Il coronavirus ha cambiato la politica. L’emergenza sanitaria domina l’agenda, le decisioni più importanti sono prese dal Presidente del Consiglio, dopo aver consultato i governatori delle regioni più colpite e gli esperti in malattie infettive. In questo momento i leader dell’opposizione non hanno incentivi a sollevare polemiche e men che meno conflitti: la gente non capirebbe.
Il cosiddetto distanziamento sociale ostacola i contatti, la condivisione di esperienze, qualsiasi forma di aggregazione. Dopo aver riempito fino a gennaio le piazze d’Italia e le pagine dei giornali, le Sardine sono scomparse. Il «popolo» si è rintanato in casa, si preoccupa principalmente della propria salute e dai politici si aspetta competenza e responsabilità decisionale.
Il congelamento della politica non durerà a lungo. Purtroppo, al «disastro uno» (la pandemia) seguirà un «disastro due»: la recessione economica, con i suoi profondi risvolti sociali. Ci siamo già passati una decina di anni fa, quando scoppiò la crisi finanziaria. Anzi, a differenza di altri Paesi europei, da quella crisi non siamo ancora usciti del tutto. Questa volta c’è però un’aggravante: il coronavirus si sta diffondendo a macchia di leopardo e produce effetti molto differenziati fra territori, settori, categorie occupazionali. E al loro interno si nascondono situazioni difformi e casuali tra famiglia e famiglia, impresa e impresa, lavoratore e lavoratore.
Il governo ha iniziato ad affiancare le misure sanitarie con provvedimenti di sostegno economico. Sarà proprio questo fronte a provocare il disgelo della politica e delle sue divisioni. Evitare il contagio, garantire le cure, sconfiggere il virus sono interessi comuni, uniscono invece di dividere. Le cose cambiano drasticamente quando si tratta di definire chi sono i «perdenti» della crisi economica e come compensarli. Gli strumenti a disposizione (welfare, aiuti alle imprese) sono inadeguati. Emergerà dunque un divario crescente fra domanda di protezione e capacità di risposta. Le parti sociali, le associazioni di categoria, i partiti faranno fatica ad aggregare, mediare, coordinare. E non si può escludere che si aprano spazi di protesta sociale e mobilitazione politica in cerca di facili capri espiatori.
Nella Ue il conflitto distributivo è già iniziato. Dopo i tentennamenti iniziali, il «disastro uno» ha fatto emergere un indiscutibile interesse comune fra tutti i Paesi membri. La disponibilità a finanziare iniziative anche ambiziose in campo medico-sanitario ora c’è, anche da parte dei nordici. A dividere è la gestione del «disastro due», la nuova crisi economica. Come dieci anni fa, i Paesi del Nord (i loro governi più che i loro cittadini) hanno di nuovo paura che l’eventuale emissione di titoli di debito europei (i coronabond) possano indurre i Paesi del Sud a barare, ossia a spendere le risorse comuni – e soprattutto tedesche – in modo irresponsabile. Timori legati a esperienze passate, ma anche a molti pregiudizi. Sulle prime siamo noi a dover rassicurare e promettere. Sui secondi, sono i nordici che devono farsi un bell’esame di coscienza.
Dobbiamo rassegnarci al ritorno, persino alla ri-acutizzazione di conflitti basati su interessi materiali, particolarismi settoriali o egoismi nazionali? È uno scenario plausibile, ma non l’unico. Emergenze e disastri possono anche condurre a scatti di solidarietà collettiva durevole nel tempo, a salti di qualità nel modo in cui le comunità politiche si tengono insieme e organizzano la collaborazione sociale. Dopo la grande depressione degli anni Trenta, Roosevelt lanciò il New Deal. Dalle ceneri della Seconda Guerra mondiale emerse il moderno welfare state e fu in quel contesto che prese forma anche il progetto europeo.
Nella sua drammaticità, il «disastro uno» ha mobilitato in Italia un capitale di solidarietà e civismo che non sapevamo più di avere. E anche una capacità di guida e decisione politica nettamente superiore alla nostra media storica. Quando è iniziata l’epidemia, su internet e i social media vi è stato un flusso straordinario di manifestazioni di solidarietà nei nostri confronti dagli altri cittadini europei, moltissimi del Nord. Senza indulgere alla retorica «buonista», si può ipotizzare che il coronavirus possa lasciare uno strascico di coesione sociale che consenta di gestire il «disastro due» in modo costruttivo. Ad esempio elaborando una sorta di piano Beveridge (il progetto che rivoluzionò le assicurazioni sociali britanniche nel dopoguerra) per razionalizzare e rafforzare il welfare italiano. E adottando finalmente schemi di condivisione dei rischi a livello europeo, come premessa per un ambizioso piano Marshall di rilancio dell’economia.
Nel 2008, all’inizio del crollo finanziario, il capo di gabinetto di Barack Obama, Rahm Emanuel, pronunciò una frase diventata famosa: «Non lasciare mai che una crisi diventi un’occasione sprecata». È un monito che oggi riguarda tutti da vicino. E che va rivolto soprattutto alle élite politiche e sociali, in Italia come nell’Unione europea.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera dello scorso 1 aprile 2020, ed è stato qui riprodotto previo consenso dell’autore