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Ripartire dalla sfida del lavoro. L’edizione 2024 del Tempo delle Donne ritorna sul tema già affrontato dieci anni fa. Non tanto per celebrare i (pochi) successi, ma per sottolineare i persistenti ritardi italiani e rilanciare l’agenda donne nell’azione di governo e, più in generale, nel dibattito pubblico. I ritardi riguardano il passato: segnalano tempo perduto, traguardi non raggiunti, problemi non risolti. C’è tuttavia un secondo aspetto. Chi è in ritardo trascura il futuro, non coglie le opportunità e le minacce delle trasformazioni in corso.

Nei Paesi che hanno fatto più strada di noi, la sfida della quantità (tassi di occupazione, divari di rappresentanza e retribuzione) sta ormai passando in secondo piano rispetto alla sfida della qualità: le implicazioni di genere della rivoluzione tecnologica. Cacciate dalla porta, le disparità rischiano di rientrare dalla finestra, creando nuove penalizzazioni connesse alla collocazione occupazionale delle donne in termini di contenuti e opportunità lavorative.

La trappola dei ritardi, che però può essere una leva

Questi nuovi temi figurano poco nella discussione (men che meno nell’agenda politica) nazionale. E tale disattenzione può trasformare i nostri ritardi in una vera e propria trappola. Anche se riuscissimo a colmare entro il 2030 (la scadenza fissata dalla Ue) il nostro deficit di occupazione femminile rispetto agli altri Paesi, ci troveremmo impreparati di fronte alla nuova sfida della qualità, nel frattempo diventata più acuta.  C’è però anche un’altra possibile opzione: chiamiamola il “salto della rana”. Con la dovuta accortezza e lungimiranza, potremmo far leva sul ritardo per modellare gli sviluppi futuri, affrontando in parallelo le due sfide, quantità e qualità.

Un’operazione ambiziosa, ma non impossibile. I numeri e le percentuali del ritardo sono noti. Il divario fra il tasso di occupazione maschile e femminile è fermo a 18 punti (2022): in Italia lavora il 69,2% degli uomini, ma solo il 51,1% delle donne. Il divario medio Ue è pari a 11 punti, in Francia a 6, in Germania a 8. Nei Paesi nordici (baltici inclusi) è sotto al 5. Per quel che riguarda il cosiddetto pay gap, nel settore privato un’ora di lavoro femminile viene ancora pagata il 15% in meno rispetto a un’ora maschile, a parità di mansioni. Insieme alla diffusione del part-time, alle frequenti interruzioni di carriera, alle minori opportunità di progressione (basta guardare alla bassissima percentuale di donne in posizione dirigenziale nelle imprese quotate), il pay gap si riflette inevitabilmente anche sull’adeguatezza delle prestazioni sociali.

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Tutte e tre le dimensioni della disparità lavorativa sono rilevanti e hanno effetti negativi. Al divario del tasso di occupazione va prestata tuttavia particolare attenzione. Le donne adulte non occupate subiscono anch’esse gravi penalizzazioni. Prima fra tutte quella di trovarsi in condizioni di inattività involontaria, per difficoltà di conciliazione oppure per mancanza di opportunità d’impiego nel contesto di residenza. L’employment gap crea una distribuzione iniqua e inefficiente di risorse, tempi e dunque libertà. E, com’è ormai risaputo, ha ripercussioni negative sulla demografia. Le coppie italiane fanno la metà dei figli che pure vorrebbero.

A dieci anni di distanza (e a costo di sembrare ripetitivo), il Corriere ha aggiornato e rilanciato l’Agenda FAST (politiche per la Famiglia, Asili, Servizi e Tempi) per contrastare la denatalità. Per allinearsi agli standard Ue, bisognerebbe spendere circa un punto di Pil in più. Ma ricordiamo che tali risorse favorirebbero sia la natalità sia l’occupazione femminile e dunque la crescita del Pil. Un investimento sociale con doppio ritorno.

La nuova sfida della qualità

Ma veniamo alla nuova sfida della qualità. Il mondo del lavoro sta oggi subendo l’impatto di una incisiva rivoluzione tecnologica, incentrata su Intelligenza Artificiale, big data, nuovi strumenti di comunicazione e informazione, robotica e così via. Secondo alcune stime, negli Stati Uniti quasi la metà dei posti di lavoro sono a rischio di automazione, totale o parziale. Vi sono ampi margini perché le perdite dei vecchi posti possano essere compensate dalla creazione di nuovi, ma la transizione richiede massicci sforzi di riqualificazione.

Le donne rischiano più degli uomini. Nel comparto industriale, con maggiore incidenza di occupati maschi, l’innovazione tecnologica tende a colpire soprattutto i lavoratori con basse qualifiche. Nei servizi, ove le donne sono sovra rappresentate, l’impatto è pervasivo e si estende anche alle qualifiche più elevate. I dati segnalano che le competenze digitali delle donne sono inferiori a quelle degli uomini, soprattutto fra le lavoratrici immigrate.

Le lavoratrici donne hanno in media meno accesso ai corsi di formazione e aggiornamento professionale. A guadagnare in termini sia di quantità sia di qualità saranno soprattutto le occupazioni dei settori Stem, a prevalenza maschile. Un recente studio del Fondo Monetario Internazionale ha stimato che in un Paese come il Giappone (con ritardi simili a quelli italiani) l’allineamento fra le competenze Stem di uomini e donne aumenterebbe il tasso di crescita del 20%, oltre che offrire a molte più donne accesso a occupazioni di qualità. L’invecchiamento demografico richiederà un’espansione dei servizi di prossimità: senza una incisiva modernizzazione del settore, donne rischiano di vedersi relegate in occupazioni poco qualificate e mal retribuite.

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C’è poi la sfida del lavoro flessibile e da remoto. Sappiamo che questo può migliorare notevolmente la qualità della vita. Ma ci sono due tipi di flessibilità: quella employee-driven, che facilita la conciliazione e quella employer-driven, che rischia invece di renderla ancora più difficile, offuscando i confini tra lavoro e vita personale. Le donne hanno maggiore probabilità di subire questo secondo tipo di flessibilità. Tutte queste sfide già interessano il nostro Paese.

La strategia virtuosa, che ho chiamato più sopra “salto della rana”, dovrebbe porsi due obiettivi paralleli: incrementare progressivamente il tasso di occupazione femminile e contenere il più possibile i rischi di degrado qualitativo del lavoro connessi all’innovazione tecnologica. Ciò implicherebbe l’elaborazione di un’agenda incentrata sulle competenze (in particolare quelle Stem), sulla formazione, sulle politiche retributive e di conciliazione. Possiamo farcela?

I mancati obiettivi del Pnrr e dati che non ci sono

Quando è stato lanciato, il Pnrr ci ha offerto questa possibilità. Nel 2021 il governo Draghi ha definito una Strategia Nazionale sull’eguaglianza di genere che per molti aspetti combinava obiettivi quantitativi e qualitativi. Sfortunatamente, ben poco di tale strategia è stato realizzato, a parte le misure sulla certificazione sulla parità di genere.

Peraltro mancano i dati per sapere esattamente che cosa è stato attuato, con quali effetti. E così arriviamo alla sorgente dei ritardi italiani, alla loro causa prima: la cronica incapacità di gestire le politiche pubbliche, di passare dalle parole ai fatti. Come ci ha rimproverato la Commissione Ue nel suo Country Report del maggio scorso, sulle pari opportunità il Pnrr è stato finora un’occasione mancata.

Il Piano scadrà nel 2026: ci sarebbero ancora due anni e tre mesi per correggere la rotta. Ci sono anche gli interventi da inserire nel Programma strutturale di bilancio, che va presentato a Bruxelles entro il 20 settembre. La demografia è in teoria una delle priorità di questo governo. Se si vuole passare dalle parole ai fatti, il momento giusto per decidere è adesso.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera il 15 Settembre 2024 ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore

Foto di copertina: Austin Santaniello, Unsplash