Dopo l’articolo sul processo di mappatura e quello sulla mancata uberizzazione, continuano gli approfondimenti proposti dal gruppo di ricerca di WePlat, che sta studiando le piattaforme di welfare italiane. |
Da Uber in poi, ad un certo punto, tutto è diventato piattaforma. Con una certa semplificazione ogni servizio o vetrina che si presentava sul digitale ha iniziato a essere chiamata piattaforma. In quel momento, intorno alla prima metà degli anni dieci del Duemila, all’interno di un contesto di discussione e ricerca che si materializzava in un evento chiamato Sharitaly – dove gran parte del gruppo di lavoro di Weplat si è formato -, abbiamo iniziato a riflettere su cosa distingueva, dal punto di vista del design, un servizio a piattaforma da quello tradizionale.
Questo ero reso urgente anche dal fatto che, a quel tempo, si assisteva alla continua nascita di tante piattaforme italiane che proponevano idee innovative (e fra questi già crescevano i servizi dedicati al welfare) che faticavano ad attirare persone e a essere competitive, certo per mancanza di fondi, ma anche perché dimostravano di non conoscere le peculiarità del disegno delle piattaforme. In modo particolare le piattaforme di welfare si presentavano più come vetrine che piattaforme vere e proprie, proponendo un’esperienza utente faticosa e poco usabile, e, in alcuni casi, non facilitando neanche l’incontro diretto fra offerta e domanda.
Questo succedeva per le piattaforme di welfare ma anche per molti altri servizi italiani di sharing economy, con il risultato che quasi tutte le esperienze della prima ora non sono riuscite a crescere.
Si fa presto a dire piattaforma: ma qual è il valore di una piattaforma?
La domanda che ci siamo posti allora, ma che crediamo sia utile ricordare anche oggi, è che cosa si intenda per piattaforma: non per entrare all’interno di una aspetto definitorio per cui rimandiamo ad altri autori e articoli, ma anzi per semplificare e tenere un filo nel ragionamento.
Il valore del modello piattaforma scevro da ogni giudizio di estrattività, può essere riassunto, in maniera forse un po’ semplicistica ma efficace, nella parola abilitare. È un vocabolo che spesso si trova anche in molte definizioni e che racchiude in sé tutta la carica innovativa del modello piattaforma. Ma attenzione! Abilitare non significa rendere abili, riconoscere adatti, come recita la Treccani, ma deriva dall’inglese to enable che significa rendere capace, mettere in grado. Non è, dunque, facilitare che indica una semplificazione di processo, senza offrire, necessariamente, la possibilità di agire. E non è neanche animare, che si porta dietro un’accezione più erogativa: ha infatti un significato più vicino a fare per qualcuno che far con qualcuno. Entrambi questi termini – facilitare e animare – sono parte del verbo abilitare che, tuttavia, aggiunge qualcosa in più: mettere in grado affinché si agisca (co-produca) con la piattaforma stessa.
Abilitare è quindi un lavoro complesso che prevede un cambio di paradigma culturale, organizzativo e anche di disegno di servizio. Comprenderne il significato è importante per tutti coloro che progettano piattaforme ma in modo particolare per le piattaforme di welfare, per avere la libertà di sfruttarne il potenziale e decidere, in maniera consapevole, quali aspetti di questo modello adottare e quali no, così da evitare di replicare esperienze che non sono proprie.
Ma come una piattaforma abilita attraverso il disegno del servizio?
Costruire un ambiente gradevole in cui muoversi facilmente e rapidamente
Abilitare si traduce, prima di tutto, nel costruire il contesto all’interno del quale le persone si possono muovere agilmente e velocemente.
Questo significa, innanzitutto, progettare un ambiente gradevole, dal punto di vista grafico, capace di sostenere l’immagine e la proposta di valore di chi promuove il servizio. Ma anche, e soprattutto, capace di trasmettere velocemente lo scopo del servizio e la sua facilità d’uso. Le grandi piattaforme estrattive, infatti, ci hanno abituato a un elevatissimo standard di usabilità e di efficienza che pretendiamo da tutti i servizi digitali (e ormai non solo). Ognuno di noi in un click vuole capire dove è capitato (senza leggere troppo) e in tre passaggi chiede di arrivare allo scopo prefissato. Altrimenti abbandona. Ci sono standard ormai riconoscibili che passano per esempio, da una call to action molto semplice e chiara subito nel centro della home page; da contenuti minimali, ma diretti e che accompagnano e semplificano l’esperienza utente; da una navigazione essenziale che segua percorsi precostituiti e tipici delle piattaforme.
Costruire un ambiente gradevole è naturalmente importante per tutte le piattaforme, ma assume un valore ancora più forte per le piattaforme di welfare che spesso si rivolgono a un pubblico in difficoltà, non per forza giovane e quindi abile a muoversi sui diversi device, e che cerca un servizio affidabile a cui affidare anziani, bambini, o, magari, anche sé stesso. La credibilità delle piattaforme e di chi promuove il servizio, infatti, nel digitale – dove manca la fisicità che ci permette di farci un’idea di chi abbiamo davanti – passa soprattutto da come si presenta il luogo, e dalla credibilità che riesce a trasmettere in termini di gradevolezza ed esperienza utente.
Curare l’incontro
Abilitare significa anche facilitare il matching fra la domanda e l’offerta. Questa è una caratteristica importante del modello piattaforma tanto che spesso è riconosciuto come un elemento definitorio delle piattaforme stesse.
Tuttavia curare il matching è qualcosa di più che favorirlo. Non significa solamente creare le funzionalità necessarie affinché la domanda e l’offerta si incontrino, ma creare le condizioni perché questo incontro sia efficace e utile per entrambi. Per questo è necessario progettare un sistema di dati sofisticato che permetta di definire un algoritmo capace di personalizzare l’incontro e che eviti, per esempio, di proporre a persone disabili luoghi o servizi che presentano barriere architettoniche.
A complemento di ciò sarebbe altresì necessario presentare sistemi di reputazione che permettano a ognuno di selezionare la persona più in linea con i propri bisogni (assumendosi anche i rischi della scelta), ma anche sistemi di filtro e funzionalità che permettano, per esempio, di geolocalizzare l’offerta o, ancora, servizi di messaggistica o di contatto diretto che possono supportare la scelta e, di nuovo, l’esperienza utente.
Attivare logiche di community building
Infine abilitare significa, anche, favorire la co-progettazione e la co-gestione del servizio. Questo non vuol dire fare un workshop una tantum, o dei focus group con gli utenti, ma significa creare logiche di costruzione di comunità affinché le persone che partecipano alla piattaforma non si sentano singoli utenti, ma membri che trovano utile il servizio per sé e per gli altri e che si attivano per migliorarlo e farlo crescere.
Per fare questo è necessario che la piattaforma favorisca l’aggregazione intorno a logiche di senso che siano espressioni di un bisogno preciso come, per esempio, le difficoltà dei genitori single, il supporto fra cargiver, o la collaborazione fra abitanti di uno stesso quartiere.
Una volta riunite queste persone all’interno di una piattaforma – che può essere digitale ma anche fisica – abilitare significa permettere loro di agire – e quindi affidare loro dei ruoli e delle attività specifiche -, attivare processi di ascolto e di raccolta dei bisogni, immaginare sistemi di ricompensa per stimolare il coinvolgimento e l’attivismo.
Piattaforme di welfare italiane: a che punto siamo?
Rispetto alla metà del primo decennio del duemila possiamo dunque notare un deciso cambiamento nelle piattaforme. Intanto per numero, nell’ultima mappatura delle piattaforme di sharing economy in Italia le piattaforme dedicate alla cura delle persone erano 24 mentre oggi invece sono 73 (la classificazione seguiva parametri non proprio coincidenti ma comunque si può tranquillamente affermare che oggi sono in forte crescita).
Da una prima e parziale ricognizione dei casi studio presi in esame da WePlat, possiamo inoltre rilevare che ci sono gradi di maturità diversi nel disegno delle piattaforme. In alcuni casi la piattaforma si presenta ancora come vetrina che mette in evidenza più il valore di chi la promuove che il servizio stesso. In altri casi, invece, si inizia a vedere l’adozione di standard di usabilità e di presentazione grafica in linea con quello che un utente si aspetta di trovare oggi sui servizi digitali. Dal punto di vista della cura dell’incontro quello che si rileva è che la maggioranza dei casi studio presi in esame favoriscono l’incontro fra domanda e offerta ma solo poche piattaforme curano davvero il matching con gli strumenti e le funzionalità che abbiamo descritto sopra. Particolarmente interessanti i casi di alcune piattaforme del settore salute che intermediano il lavoro di professionisti altamente qualificati e non disintermediano, come si pensava dovesse fare il modello piattaforma. Inoltre i servizi di questo settore propongono anche numerosi punti di contatto fra piattaforma e utente (chat, numero diretto, form etc) che lasciano intravedere particolarità del settore sanitario – ancora tutta da verificare- ma molto interessanti.
Ad una prima ricognizione, invece, sembra del tutto assente l’abilitazione di una community, nel senso che a oggi non sembra che le piattaforme si attivino per costruire comunità insieme ai loro membri. Paradossale ma sembra così. Non sono presenti, per esempio, sulle piattaforme strumenti di conversazione fra pari che permettano alle persone di confrontarsi, collaborare, condividere informazioni e attivarsi. Questo non succede neanche nelle piattaforme di welfare più territoriali che, sembra, continuano a seguire logiche prettamente fisiche nella costruzione di comunità senza comprendere fino in fondo come utilizzare il digitale per rafforzare e far crescere la presenza sul territorio.
Proprio questo tema sarà uno degli argomenti che affronteremo durante il momento co-progettazione con le piattaforme che si terrà il 17 maggio presso la Fondazione Feltrinelli. Presto tutti gli aggiornamenti.