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Ogni mese Secondo Welfare cura un’inchiesta per Buone Notizie del Corriere della Sera in cui approfondisce i grandi cambiamenti in atto nel nostro Paese sul fronte del welfare. Il 21 settembre 2021 abbiamo affrontato il ruolo che l’Unione Europea può giocare per contrastare la povertà in Italia. Di seguito Paolo Riva fa il punto su risorse e opportunità che vengono da Bruxelles e che possono aiutarci su questo fronte, mentre qui Franca Maino ricorda l’importanza di affrontare l’esclusione in un’ottica multidimensionale.

Con la pandemia, la povertà in Europa è tornare a crescere. Il Covid-19 ha creato vecchi e nuovi indigenti cui la ripresa, fortemente sostenuta dall’UE, dovrà dare risposte. “La pandemia – dice Sabrina Iannazzone della Rete europea contro la povertà – ha evidenziato il declino del modello dello Stato sociale attaccato durante la precedente crisi, quando l’austerità ha colmato i grandi deficit pubblici”. A pagarne il prezzo maggiore sono lavoratori indipendenti e atipici, bambini vulnerabili, famiglie a basso reddito, rom e cittadini stranieri.

Cresce il rischio povertà in Europa

Secondo Eurostat, il rischio di povertà, nel 2020, è aumentato in almeno nove Stati europei. L’Italia è uno di questi: lo scorso anno, le persone in povertà assoluta sono salite a 5,6 milioni, il dato più alto dal 2005. “La tendenza sembra essere una forbice che si apre sempre più”, riflette don Marco Pagniello di Caritas Italiana. “Da una parte – prosegue – c’è chi ha resistito alla pandemia, trovando anche maggiori opportunità. Dall’altra, chi è scivolato dal ceto medio in povertà”. In questo contesto, a maggio, i capi di Stato e Governo europei hanno firmato la dichiarazione di Porto, per un’UE più attenta alle questioni sociali. Tra gli obiettivi da raggiungere entro il 2030, c’è anche una diminuzione di almeno 15 milioni di persone tra quelle a rischio povertà.

È un traguardo ambizioso perché prima della pandemia erano più di 92 milioni e perché la dimensione sociale dell’Unione è sempre stata meno forte di quella economico-finanziaria, per la quale le istituzioni comunitarie hanno maggiori competenze. Eppure, spiega l’analista dell’European Policy Centre Laura Rayner, “nonostante le sue limitazioni sulla politica sociale, ci sono molti altri modi in cui l’UE può contribuire a ridurre la povertà. Oltre a fissare degli obiettivi, attraverso i flussi di finanziamento può indirizzare gli Stati membri a spendere su questioni che ritiene necessarie”.

Le risorse UE per creare condizioni favorevoli

Il Fondo Sociale Europeo Plus, da qui al 2027, metterà a disposizione del nostro Paese 14,5 miliardi di euro tratti dal bilancio ordinario Ue. Poi ci sono gli oltre 200 miliardi straordinari di Next Generation Eu, che in larga parte finanziano il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). “Non tutto il PNRR è destinato al contrasto diretto della povertà, ma potrebbe creare condizioni in cui la povertà fatichi ad attecchire”, argomenta Lorenzo Bandera di Percorsi di secondo welfare. “Le misure contro la povertà – sostiene il ricercatore – difficilmente hanno un impatto significativo, se non si creano crescita e sviluppo”.

È proprio quello che dovrebbe produrre il PNRR, con gli investimenti per ambiente e digitale chiamati a generare nuovi posti di lavoro, auspicabilmente di qualità. Non solo. Nel piano, è inserita anche una riforma delle politiche attive per il lavoro da 4,4 miliardi. Il collegamento tra il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e il Reddito di cittadinanza, la principale misura di contrasto alla povertà italiana, sta proprio qui.

Misure da ripensare e migliorare

Il Reddito di cittadinanza, approvato nel gennaio 2019 dal primo governo Conte, ha coinvolto più di tre milioni di cittadini in difficoltà: è stato un sostegno importante, soprattutto in pandemia, ma è stato poco efficace nell’ accompagnare le persone a trovare un lavoro. “Perché è stato disegnato male e perché, tendenzialmente, i due terzi dei percettori non sono attivabili. Non perché vogliono stare sul divano, ma perché sono minori, inabili o svolgono compiti di cura”, spiega Stefano Sacchi, docente del Politecnico di Torino e membro del comitato scientifico dell’Alleanza contro la povertà in Italia. L’Alleanza, da tempo e con forza, chiede al Governo di confermare il Reddito di cittadinanza, ma anche di migliorarlo. Ha fatto diverse proposte concrete, tra cui dare più fondi alle famiglie numerose, garantire contributi anche agli stranieri in Italia da due anni (ora quelli richiesti sono dieci) ed evitare la cosiddetta trappola della povertà.

Attualmente, il Reddito di cittadinanza – riprende Sacchi – disincentiva la ricerca di lavoro. Dobbiamo farlo diventare uno strumento che, per chi può, aiuti a rientrare nell’occupazione, senza penalizzare chi non ne è in grado. Purtroppo, però, a mio giudizio, la parte relativa alle politiche attive del lavoro è una delle più deboli di tutto il PNRR”.

Le politiche attive aiutano una persona a inserirsi o reinserirsi nel mondo del lavoro, offrendo, quando servono, nuove o diverse competenze. Averne di efficienti sarebbe importante anche per far funzionare meglio il Reddito di cittadinanza, a maggior ragione in un momento in cui i beneficiari probabilmente cresceranno. E cambieranno. Una parte significativa delle persone che ha ricevuto finora questo sostegno era senza un’occupazione da tempo: a volte anni, a volte non l’ha mai avuta. Chi potrebbe aggiungersi, invece, è appena rimasto disoccupato a causa della pandemia: dipendenti e autonomi a bassa retribuzione, in uscita soprattutto da commercio e servizi. “Per aiutare queste persone e far si che ritrovino presto un lavoro – conclude Sacchi – la formazione e l’aggiornamento delle competenze saranno fondamentali”.

 

Questo articolo è stato pubblicato su Buone Notizie del Corriere della Sera il 21 settembre 2021 ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.