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Forse non ce ne siamo accorti, ma quella del 2024 è stata l’estate della casa. Il tema dell’abitare non ha occupato le prime pagine dei giornali, non ha scatenato dibattiti politici estivi e, come avviene troppo spesso, non ha goduto dell’attenzione che meriterebbe.

Eppure, di occasioni ce ne sono state per affrontare una questione trasversale e cruciale per il nostro Paese. In questi mesi, ci sono stati almeno tre elementi che sostengono questa ipotesi. E, come si sa, tre indizi fanno una prova.

Il primo è la tragedia di Scampia, che il 22 luglio ha causato 3 morti, 13 feriti e circa 800 sfollati. Aldilà delle cause, che sono in fase di accertamento, l’episodio ben racconta la condizione in cui versa una larga parte dell’edilizia popolare del Paese. Complesso di edilizia residenziale pubblica (le cosiddette case popolari) avviato nel 1962, divenuto negli anni centro di degrado, malavita e abusivismo, ma anche terreno di azioni di civismo e rinascita dal basso, le vele di Scampia hanno vissuto in passato anche qualche tentativo di riqualificazione, che però non si è mai completata per diverse ragioni, fino agli eventi recenti.

Scampia non è un’eccezione

Ma Scampia non è un caso isolato: ci sono molti altri esempi di edilizia popolare che versano nelle stesse condizioni di degrado, al limite dell’agibilità, o occupati anche se inagibili, ma che restano abitati semplicemente perché non c’è un’alternativa, perché non c’è altra soluzione per gran parte di chi ci vive.

Quanto sta accadendo agli sfollati di Napoli è emblematico in questo senso. Fino a dicembre 2025 riceveranno un contributo mensile che va da 400 a 900 euro per nucleo familiare, con cui pagare un’abitazione in affitto nel mercato privato. Ma, stando alle testimonianze, molti di loro non trovano case da affittare, perché hanno troppe caratteristiche che li rendono “soggetti a rischio” agli occhi di agenzie e proprietari. Hanno figli minori, sono spesso disoccupati e vengono da un quartiere che viene considerato come un brutto biglietto da visita. Così, pur avendo anche incassato le prime mensilità del contributo con cui potrebbero pagare un alloggio, molte famiglie non sanno dove andare.

Abitare collaborativo: una risposta potenziale all’esclusione (abitativa)?

È un dramma nel dramma. Ma è anche la dimostrazione di come i contributi alle spese nel mercato privato siano degli strumenti che hanno grandi limiti quando vengono usati dalle famiglie più vulnerabili. Questi nuclei, infatti, non riescono proprio ad accedere al mercato e, quando lo fanno, tocca loro solo la componente più fatiscente. Eppure, negli ultimi trent’anni, è proprio su questi strumenti che si è basato il sostegno alla casa nel nostro Paese.

Il caso di Scampia, quindi, testimonia quanto l’Italia abbia bisogno di un piano casa strutturato e di lungo respiro su molti fronti, dall’accesso alla casa al rischio idrogeologico fino alla sostenibilità ambientale. Invece, manca una strategia complessiva che tenga insieme questi aspetti.

Negli ultimi anni l’unica spinta significativa per cambiare le cose viene dal PNRR, che in diverse delle sue Missioni prevede interventi legati vario modo al tema dell’abitare. I suoi fondi, però, rimangono insufficienti per soddisfare la domanda abitativa che arriva non solo dalla componente più fragile della popolazione, ma anche dal ceto medio. Questo è vero soprattutto in quei contesti in cui i costi abitativi espellono sempre più residenti, tra cui molti attuali e potenziali lavoratori, con evidenti ripercussioni sui servizi.

Solo a Milano, secondo i dati diffusi lo scorso luglio – si stima manchino 300 autisti Atm (l’azienda del trasporto locale) e 700 dipendenti, mentre 796 docenti lasceranno la città nel prossimo anno scolastico per altre destinazioni. Nella sanità pubblica, in tutta la Lombardia, mancano 2.500 infermieri e 700 medici. E, tra le ragioni che vengono riportate per la carenza di tutti questi diversi tipi di lavoratori c’è sempre anche il costo della casa.

Il piano “Salva casa” non migliora l’abitare

Il secondo indizio di questa calda estate della casa è stata a fine luglio l’approvazione del cosiddetto piano “Salva casa”. Il nome farebbe presagire grandi cose per il tema di cui ci stiamo occupando, ma in realtà si tratta di un provvedimento volto a semplificare e sburocratizzare alcune questioni relative alla casa, ma che non prevede significativi miglioramenti per l’abitare nel suo insieme. Anzi, tra le altre cose, il nuovo decreto dà il via alle cosiddette “mini-abitazioni”: saranno considerati abitabili i monolocali di 20 metri quadrati (ora la misura minima è 28) purché occupati da una sola persona; per due abitanti il minimo scende dagli attuali 38 a 28 metri. Inoltre, sarà più facile rendere abitabili i sottotetti.

Si tratta di scelte che contrastano con la necessità di migliorare la qualità dell’abitare.
Che, a causa della crisi climatica, diventa sempre più importante.

Durante le estati, infatti, sempre più spesso, testiamo con mano quanto, soprattutto nelle aree urbane, le nostre abitazioni siano invivibili a causa delle alte temperature.

Il caldo non è uguale per tutti: i risvolti sociali del cambiamento climatico

Se l’attenzione si è concentrata a lungo su come scaldare le abitazioni e come evitare dispersioni di calore, molto meno si è pensato a come raffreddarle. Le temperature interne agli edifici sono in parte frutto di comportamenti dei residenti (come chiudere le finestre e schermare la luce solare, evitare di accendere il forno, ecc.) e in parte delle caratteristiche delle abitazioni (materiali di costruzione, altezza dell’edificio, presenza/assenza di verde e alberi intorno all’abitazione, pendenza del tetto, ecc.). Ciononostante, pochi Paesi europei hanno una normativa edilizia sufficientemente sofisticata da incidere sul contenimento del calore.

La strategia più adottata è quella di ricorrere all’aria condizionata, che alcune città statunitensi hanno iniziato a rendere obbligatoria per chi dà in affitto una casa. Va però ricordato che è una soluzione molto energivora, che resta economicamente inaccessibile per tanti nuclei a basso reddito e che, infatti, in Italia è diffusa solo tra il 48% delle famiglie.

Non è solo una questione di abitazioni. Anche l’influenza dell’ambiente esterno gioca un ruolo. Cemento e asfalto assorbono molto più calore rispetto a un volume equivalente di terreno, funzionando come una spugna che assorbe calore e radiazioni solari per poi rilasciarle mantenendo le temperature molto alte anche quando queste dovrebbero diminuire, per esempio di notte. Piantumare alberi e prevedere aree verdi sarebbe dunque fondamentale per abbassare le temperature, ma non ci sono grandi vincoli in questo senso.

Se di recente molte amministrazioni stanno provando a limitare il consumo di suolo (che pure continua a crescere, secondo i dati Ispra), contenendo le nuove costruzioni in aree non edificate, molto poco si fa su quelle già edificate. Gli interventi di ristrutturazione e di sostituzione edilizia, molto spesso, nella realtà, finiscono per far sparire alberi e aree verdi per aumentare la superficie delle abitazioni, creare posti auto e limitare gli oneri della manutenzione del verde per condomini e residenti.

Abitazioni vecchie e vuote

Infine, ecco il terzo e ultimo indizio: a inizio agosto Istat ha pubblicato i dati sulle caratteristiche delle abitazioni derivati dal Censimento permanente del 2021. Fotografano un territorio molto edificato, dove le abitazioni sono in sovrannumero e spesso vecchie e vuote.

Le abitazioni non occupate (che comprendono sia le abitazioni vuote sia quelle occupate solo da persone non residenti o che non vi dimorano abitualmente) corrispondono al 27,2% delle abitazioni complessive del nostro Paese. Circa il 36% delle abitazioni sono state costruite tra il 1961 e il 1980, a cui si aggiunge un 32% di abitazioni costruite precedentemente e un 20% edificato tra il 1981 e il 2000. Nel 2021, gli alloggi non convenzionali, come mobile-home, baracche, cantine, garage occupati da persone residenti ammontavano ancora a 39.917, con la quota maggiore al Sud.

Come supportare il senior housing in Italia?

Istat descrive un Paese in cui il patrimonio abitativo è in sovrannumero, vetusto, spesso insicuro dal punto di vista strutturale e inefficiente da quello ambientale. Parte di questo patrimonio potrebbe essere riqualificato per rispondere alla domanda abitativa della popolazione più vulnerabile, ma anche il resto della popolazione deve fare i conti con la necessità di adeguare le proprie abitazioni al passare del tempo e al cambiamento climatico, a maggior ragione dopo l’approvazione Ue della la cosiddetta direttiva “case green”.

Il problema della casa, quindi, già oggi è sentito da un numero crescente di persone. E lo sarà ancora di più in futuro. Quella abitativa è un’emergenza latente, pronta a scoppiare mano a mano che questa quota di persone crescerà. Ma è anche ormai una cronica realtà: studiosi ed esperti denunciano da anni l’insostenibilità della situazione e l’inazione di gran parte della politica, soprattutto quella nazionale.

E così, mentre questa calda estate sul fronte dell’abitare si avvia alla conclusione, la questione casa rimane tutt’altro che chiusa. Per risolvere il problema abitativo in Italia, serviranno parecchie stagioni di impegno.

 

 

Per approfondire

 

Foto di copertina: Kranich17, Pixaby.com