Leggendo l’ultimo contributo di Mario Calderini e Paolo Venturi apparso qualche giorno fa su Secondo Welfare, ho immediatamente ripensato alla scena iniziale del film di Mathieu Kassovitz: L’odio. Una voce narrante fuori campo scandisce lentamente: «Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.»
L’odio, uscito nel 1995, fu un film profetico, in grado di cogliere la crisi irreversibile del modello assimilazionista francese. Nell’implosione dello spazio urbano, stressato dalla dinamica centro-banlieue, il film coglie l’emergere di nuove soggettività, irriducibili alla comprensione dei Media e della Politica, distanti anni luce dal conflitto sociale e sindacale novecentesco. La scelta di utilizzare il bianco e nero in luogo del colore, non è solo un vezzo di Kassovitz, quanto piuttosto il mettere in scena uno spazio sociale dove, insieme ai colori, sfumano anche le identità. Vinz, Hubert e Said sono i nipoti ed i figli della grande diaspora che, seguendo le vicende della Francia coloniale, ha consentito lo sviluppo dell’industria postbellica, sino alla crisi economica degli anni 80.
Non a caso, L’odio anticiperà di 10 anni la rivolta delle banlieue di Clichy-sous-Bois, che in pochi giorni si estenderà al resto del Paese. Alla richiesta di partecipare alla distribuzione della ricchezza da parte dei “casseur”, le istituzioni francesi risponderanno con la celebre espressione, utilizzata dall’allora Ministro dell’Interno Sarkozy, “racaille”, feccia. In una certa misura, L’odio ci consente di comprendere le ragioni della diffusione nelle banlieue dell’Islam radicale, capace di dare senso a chi ha progressivamente perduto la certezza della sua identità, civile e religiosa. L’odio, per dirla con un’efficace espressione di Henri Lefebvre, ci interroga sul diritto alla città, o meglio su come i processi di esclusione, economica, sociale e “spaziale” hanno progressivamente limitato questo diritto. Nell’attuale modello produttivo, che potremmo definire post-postfordista, la città non è più soltanto lo spazio fisico per la produzione e la riproduzione sociale, quanto “fattore abilitante” e necessario, in grado di determinare i livelli di creazione di valore.
In “The Limits of Capital”, uno dei più interessanti contributi sulla teoria urbana, David Harvey ha evidenziato la centralità della dimensione spaziale del capitalismo post-fordista, che “deve costruire uno spazio fisso (fixed) necessario per il proprio funzionamento a un certo punto della sua storia soltanto perché poi in un periodo successivo possa distruggerlo (e svalutare di molto il capitale là investito) per fare spazio per un nuovo spatial fix (e aprire nuove possibilità di accumulazione in altri luoghi e territorio). La crisi del 2008 si inserisce in questi “salti”, di cui necessita il sistema economico per ricreare nuovi circuiti di generazione di valore. Secondo Harvey siamo di fronte ad una nuova logica dell’accumulazione capitalista, che estrae e divora valore attraverso la “spoliazione” di spazi ancora gestiti dalla governance fordista. La rigenerazione urbana non è affatto immune a questa logica, i beni comuni rappresentano infatti un appetitoso bottino da “spoliare” e, dunque, mi sembra molto sensato provare, come hanno fatto Calderini e Venturi, ad “integrare in modo inscindibile progettazione sociale, sviluppo urbano e investimenti immobiliari”.
Calderini e Venturi, correttamente, individuano un passaggio chiave, affinché la rigenerazione sia effettivamente un processo virtuoso, ovvero l’esistenza di capitale sociale attivabile, in grado di orientare e pilotare la rigenerazione verso approdi comunitari. Ecco, “fin qui tutto bene”, ma cosa accade laddove questo capitale sociale è fragile e difficilmente attivabile? In un Paese segnato da crescenti fenomeni di disuguaglianza territoriale, con l’articolazione tra società civile, economia ed istituzioni che può assumere configurazione profondamente asimmetriche, vi è il rischio che i processi di rigenerazione si depositino solo in coincidenza dei giacimenti di capitale sociale, dove insiste una forte convergenza tra gli interessi della società civile, degli attori economici e del sistema istituzionale. In contesti in cui la crisi si è andata a sommare alle grandi questioni sociali irrisolte, la domanda a cui dovremmo provare a rispondere è come abilitiamo il capitale sociale. Nei territori a bassa infrastrutturazione sociale, che spesso sfuggono ad una lettura dicotomica tradizionale Nord-Sud o centro-periferia, è necessario, in primo luogo, lavorare ed investire per rigenerare i legami sociali.
La strumentazione finanziaria comunitaria, impiegata nelle ultime programmazioni con esiti “poco soddisfacenti” – l’ansia della spesa ha sostituito la ricerca dei risultati e dell’impatto – potrebbe essere utilizzata, in una logica partenariale pubblico-privato, per avviare delle serie politiche di infrastrutturazione sociale, interventi lungimiranti tesi a far emergere e sedimentare quel capitale sociale che è precondizione per la rigenerazione. La stessa implementazione di misure volte a trasferire risorse alle fasce più deboli della società, rischia di essere inefficace se non opportunamente accompagnata da interventi finalizzati all’infrastrutturazione di servizi di welfare. Poiché, per tornare alla scena iniziale de L’odio, il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.