La relazione tra cultura e impresa sociale è una partita tutt’altro che residuale e i tempi che stiamo vivendo la stanno rendendo sempre più centrale. Stiamo parlando di un tema che sarà fondamentale e strategico. Soggetti come CGM – Consorzio Nazionale della Cooperazione Sociale – il network per le cooperative sociali italiane per l’assistenza e l’aiuto allo sviluppo – dovrebbero mappare le esperienze culturali significative realizzate nel proprio ecosistema. È infatti arrivato il momento di tirar fuori dai retrobottega della progettazione queste esperienze perché abbiamo bisogno di una fotografia che ci restituisca un pezzo dell’esistente, troppe volte derubricato a nicchia. Oggi, in realtà, quella nicchia è un punto di ripartenza, uno strumento per riappropriarci di una “grammatica” utile ad affrontare l’incertezza del futuro. Abbiamo la necessità di esplorare, ma con i piedi per terra: l’innovazione va intesa come “possibile adiacente” (Kauffman, 2005) che si nutre di motivazioni e significati, perciò è essenziale riscoprire il valore del “codice culturale” dell’impresa sociale, in una rinnovata visione dei servizi di comunità e di cura.
Il tema, lo ripeto, è decisivo. È urgente una riflessione capace di alimentare una strategia che declini diversamente la relazione fra impresa sociale e cultura. Una relazione che non si accontenti di riprodurre una pur sana ricerca all’inter-settorialità (come ricorda il sesto principio cooperativo: la cooperazione fra cooperative) ma che sia capace di generare nuovi percorsi, nuove intersezioni, per rigenerare e rilanciare il ciclo di vita di questa forma d’impresa e del suo modello leader: la cooperazione sociale.
Il cosiddetto “terzo tempo” della cooperazione sociale, accelerato dall’emergenza del Coronavirus, necessita di una spinta, di motivazioni e soluzioni ad alto valore esperienziale, dove la dimensione di luogo e di senso precedono la prestazione aprendo la strada a un ritorno alla comunità. Una spinta che anche la storia della cooperazione ci ricorda avere sempre un forte ancoraggio culturale.
Impresa sociale e cultura hanno bisogno di riscoprirsi per convergere e affrontare nuove sfide: sociali, ambientali ed economiche che richiedono una rinnovata “alchimia” per alimentare una nuova generazione di servizi e di funzioni organizzative.
Detto in altri termini, ci stiamo confrontando su un argomento che dovrebbe orientare la strategia, o ancor meglio i piani strategici dell’impresa sociale nell’era pandemica.
La cultura è certamente un settore trainante della nostra economia e della nostra identità, è patrimonio (stock), asset, è anche un flusso ossia una forma evoluta di produzione del valore e delle esperienze. Ma non credo sia questo il punto d’innesco di una relazione ad alto potenziale. La cultura prima di essere tutto ciò è una grande opportunità per guardare l’esistente in modo diverso, è una lente (la migliore che abbiamo) per interrogare il presente e per riprogettare il futuro: un dispositivo per vivere (non sopravvivere) alla strutturale incertezza dei nostri tempi (Bauman, 2015).
È infatti intorno all’incertezza e al rischio, che molti “salvatori della patria” stanno costruendo la narrazione secondo cui il futuro migliore è l’adattamento al presente e la riproposizione del passato come assicurazione su ciò che non possiamo determinare. L’incertezza diventa così l’alibi per “non decidere”, mentre oggi abbiamo bisogno di istituzioni che decidono, che si riprogettano e che imparano dagli errori.
Si capisce quindi quanto sia importate l’intersezione con la cultura, quanto la riflessione culturale sia antidoto per non cadere nella trappola della “sindrome da basse aspettative” che spesso affligge molta cooperazione sociale (Zamagni, 2014).
La cultura "bene di stimolo" per l’innovazione
Le crisi non sono altro che cambiamenti che chiedono “un cambiamento” alle organizzazioni, sono “transizioni che chiedono trasformazioni”. Più la crisi è profonda, più profonde devono essere le domande che ci poniamo e che non riguardano tanto il “cosa fare”, ma “come trasformarsi”, come cambiare sguardo sulla realtà.
Senza l’apporto della cultura come elemento riflessivo, creativo, esperienziale e trasformativo diventa tutto più difficile, un ragionamento astratto o, all’opposto, una lista di cose da fare che sono, letteralmente, “senza senso” (inteso sia come significato sia come direzione).
Il teologo tedesco Reinhold Niebhur diceva: “Non esiste niente di più incomprensibile della risposta a una domanda che non si pone”; il prologo di ogni innovazione consiste quindi nelle domande che ci facciamo. La cultura, da questo punto di vista, aiuta a farci le domande giuste, a riflettere, a cogliere punti di vista divergenti e laterali, a riprogrammare l’azioni sociale, a rigenerare il significato del lavoro, ad arricchire le soluzioni e le esperienze che proponiamo nei servizi.
Siamo così arrivati al punto cruciale della nostra riflessione, ossia il fatto che la cultura sia innanzitutto un “bene di stimolo” (Scitovsky, 2007). In un’epoca segnata dalla diffusione bulimica di “beni di comfort”, la grammatica culturale diventa centrale per alimentare un cambiamento tanto nella società quanto nelle soluzioni legate al benessere (well-being). Cultura come “bene di stimolo” capace di interrogarci sui significati, il valore delle cose e il significato del futuro. Ne abbiamo un gran bisogno, non per distrarci, ma per riscoprire il senso e per innovare.
Senso e innovazione (sociale), ma anche le pratiche sociali della Vita Activa si nutrono di questo. È chiaro quindi quanto è importante includere la cultura, per tutte quelle organizzazioni e imprese orientate all’interesse generale e che fondano la propria azione sulle motivazioni intrinseche e sulla relazione con il territorio.
L’impresa sociale come impresa culturale
Vorrei soffermarmi infine su un altro aspetto della relazione fra “cultura e impresa sociale”. In questi anni le ricerche e il fermento dell’innovazione sociale ci hanno restituito un’immagine della cultura come “fatto sociale” (che-fare, 2016) e come base di pre-innovazione per le imprese e i loro prodotti (Symbola, 2019).
La cultura nella sua eterogeneità si è avventurata e ha trovato casa dentro le pieghe della socialità, dei servizi, dell’inclusione della comunità, dell’educazione, della salute, della partecipazione, dei processi deliberativi. A ben pensare oggi i temi dell’innovazione sociale, dell’impatto sociale e di nuove forme di inclusione sociale e di rigenerazione sono patrimonio di una crescente platea di attori fatta da soggetti a matrice culturale, più che da imprese sociali.
Abbiamo quindi assistito ad un processo “mutante” della cultura, che si è potenziata nell’alveo della socialità (Sacco e Venturi, 2020). Anche i ruoli e le professioni culturali si stanno ridefinendo nell’ambito del welfare: designer, community manager, creativi, sono figure ormai familiari nei percorsi di progettazione. Basti pensare a uno dei tanti bandi legati all’inclusione, alla rigenerazione delle periferie, alla costruzione di reti di prossimità: non c’è amministrazione pubblica che non premi l’apporto culturale delle proposte e nei processi di co-progettazione.
La cultura dentro al sociale si è potenziata, non ha perso la sua “carica virale”, anzi è aumentata seguendo una traiettoria autenticamente generativa. Nel sociale la cultura ha trovato una sua ecologia, scoperto nuovi mercati, attratto risorse (finanziamenti, filantropia, fondazioni, domanda pagante) e amplificato la sua propensione all’imprenditorialità.
Questa constatazione consente di lanciare una provocazione che però contiene una proposta. Se è vero che l’Impresa culturale si è potenziata nell’intersezione con il sociale, perché non si prova a fare anche il contrario? Cosa produrrebbe un percorso nel quale le imprese sociali cominciassero a pensarsi come imprese culturali?
Credo che sia una prospettiva da esplorare e su cui aprire “un cantiere”. Non sono certo dell’esito, ma sono certo che ne valga la pena. Perché? Cito solo alcuni passaggi decisivi per la cooperazione sociale:
- la spinta dal basso per alimentare un’innovazione finalmente di rottura dopo decenni di incrementalismo dietro il quale si annida la colonizzazione;
- la necessità di ridisegnare i servizi in logica più esperienziale e capacitante, agendo “di rimpetto” con i beneficiari;
- l’urgenza di rifondare il rapporto e la conversazione con la comunità (cosa ben diversa dall’utenza);
- la spinta a potenziare percorsi d’innovazione aperta con le diversità che fanno la differenza a livello territoriale;
- la ricerca del valore autentico di luoghi, tradizioni, vocazioni territoriali.
La cultura è la piattaforma più moderna e adeguata dentro cui far transitare tutte queste trasformazioni. Trasformazioni che richiedono riflessioni e scelte coerenti. Abbiamo bisogno di un punto di vista artistico, di ambienti stabilmente abitati e influenzati dalla cultura, di più cultura nei processi formativi per alimentare un pensiero critico che fondi nuovi servizi sociali a matrice culturale.
Bibliografia
Bauman, Z. (2015), Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza.
che-fare (a cura di) (2016), La cultura in trasformazione. L’innovazione e i suoi processi, Roma, Minumum fax.
Kauffman, S. (2005), Esplorazioni evolutive, Torino, Einaudi.
Sacco, P.L., Venturi, P. (2020), “Cultura come grammatica per la ripartenza”, AGCult, 4 luglio 2020.
Scitovsky, T. (2007), L’economia senza gioia, Roma, Città Nuova.
Symbola (a cura di) (2019), Io sono cultura 2019, I quaderni di Symbola.
Zamagni, S. (2014), “L’innovazione nelle cooperative sociali”, lectio magistralis.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito AgCult, in data 3 agosto 2020, ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore