono ambiti diversi, dal servizio sociale vero e proprio alla tutela dei minori, dalle misure di contrasto alla povertà fino all’assistenza alle persone con disabilità o anziane non autosufficienti.
Essendo stati definiti da provvedimenti diversi, e avendo iter diversi e fonti di finanziamento diverse, sono diversi anche i livelli di implementazione di questi LEPS, che sono in larga parte alle fasi iniziali. Quello che ha fatto più strada è sicuramente quello relativo al servizio sociale professionale, da cui siamo partiti (e sui cui risultati ritorneremo tra poco).
Rinnovato interesse
A incidere sullo stallo complessivo dei LEP e sui progressi fatti dai LEPS negli ultimi anni è arrivata la legge 86/2024. È la cosiddetta riforma dell’autonomia differenziata, approvata dal Parlamento in via definitiva lo scorso giugno e che ora è stata messa in discussione dalla sentenza della Corte Costituzionale che ne ha giudicati incostituzionali diversi elementi, compresi alcuni riguardanti proprio i LEP.
Il provvedimento, proposto dal Governo Meloni e fortemente voluto dalla Lega, dava la possibilità alle Regioni di gestire autonomamente competenze ancora maggiori rispetto a quelle attuali e ha quindi fatto tornare d’attualità la definizione dei LEP come rimedio al potenziale acuirsi delle disuguaglianze territoriali.
La nuova legge non incide direttamente sui LEPS perché le politiche sociali sono competenza esclusiva delle Regioni già dalla riforma costituzionale del 2001. A prescindere da quale sarà il futuro della riforma dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale, un’eventuale applicazione dell’autonomia differenziata non toccherà direttamente questo ambito.
Osservare cosa è successo all’assistenza sociale in quasi due decenni, però, può essere istruttivo sia per ipotizzare cosa potrebbe accadere in quei settori dove i LEP vanno ancora definiti sia per capire cosa potrebbe succedere indirettamente agli stessi LEPS.
“Il settore dei servizi sociali – ha scritto Marano sempre sulla Rivista delle Politiche Sociali – è, per molti versi, un antesignano del progetto devolutivo che il governo si propone di attuare con la legge 86/2024”. È un ambito in cui le competenze sono state assegnate alle Regioni ma, per molti anni (dal 2001 al 2015, almeno), i LEPS non sono stati né definiti né implementati.
Il risultato di questo stallo è un sistema dell’assistenza sociale che, ancora oggi, è complessivamente arretrato e geograficamente molto diseguale. Nel 2021, lo stesso Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali scriveva di “molti territori con un’organizzazione del servizio sociale aleatoria, accessoria, discontinua e non integrata con le altre politiche pubbliche”. E da allora, per quanto alcuni miglioramenti ci siano stati, il quadro non si è radicalmente trasformato.
La prima lezione che offrono i LEPS, quindi, è che dare più autonomia senza aver ben stabilito i livelli minimi essenziali non porta a risultati positivi. Non si tratta però dell’unico insegnamento, come dimostra il caso dei LEPS che determinano il lavoro delle assistenti sociali.
Il caso dei LEPS del servizio sociale
Come abbiamo già visto su Secondo Welfare, questo specifico LEPS si concretizza in un rapporto numerico tra assistenti sociali e popolazione residente in ogni ambito territoriale sociale (ATS, che raggruppa più Comuni) che deve essere almeno di 1 a 5.000. Questa soglia è stata fissata dalla Legge di Bilancio 2021, che ha stanziato anche degli appositi fondi per raggiungerla.
A oltre tre anni di distanza, che cosa è successo? L’obiettivo è stato raggiunto? E le disuguaglianze che questo LEPS avrebbe dovuto limitare sono aumentate o diminuite per quanto riguarda questa specifica prestazione sociale?
Nonostante le assistenti sociali nei Comuni siano complessivamente aumentate di circa il 20%, per Marco Burgalassi “il bilancio non è positivo”. Burgalassi, che è docente di Programmazione dei servizi alla persona all’Università Roma Tre spiega che, da un lato, la media nazionale rimane ancora lontana da quanto previsto dal LEPS3. Dall’altro, sostiene, “l’operazione di riequilibrio, con un irrobustimento dei territori meno presidiati, si è dimostrata inefficace” perché i Comuni che avevano più bisogno di assunzioni hanno fatto fatica ad usare i fondi ad essi destinati, che ad oggi sono stati usati solamente per il 40% circa.
La norma avrebbe potuto essere disegnata molto meglio, secondo il professore: “l’esperienza di questo LEPS ci dice che per attivare meccanismi davvero perequativi bisogna valutare l'effettivo punto di partenza e non stabilire parametri, requisiti e standard in maniera astratta”. Per combattere le disuguaglianze, quindi, non basta aver definito (sulla carta) i livelli essenziali delle prestazioni. Servono dei buoni livelli essenziali delle prestazioni, di qualsiasi tipo esse siano, che tengano conto dei bisogni territoriali.
Il caso delle assistenti sociali però, al netto dei risultati, contiene anche alcuni elementi positivi, replicabili soprattutto a livello di processo. Pesaresi, il direttore dell’Azienda servizi alla persona Ambito 9 di Jesi, ritiene che questi tratti positivi siano “i finanziamenti certi, stanziati per realizzare quello che la norma prevede” e la definizione degli obiettivi di servizio.
Nel caso specifico dell’assistenza sociale professionale, il diritto sancito dal LEPS per ogni cittadino italiano, spiega Pesaresi, “è avere a disposizione nel proprio comune un numero di assistenti sociali adeguato alla popolazione mentre l’obiettivo di servizio, che può anche variare nel tempo, è averne 1 ogni 5.000 abitanti (e, come obiettivo di eccellenza, 1 ogni 4.000)”. È una soglia precisa e misurabile. Secondo l’esperto, senza obiettivi di servizio, i LEPS ma anche tutti i LEP “sono privi di contenuti e manterranno le differenze all'interno del nostro paese”.
Il futuro, incerto, dei LEPS
La legge sull’autonomia differenziata avrebbe dovuto probabilmente essere sottoposta a referendum abrogativo. Le firme sono state raccolte, ma il pronunciamento della Corte Costituzionale ora mette in discussione anche questa possibilità. Bisognerà aspettare per capire cosa succederà sia alla legge nel suo complesso sia al percorso di definizione dei LEP che, lo ricordiamo, andrebbe concluso a prescindere dall’autonomia differenziata.
Intanto, però, anche i LEPS risentono di quanto sta accadendo in maniera indiretta.
Marano, nel suo testo per la Rivista delle Politiche Sociali, ha scritto che la nuova legge sull’autonomia differenziata ha causato “una perdita di centralità delle politiche sociali” che ha due conseguenze: il percorso di numerosi LEPS si è bloccato, perché politicamente non più prioritario, e si è smesso di stanziare fondi per la loro implementazione.
Da un lato, l’implementazione dei LEPS che sono stati definiti negli ultimi anni procede a livello regionale e locale, ma “è lentissima e poco presidata da parte del Governo”, dice Pesaresi. Dall’altro, rimangono ancora ampie parti del sistema dell’assistenza sociale per le quali i LEPS devono ancora essere individuati, e questo richiederà l’approvazione di nuovi provvedimenti.
La seconda conseguenza negativa sui LEPS è la mancanza di risorse nuove appositamente allocate per la loro implementazione, come invece è stato fatto positivamente per le assistenti sociali.
“Senza risorse è impensabile individuare LEPS operativi e costruire un sistema strutturato con garanzie minime uniformi sul territorio nazionale. D’altra parte, laddove in qualche modo si individuino LEPS operativi parziali, finanziati non con risorse nuove, bensì attraverso la mera riallocazione di fondi già esistenti, si rischia di privare fasce di utenti in condizioni di bisogno dei servizi loro destinati a favore di altre [fasce]”, ha scritto ancora Marano.
Se questi due nodi non verranno sciolti, difficilmente il sistema dell’assistenza sociale continuerà il percorso iniziato per superare i problemi di arretratezza e disomogeneità che storicamente lo caratterizzano.
Inoltre, secondo l’esperto di LEPS Pesaresi, c’è un ulteriore rischio incombente, qualora l’autonomia differenziata venisse implementata.
“Le differenze tra le Regioni aumenteranno e questo avrà ripercussioni anche nel settore sociale”, dice il direttore dell’Azienda servizi alla persona Ambito 9 di Jesi. A suo parere, quindi se le disuguaglianze negli ambiti toccati dalla riforma cresceranno queste finiranno per incidere anche sulle politiche sociali, che invece non sono direttamente coinvolte nel processo di definizione di una maggiore autonomia regionale.
“Pensiamo all’istruzione. La Regione Veneto, con l’autonomia differenziata, vorrebbe gestire le assunzioni della scuola e quindi anche quanti saranno gli insegnanti di sostegno per gli alunni con disabilità. Questo avrebbe una forte ricaduta sui servizi sociali”, spiega Pesaresi. Se, come i critici dell’autonomia differenziata sostengono, la riforma porterà alcune Regioni ad avere meno fondi e quindi, ipoteticamente, a poter assumere meno insegnanti di sostegno, le conseguenze diventerebbero concrete, ed evidenti.
“Avere o non avere gli insegnanti di sostegno, cambia il tipo di intervento che deve fare un Comune [nell’ambito dei servizi sociali], ma anche la vita di una bambina o di un ragazzino con disabilità”, conclude Pesaresi.
Note
- La professione è composta per più del 93% da donne. Per questo motivo abbiamo scelto, nell’ottica di un linguaggio inclusivo, di alternare nell’articolo la declinazione femminile e quella maschile.
- . La definizione è contenuta nel Rapporto del Comitato tecnico scientifico con funzioni istruttorie per l’individuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, disponibile qui.
- Secondo gli ultimi pubblicati dati dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, aggiornati al 2022, per raggiungere il LEPS di un assistente sociali ogni 5.000 abitanti in ogni ATS italiana mancano in tutto 3.216 assistenti sociali. Nel 2022, l’Italia (al netto delle province autonome di Trento e Bolzano) aveva 9.858 assistenti sociali per una popolazione di 57.820.058 abitanti quindi in media di un assistente ogni 5.875 abitanti.