La mediazione interculturale, di cui abbiamo recentemente parlato qui, è fondamentale per immaginare e implementare buone politiche d’integrazione. Ma chi è e cosa fa un mediatore interculturale? Abbiamo provato a capirlo chiedendo a chi ogni giorno lavora in questo ambito, ma anche raccontandovi cosa sta accadendo “sul campo” in un territorio su cui lavoriamo molto: Novara. Da questa città vengono spunti interessanti sull’evoluzione del ruolo dei mediatori, che ora sono chiamati a nuovi sforzi per gestione della crisi dei profughi ucraini che arrivano in Italia. Crediamo che raccontarlo possa essere utile anche per altri territori che, per forza di cose, sono o saranno presto interessati da questa sfida di accoglienza.
Cosa fanno i mediatori interculturali?
“Il Mediatore interculturale è un operatore competente che funge da cerniera tra gli immigrati e il contesto territoriale e sociale in cui vivono e lavorano.” A questo scopo analizza i bisogni e le risorse di un singolo utente o di un gruppo, orienta e progetta iniziative e strumenti che aiutano l’integrazione. Le funzioni della mediazione sono multiple: traduzione, comunicazione interpersonale tenendo conto delle differenze culturali, etniche, religiose, di genere e di vissuto; saper ascoltare ed essere empatici; riconoscere e valorizzare le differenze”.
È quanto si legge sul sito dell’Associazione Multietnica dei Mediatori Interculturali (AMMI) di Torino, nata nel 2005 per iniziativa di un gruppo di mediatori interculturali del Piemonte con l’obiettivo di lavorare per aprire nuovi spazi d’impiego nell’ambito dell’intermediazione linguistica, l’accompagnamento nei percorsi individuali, la facilitazione degli scambi tra cittadini immigrati e operatori, servizi e istituzioni.
Quella del mediatore è dunque una figura preziosa nell’ambito dell’accoglienza e dell’integrazione, che presumibilmente avrà un ruolo di primo piano anche alla luce della crisi migratoria legata alla guerra in Ucraina.
Una professione chiamata a rispondere a sfide complesse
La storia della professione dei mediatori interculturali in Italia inizia con le grandi ondate migratorie degli anni ‘90. Un processo veloce e intenso che ha affermato la necessità di una figura che potesse fare da ponte tra i nuovi cittadini, i cittadini autoctoni, le istituzioni pubbliche e le organizzazioni private. L’assenza di quadro normativo chiaro e unificato e la precarietà lavorativa hanno però reso difficile l’affermazione di una professione di cui la realtà quotidiana dimostra sempre di più l’assoluta necessità. L’arrivo e l’inclusione di migranti genera infatti bisogni e difficoltà di tipo nuovo in vari ambiti: rapporti nel campo del lavoro, della sanità e della scuola, relazioni con l’amministrazione pubblica e il mondo bancario, ma anche con le forze dell’ordine e il sistema della giustizia. Il “peso” di questi ambiti varia tuttavia a seconda delle tipologie dei flussi e dalla composizione degli stessi.
Nella città di Novara, ad esempio, alla fine del secolo scorso erano presenti circa 2.500 cittadini stranieri, pari circa al 3% del totale dei residenti. Si trattava soprattutto di maschi adulti soli, presto stabilizzati a seguito della richiesta di manodopera proveniente dal sistema produttivo locale. Le questioni legate alla mediazione dunque riguardavano soprattutto gli ambiti legati al mondo del lavoro. I ricongiungimenti familiari portarono tuttavia a una crescita progressiva della percentuale di donne e di minori, con conseguenze, anzitutto, sull’inserimento problematico di ragazzi e ragazze nelle scuole cittadine in assenza del necessario sostegno. In generale l’accesso da parte dei nuovi residenti ai servizi di base, sia di carattere sociale che sanitario, cominciò a presentare difficoltà e il rapporto degli immigrati con la pubblica amministrazione dava, a volte, origine a incomprensioni e malintesi.
Si trattava di questioni da non sottovalutare. Nei primi anni Duemila la popolazione straniera rappresentava quasi il 10% dei residenti sulla spinta dei ricongiungimenti e delle sanatorie di quegli anni1.
Il tema della formazione
Gli arrivi e le aree di provenienza delle nuove popolazioni nella prima parte degli anni Novanta andarono a crescere in quasi tutto il Paese. Divenne così sempre più evidente la necessità di figure professionali che rispondessero a difficoltà e bisogni legati all’integrazione di queste persone nei contesti locali. Tra il 1990 e il 1995 iniziarono a svilupparsi i primi grandi corsi di formazione per mediatori interculturali. Generalmente finanziati dalle Regioni, dal Ministero del Lavoro o dal Fondo Sociale Europeo. Come ci ha spiegato Blenti Shehaj, presidente dell’AMMI, la mediazione culturale infatti “deve avere capacità di fare da tramite tra la società d’accoglienza e la propria comunità” grazie alla conoscenza della lingua e, appunto, della cultura. Ma c’è anche un secondo livello da tenere in considerazione: “la conoscenza approfondita di tutti gli aspetti che sono legati all’immigrazione e alla capacità di fare da tramite tra la società di accoglienza e immigrati di varia nazionalità, anche attraverso il ricorso a lingue diverse da quella materna ma conosciute da mediatori e immigrati, le cosiddette lingue veicolari ”.
Il caso di Novara anche in questo caso appare interessante per capire questo passaggio. All’interno delle principali comunità straniere della città emersero progressivamente figure rappresentative che, grazie alla presenza in città da più tempo o al prestigio personale, si facevano portavoce dei bisogni e delle istanze dei compatrioti. Un gruppo di queste persone
che aveva avuto notizia dell’organizzazione da parte di un’agenzia formativa torinese di un corso per mediatore interculturale, si rivolse alla sede novarese di IAL Cisl Piemonte, per proporre la realizzazione di un’iniziativa analoga. L’ente di formazione novarese, vista la richiesta di qualificazione da parte di imprese e lavoratori, iniziò così a promuovere corsi professionalizzanti per immigrati stranieri, avendo nella sua missione la promozione della formazione come strumento fondamentale dell’integrazione sociale. Novara avviò così il proprio corso per la formazione di professionisti della mediazione culturale.
Ambiti di lavoro e problemi di continuità
Oggi i corsi di formazione professionale erogati dalle Regioni prevedono in genere 600 ore di cui 200 di tirocinio. I servizi sanitari in particolare rappresentano un settore d’impiego centrale per i mediatori interculturali, ma queste figure sono coinvolte anche nel sistema di accoglienza, nei servizi per il lavoro, nella pubblica sicurezza, nel sistema scolastico. Gli ambiti di impiego dunque non mancano. Il punto critico, come accennato, è costituito dalla discontinuità nell’impiego di questa figura che non è inserita stabilmente all’interno dei servizi, ma solo per l’arco di tempo di specifici progetti. La ragione è da rilevarsi nei veloci cambiamenti dei flussi migratori – dalla nazionalità al tipo di migrazione – che costituiscono un altro elemento che ostacola la difficoltà di inserimento in modo stabile di questa figura.
Ma perché qualcosa cambi, ci ha spiegato Blenti Shehaj, “è essenziale che organi di rappresentanza dei mediatori interculturali siano coinvolti insieme alle istituzioni pubbliche e al Terzo Settore in tavoli di programmazione delle politiche, in modo che queste siano disegnate ascoltando la voce di tutti i professionisti (psicologi, educatori, mediatori interculturali) e delle comunità di immigrati presenti sul territorio”. Anche alla luce delle nuove sfide che ora il nostro sistema di accoglienza e integrazione è chiamato a fronteggiare.
Ancora il caso di Novara ci ricorda l’importanza di questi passaggi. Anche a seguito della crisi economica del 2008, in città la popolazione straniera si stabilizzò e cambiarono, inoltre, modalità e origine dei flussi migratori, costituiti in prevalenza da rifugiati e richiedenti asilo, provenienti soprattutto dall’Africa Sub Sahariana e, in anni più recenti, da Bangladesh e Pakistan. Si trattava, in questo caso e per la maggior parte, di giovani migranti che, a seguito della chiusura dei flussi per motivi di lavoro, vedevano nella richiesta di asilo l’unica modalità possibile per entrare in Italia. Il più delle volte le persone provenivano da aree rurali, con basso livello di scolarizzazione e conseguenti difficoltà di orientamento e integrazione. Nonostante la necessità di “nuovi” interventi di mediazione interculturale fornita da personale specializzato, nei Centri di Accoglienza Straordinaria che ospitavano i migranti sul territorio novarese, la Regione Piemonte non ritenne più strategica la realizzazione di questa tipologia di corsi.
Crisi ucraina: cosa sta accadendo sul campo
La guerra in Ucraina sta determinando un afflusso cospicuo di rifugiati anche nel nostro Paese che, come vi abbiamo raccontato qui, sta cercando di individuare nuove modalità per fronteggiare questa emergenza. A inizio aprile erano circa 83.000 i cittadini ucraini, in prevalenza donne e bambini, giunti in Italia. Accolti soprattutto da parenti e amici appartenenti alla folta comunità di connazionali (che contava circa 230.000 persone prima della guerra). Senza queste ospitalità spontanee e informali, il sistema sarebbe al collasso.
Secondo i dati forniti dalla Regione Piemonte, solo nella provincia di Novara risultavano arrivate 2.635 persone in fuga dall’Ucraina. Un dato rilevante, se si pensa che durante l’emergenza profughi, seguita agli sbarchi dei migranti provenienti dalla Libia, erano ospitati nei CAS della città 540 richiedenti asilo. L’afflusso è ancora più considerevole se raffrontato alle 7.800 presenze totali in Piemonte o alle 1.460 nella Città Metropolitana di Torino. Questi numeri non devono stupire e la presenza di tanti profughi è facilmente spiegabile; infatti, la Provincia di Novara con 3.636 residenti su un totale regionale di 10.383, è storicamente una delle mete privilegiate dell’immigrazione ucraina in Piemonte. La comunità, venutasi a creare dalla fine degli anni Novanta, è formata per oltre il 70% da donne, giunte in città per svolgere attività di assistenza o di collaborazione familiare. Alcune di loro si sono definitivamente trasferite a Novara, ricongiungendosi con figli e mariti.
La presenza di una comunità stabilizzata e bene integrata ha dunque favorito la scelta di questa meta da parte di parenti e amici in fuga dalla guerra. Il grande afflusso di profughi, come noto in maggioranza donne con i loro figli, è stato dunque assorbito per oltre il 95%, all’interno di queste famiglie e di quelle novaresi che si sono rese disponibili. Anche gli enti pubblici, in prima fila il Comune, e quelli del privato sociale, come Caritas Diocesi di Novara e Comunità di Sant’Egidio, si sono mobilitati per sostenere coloro che sono stati costretti a fuggire dal proprio Paese, in particolare la Fondazione della Comunità Novarese ha attivato una speciale raccolta di fondi che in pochi giorni ha raggiunto oltre 70.000 euro.
Come spiegato dal presidente Davide Maggi si tratta di un contenitore dove indirizzare le donazioni che andranno a sostenere progetti di accoglienza, con l’obiettivo di fornire un aiuto concreto e urgente a tutti coloro che sono stati costretti a lasciare la propria casa e che stanno cercando rifugio. Ma a tendere la raccolta fondi è destinata a sostenere, in collaborazione con la rete attivata da Caritas Diocesi di Novara, le spese legate all’accoglienza, con l’obiettivo di una sistemazione rapida dei profughi secondo un modello di “accoglienza diffusa” che punti all’inserimento di piccoli gruppi nella vita ordinaria delle comunità e faciliti così l’integrazione.
Il bisogno di nuovi mediatori interculturali
Oltre a sostenere i profughi nei loro bisogni immediati, una prima azione di più ampio respiro, resa possibile dalla raccolta fondi, e realizzata anche questa volta, in collaborazione con Caritas, è quella relativa al finanziamento di un corso per Mediatore Interculturale, riconosciuto dalla Regione Piemonte, che sarà realizzato dall’ente di formazione Filos.
Oltre che sulle emergenze, dice il segretario generale Gianluca Vacchini, “la Fondazione è soprattutto abituata a lavorare, in termini di progettualità, sul medio e lungo periodo”. Insieme ai soggetti che operano a favore dei profughi si è reso evidente che “una delle difficoltà principali delle donne e dei bambini arrivati sul territorio è rappresentata dalla lingua”; infatti, relazionarsi risulta spesso molto complicato anche a seguito di una scarsa comprensione del modo di vita italiano. Tutti si augurano che il conflitto in Ucraina possa durare il meno possibile, ma probabilmente la permanenza di una parte dei profughi giunti a Novara non sarà breve, per questo motivo la realizzazione del corso avrà l’obiettivo di preparare operatori in grado di accompagnare, non solo dal punto di vista linguistico “per rendere più agile una prima e necessaria integrazione.”
Nonostante il bando di selezione, vista l’attuale emergenza, prevedesse una riserva di posti destinati a mediatori di lingua ucraina, il corso era aperto a stranieri di tutte le nazionalità che, insieme a quelli ucraini, una volta ristabilita una situazione di normalità, potranno operare all’interno delle organizzazioni pubbliche e del privato sociale per favorire accoglienza e integrazione. L’iniziativa formativa avrà dunque una valenza duplice, da una parte finalizzata a sostenere nell’immediato i bisogni dei profughi ucraini, ma allo stesso tempo rappresentare un’azione di sistema diretta, a formare figure specializzate che possano favorire, nel lungo periodo, l’integrazione dei migranti, che a causa delle situazioni insostenibili determinate da conflitti, fame e povertà, saranno sempre più presenti all’interno della nostra società.
Una scelta lungimirante. Come ci ha spiegato Blenti Shehaj, è infatti importante che aumenti la partecipazione civica degli immigrati, “da questo punto di vista i mediatori interculturali svolgono e possono svolgere un lavoro importante di empowering delle comunità di immigrati”. Dentro, e soprattutto oltre, l’emergenza.