5 ' di lettura
Salva pagina in PDF

C’era una volta uno Stato Sociale che allargava i suoi confini, per garantire diritti e sostegno a un numero sempre più ampio di persone. Non è mai arrivato a proteggere proprio tutta-tutta la cittadinanza, comprese le fasce più marginali, ma almeno andava in quella direzione.

Oggi, invece, il welfare in Europa esclude. E lo fa sulla base dell’identità, della cultura, dell’appartenenza.

É questa la tesi sostenuta dal volume “Prima agli italiani. Welfare, sciovinismo e risentimento”, appena pubblicato da Il Mulino e dedicato al lavoratore indiano morto nelle campagne di Latina Satnam Singh. Gli autori sono i sociologi Enrico Gargiulo, Enrica Morlicchio e Dario Tuorto, che insegnano rispettivamente all’Università di Torino, alla Federico II di Napoli e all’Università di Bologna.

“Con l’affermazione dei partiti della destra radicale – scrivono – il tema del welfare ritorna al centro dell’attenzione”. “La sfida – si legge – è ora quella di ridefinire in senso restrittivo, non più espansivo, l’accesso alla comunità dei meritevoli”.

Chi si merita il welfare?

L’idea di meritevolezza è centrale nel libro dei tre docenti ed è importante metterla in prospettiva storica, come spiega a Secondo Welfare la professoressa Morlicchio: “nel campo del welfare, questo concetto nasce in Inghilterra nel 1834, quando venne riformata una legge sui poveri. Non era un giudizio morale, ma la descrizione di una condizione in relazione al mercato del lavoro: i poveri meritevoli di assistenza erano quelli che non erano in condizione di lavorare, come le vedove e gli orfani. Chi invece poteva lavorare, non lo era”.

Quasi due secoli dopo, quel criterio torna con lo sciovinismo1 del welfare.

E viene distorto, interpretato in maniera diversa.

La meritevolezza ora si basa sul tempo di permanenza di una persona in un determinato Paese o, più in generale, su aspetti legati all’identità, all’appartenenza a un determinato gruppo nazionale, prosegue la professoressa. E, dunque, come si legge nel libro, “lo sciovinismo del welfare è una forma di messa al bando, o di inserimento subordinato, delle persone immigrate nella società «ospitante» che nasce in un determinato contesto storico e alimenta dinamiche di discriminazione istituzionale”.

A promuovere questa visione sono innanzitutto – ma non solo – i partiti politici di destra radicale.

L’impatto della destra populista-radicale sullo Stato sociale

Gli immigrati rappresentano per la destra radicale il gruppo più concreto che può essere biasimato, sia perché sono considerati concorrenti sul mercato del lavoro e nell’accesso al welfare sia per i valori e le caratteristiche che essi incarnano contrapponendosi all’identità nazionale”, si legge ancora nel libro.

Questa narrazione, sempre più spesso, si traduce in politiche e misure concrete, con aspetti paradossali rispetto al concetto originario. Perché l’insistere sugli aspetti identitari della meritevolezza finisce per rendere non meritevoli anche categorie di persone che sono inserite nel mercato del lavoro, spesso in maniera regolare, o che dovrebbero essere considerate deboli per eccellenza, come i minori. “Pensiamo ad alcune norme locali per limitare l’accesso alla mensa scolastica o a quelle nazionali per i sostegni alle famiglie”, riprende Morlicchio.

Dalle mense di Lodi al reddito di cittadinanza

Il volume scritto da Gargiulo, Morlicchio e Tuorto è ricco di esempi di sciovinismo del welfare nel nostro Paese: casi in cui il welfare ha dato “prima agli italiani”, per parafrasare il titolo, o, per essere più precisi, ha trovato modi per escludere gli stranieri.

Tuorto, parlando anch’egli con Secondo Welfare, spiega che, a suo parere, una delle vicende più emblematiche è quella di Lodi. Nel comune lombardo, nel 2017, una sindaca della Lega ha approvato una serie di richieste burocratiche che hanno reso molto complicato, se non impossibile, per le famiglie straniere ottenere ottenere tariffe ridotte per mense scolastiche e scuolabus.

“In questa storia – spiega il docente dell’Università di Bologna – si è manifestato l’attrito tra il diritto dei minori e la presunta non meritevolezza dei loro genitori, tacciati di essere degli «scrocconi del welfare» e degli stranieri approfittatori”. 

Reddito di Cittadinanza: il tema centrale dell’occupabilità

Il provvedimento generò una grande eco mediatica, ma si rivelò fragile dal punto di vista giuridico. L’anno successivo, infatti, il Tribunale di Milano ne ha riconosciuto il carattere discriminatorio e nel 2020 la Corte d’appello ha confermato la sentenza.

Secondo Tuorto, il caso di Lodi ha colpito molto l’opinione pubblica “sul piano simbolico”, mentre, pochi anni dopo, “è passato tutto sommato inosservato” il requisito molto stringente dei 10 anni di residenza per accedere al Reddito di Cittadinanza. “Si è trattato di uno strumento molto innovativo di contrasto alla povertà che, però, non andava a coprire una parte importante della popolazione. Eppure, se ne è discusso poco”, chiosa il professore, ricordando come anche in questo caso è stata la magistratura europea a cancellare il provvedimento.

Alle origini dello sciovinismo

Il volume “Prima agli italiani”, però, oltre ad occuparsi di attualità, si mette anche a scavare nel passato, per capire le ragioni di questi atteggiamenti ormai largamente diffusi non solo nel nostro paese, ma in tutta Europa.

Il punto di partenza, riprende Morlicchio, è che “i sistemi di welfare nascono attorno agli Stati nazione e si affermano in una fase storica come il secondo dopoguerra in cui gli Stati continuano ad essere molto importanti”. La conseguenza è che nascono per includere comunità abbastanza precise e, sostanzialmente, per proteggere la popolazione di un dato territorio. Così, anche quando l’economia occidentale ed europea ha vissuto il suo periodo considerato migliore, i cosiddetti “Trenta gloriosi” tra il 1945 e il 1975, questo tratto non è svanito.

Secondo i tre sociologi, “lo sciovinismo del welfare, nella sua forma attuale, rappresenta il frutto amaro dei «Trenta gloriosi», durante i quali sembrava che una serie di prerogative e conquiste sociali proprie dei cittadini di un determinato Paese europeo potessero essere godute anche dagli immigrati inclusi nei sistemi nazionali di welfare”.

L’Italia in debito verso i migranti

Per molti stranieri, arrivati in Europa in quegli anni e soprattutto nei successivi, così non è stato. Così, pochi decenni più tardi, le istanze chauviniste hanno preso piede proprio nei Paesi con un welfare più sviluppato. “I partiti della destra radicale e populista hanno vissuto una fase di grande spinta e successi, soprattutto dopo il 2008. Il contesto geografico che li ha visti originariamente protagonisti è stato quello nordeuropeo, in particolare scandinavo. Tra i diversi casi nazionali, il Partito popolare danese è stato un pioniere in questo ambito e il suo avanzamento elettorale, così come l’influenza che ha avuto sulla politica del governo, ha favorito lo sdoganamento di posizioni rivendicate come scioviniste da altri partiti, come i Democratici svedesi e i finlandesi True Finns”, si legge nel quinto capitolo del libro.

In quei contesti in cui lo Stato Sociale è generoso, quindi, i partiti di destra radicale hanno proposto di escludere gli stranieri per mantenere tale il sistema. In quei Paesi, invece, dove il welfare è meno strutturato, come l’Italia, il motivo dello sciovinismo sono proprio i limiti di servizi e prestazioni, che non possono essere ulteriormente messi sotto pressione.

In entrambi i casi, vi è una logica, che funziona grazie al contesto attuale.

Le uniche politiche possibili

“Oggi si intrecciano due dimensioni. Vi è la crisi del welfare, che ha difficoltà a soddisfare i bisogni crescenti e si muove all’interno di un paradigma neoliberale che mette in discussione l’intervento pubblico e che risulta sempre più in crisi esso stesso. E vi è la crescita di quegli attori politici di destra che, in questo contesto, utilizzano lo strumento nazionale e culturale anche per definire l’accesso al welfare”, spiega Tuorlo.

La seconda si innesta sulla prima. E infatti, in un altro passaggio del libro, si legge che lo sciovinismo del welfare, è “determinato da un lato dalle crescenti tensioni cui sono sottoposti gli attuali sistemi di capitalismo democratico, che hanno rimesso in discussione il compromesso socialdemocratico del dopoguerra, dall’altro dai problemi dovuti al fallimento del progetto neoliberista, da cui deriva la spinta nella direzione di un rinnovato ruolo dello Stato”.

È un punto su cui il volume “Prima agli italiani” insiste molto e che il professore prova a spiegare in maniera ancora più precisa: “se non si fanno politiche di prevenzione, le disuguaglianze crescono. Ma la spesa di welfare non viene aumentata. E così, l’unica opzione che rimane ai governi per affrontare queste disuguaglianze crescenti è selezionare i beneficiari delle politiche sociali”.  

Lo sciovinismo, quindi, è inevitabile? Secondo gli autori, no e, infatti, il libro contiene diverse proposte per invertire la rotta. Riuscirci, però, non sembra per niente facile.

 

Note

  1. Secondo l’enciclopedia Treccani, lo sciovinismo è un “nazionalismo esclusivo ed esaltato, che si esprime in un’aprioristica negazione dei valori e dei diritti degli altri popoli e nazioni. Il termine, che viene dal francese e si può scrivere anche chauvinismo, si usa per estensione anche per indicare un certo “campanilismo o uno spirito di parte gretto e intransigente”. Deriva dal nome di Nicolas Chauvin, soldato dell’impero napoleonico, che venne rappresentato in alcune commedie per caratterizzare il patriota esaltato e fanatico.
Foto di copertina: Cuvin, Unsplash