Continuano gli approfondimenti a cura del gruppo di ricerca di WePlat, progetto che sta studiando le piattaforme di welfare italiane. Dopo gli articoli sul processo di mappatura, sulla mancata uberizzazione, sull’importanza del design e sulla reputazione, nell’articolo che segue approfondiamo il tema della scalabilità. |
Nel dibattito sull’innovazione sociale un tema che rimane centrale (e controverso) riguarda i modelli di crescita. Come è possibile che innovazioni radicate in specifici contesti e legate alle vicende di particolari attori possano travalicare i confini del loro “qui ed ora” generando così quelle trasformazioni di natura sistemica che appaiono quanto mai urgenti in questa fase storica?
Da questo punto di vista le piattaforme di welfare indagate dal progetto di ricerca WePlat rappresentano un buon banco di prova rispetto alla scalabilità dell’innovazione sociale. Lo sono perché, in effetti, molte di esse si configurano (e in più di un caso si rappresentano) come innovazioni sociali, ovvero come agenti in grado di proporre nuove soluzioni attraverso una intenzionale ricombinazione dei sistemi di relazione tra diversi soggetti e inoltre, particolare non da poco, attraverso un utilizzo mirato di infrastrutture tecnologiche che agiscono proprio in senso relazionale.
Il tutto in un campo, quello del welfare, dove le sfide da affrontare certo non mancano perché si manifestano attraverso problematiche inedite e perché richiedono di far fronte, per l’appunto, a “salti di scala” relativi a problematiche già conosciute.
La sfida della crescita nelle diverse piattaforme di welfare
Dunque le piattaforme di welfare si pongono, sia in termini strategici che gestionali, il tema della crescita? E se sì come la modellizzano? Dalla lettura della reportistica di ricerca emergono indicazioni interessanti che per essere adeguatamente approfondite necessitano di recuperare la tripartizione elaborata nella prima fase di mappatura di WePlat ovvero piattaforme di welfare aziendale, piattaforme territoriali e piattaforme digitali.
Una tassonomia che utile non solo per segmentare il campo di indagine ma sempre più per comprendere il funzionamento delle piattaforme di welfare, in particolare guardando alle modalità attraverso cui riescono a incorporare logiche organizzative e in senso lato culturali di varia natura che contribuiscono a renderle peculiari sia al loro interno ma anche nei confronti delle piattaforme mainstream.
Welfare aziendale: prestazioni per il capitale umano
Per il welfare aziendale la sfida di crescita consiste nel tentare di ridefinire la propria arena mercantile, invertendo la tendenza alla voucherizzazione attraverso buoni spesa e fringe benefit e rilanciando un’offerta di welfare “in senso stretto”, fatta cioè di prestazioni di servizio che rispondono direttamente a esigenze di cura, educazione, salute, ecc.
La mappatura effettuata da WePlat, infatti, evidenziava che molte piattaforme di welfare aziendale sono scarsamente dotate di un vero e proprio sistema di welfare rischiando così di polverizzare la propria proposta di valore attraverso trasferimenti monetari che pur rilevanti in sé faticano a riconfigurarsi come veri e propri “piani” capaci di incidere positivamente sulla qualità della vita delle persone e dei contesti in cui esse vivono e lavorano.
Uno zoccolo duro prestazionale potrebbe consentire al welfare aziendale di diffondersi attraverso un miglior insediamento a livello organizzativo e sempre più spesso territoriale configurandosi così come un vero e proprio asset aziendale relativo al capitale umano. Un aspetto, quest’ultimo, tutt’altro che banale in un mercato del lavoro come quello attuale dove la contrattazione è chiamata sempre più integrare dimensioni economiche, di competenza e motivazionali riguardanti quindi non solo il modo ma anche il perché si lavora.
Welfare territoriale: livelli minimi e integrazione
Nel caso delle piattaforme di welfare territoriali la sfida di crescita consiste invece nel ripensare le modalità di formazione e di gestione delle filiere di offerta ricercando un nuovo equilibrio tra scalabilità per radicamento/adattamento e scalabilità per diffusione/evoluzione.
Il bilanciamento tra queste esigenze è legato a ben note questioni di ritorno sull’investimento rispetto a piattaforme che intermediano sistemi di offerta tagliati su misura rispetto ai bisogni e quindi in linea con quei modelli di “welfare sociale localizzato” che negli ultimi decenni si sono strutturati secondo logiche di personalizzazione rispetto alla domanda e di valorizzazione delle peculiarità e competenze sul versante dell’offerta. Ma oggi la vera e propria sfida consiste nel contribuire a definire un sostrato comune fatto di “livelli minimi” prestazionali che consenta di riequilibrare i notevoli divari territoriali che ancora permangono anche tra territori limitrofi, oltre che lungo le classiche “dorsali” macroregionali (nord, sud) piuttosto che tra altre contesti (urbani e “interni”).
Da questo punto di vista sarà interessante monitorare il modo in cui le piattaforme di welfare territoriale sapranno integrarsi verticalmente non solo per propria scelta di efficienza e sostenibilità ma anche per contribuire ad attuare policy nazionali – come la riforma della non autosufficienza o i progetti PNRR sugli asili nido – che vanno proprio nell’ottica, dopo anni di assenza, di ricostruire basi unitarie del welfare a livello nazionale.
Welfare “native digitale”: non solo algoritmi
Infine, ma non per ultime essendo anche il gruppo più numeroso, occorre guardare alle piattaforme di welfare “native digitali” cioè che non derivano da percorsi di sola digitizzazione di servizi e sistemi di offerta offline.
In questo caso il discorso sulla crescita parrebbe facilmente incanalarsi nella modellistica – e nella narrativa – dello scaling up digitale basato su meccanismi di specializzazione e disintermediazione dell’offerta che consente di aprire e colonizzare ampi spazi di mercato. In questo senso, ma è un tema che avremo modo di approfondire nei prossimi post, giocano un ruolo chiave gli attori dell’ecosistema digitale che incubano, accelerano e finanziano startup anche nel campo del welfare e sempre più spesso in modalità piattaforma.
In realtà alcuni casi studio di WePlat sembrano definire un quadro parzialmente diverso, ad esempio osservando l’utilizzo delle “care e vecchie” logiche di gerarchia come modalità di coordinamento e di matching tra domanda e offerta che si immaginavano ormai completamente delegate a soluzioni algoritmiche. Un risultato per certi versi sorprendente considerata la preponderanza, anche in termini ideologici, delle risorse e della mentalità digital nell’influenzare lo sviluppo in una molteplicità di settori, welfare compreso.
La gestione della community
Esiste inoltre un elemento trasversale che contribuisce, per tutte le tipologie di piattaforma di welfare, a fare la differenza ovvero la conformazione e le modalità di gestione di community che nella maggior parte dei casi non riguardano coloro che beneficiano delle attività, ma soprattutto i provider che in forme e modi diversi alimentano l’offerta recuperando in questo modo soggettività collettive riconducibili a comunità di pratica.
Si tratta, va detto, di assetti ancora fluidi perché il welfare in piattaforma è ancora una fenomenologia in divenire. Proprio per questa ragione riteniamo utile definire sia lo stato dell’arte (in termini di quantificazione e caratteristiche tipologiche) sia provare a condividere in chiave collaborativa elementi di design infrastrutturale di queste piattaforme.
L’appuntamento è fissato il prossimo 17 maggio a Milano presso la Fondazione Feltrinelli. L’augurio è di incontrare e fare interagire tutti coloro che si riconoscono come “addetti ai lavori” (gestori, designer, fornitori, finanziatori, beneficiari ecc.) in una fase così delicata per la crescita e la progressiva affermazione delle piattaforme di welfare.