Non ditemi quali sono i valori a cui vi ispirate. Fatemi vedere il vostro bilancio e capirò subito quali sono. Così diceva spesso Joe Biden (il vice di Obama) ai suoi interlocutori con responsabilità di governo. Anche la Ue ha un proprio modesto bilancio, pari a circa l’1% del Pil comunitario, che finanzia molte iniziative in campo economico e sociale. L’ammontare delle risorse e i loro impieghi vengono definiti ogni anno entro un «quadro finanziario pluriennale». Nel 2018 entreranno nel vivo i negoziati per il periodo 2021-2026. La Commissione proporrà un sostanzioso incremento dei contributi, anche per compensare la perdita di 10 miliardi annui causata dalla Brexit. I Paesi «forti» del Centro-Nord sono però ostili al cambiamento e soprattutto a ciò che la Germania chiama con sprezzo Transfer Union, ossia un bilancio a orientamento redistributivo. Ai nastri di partenza si prepara uno scontro fra interessi contrapposti. Se adottiamo il punto di vista di Joe Biden, non sembra proprio che i valori della coesione e della solidarietà stiano giocando un qualche riconoscibile ruolo.
Questa assenza costituisce un doppio tradimento. Nei confronti dei Trattati, innanzitutto, in particolare quello di Lisbona (2009), il quale include coesione e solidarietà fra i principi fondanti dell’Unione. Ma anche tradimento rispetto alla vocazione storica del bilancio comunitario, nato e cresciuto per attuare concretamente quei principi.
Certo, nel corso del tempo si è sempre rispettato il criterio del giusto ritorno: ciascun Paese membro deve derivare – nel medio e lungo periodo – benefici tangibili dall’integrazione, anche tramite la «cassa finanziaria comune». Dopo l’ingresso di Irlanda, Grecia, Spagna e Portogallo il bilancio Ue si è gradualmente orientato verso le politiche di «accompagnamento», volte a sostenere Paesi e regioni più deboli e a contrastare i rischi di marginalizzazione e svantaggio direttamente connessi al mercato comune (e oggi alla moneta unica).
La memoria storica si sta purtroppo estinguendo; giova perciò ricordare alcune voci della prima e seconda generazione di padri fondatori. Il tedesco Walter Hallstein, primo Presidente della Cee (1958-1967), disse chiaramente che il bilancio doveva aiutare la convergenza e insieme promuovere sentimenti di solidarietà fra i popoli. Quando negli anni Settanta si iniziò a parlare di Unione Economica e Monetaria, l’influente Rapporto Werner, commissionato da Bruxelles, mise in guardia contro la minaccia di distorsioni economiche e sociali, potenzialmente rovinose per la legittimità politica. Secondo il successivo Rapporto Thompson, che preparò il terreno per il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, il binomio crescita-coesione era un «imperativo umano e morale», senza il quale si sarebbero generate frustrazioni e disincanto fra gli elettori. Parole davvero profetiche. Nel 1977, il Rapporto McDougall avanzò a sua volta proposte rivoluzionarie: un bilancio minimo del 5-7% del Pil totale, un fondo europeo contro la disoccupazione e gli choc asimmetrici, uno schema di redistribuzione cross-nazionale dai Paesi più ricchi (e più avvantaggiati dall’unificazione) a quelli più poveri. Delors cercò di dare tutta la sostanza possibile a queste intuizioni. Convinto sostenitore del mercato unico, riteneva essenziale accompagnarlo con una dimensione sociale. Ben conoscendo le resistenze dei Paesi più forti, cercò di aggirare i governi nazionali istituendo legami diretti con le regioni (ma su questo fu successivamente sconfitto).
Da Maastricht in avanti la Ue ha manifestato un vero e proprio sdoppiamento di personalità. I valori dei padri fondatori hanno infarcito i preamboli dei vari Trattati, ma le politiche concrete di Bruxelles hanno proceduto in direzione opposta: condizionalità sempre più stringente nei trasferimenti di bilancio, responsabilità essenzialmente nazionali, «compiti a casa». La disciplina fiscale e le riforme strutturali sono ovviamente importanti. Ma sono anche politicamente divisive e a volte economicamente paradossali. Durante la crisi, ai Paesi indebitati è stato ad esempio limitato o addirittura negato l’accesso ai fondi strutturali, aggravando così i problemi economici.
Jacques Delors considerava la contrapposizione fra Paesi contribuenti e riceventi, creditori e debitori, «santi» e «peccatori» l’esempio emblematico della non Europe. Purtroppo è proprio ciò che è successo durante l’ultimo decennio. Un altro politico francese sta ora cercando di contrastare questa spirale disgregativa. Nel suo discorso di fine anno, Emmanuel Macron ha lanciato un appello per recuperare le ambizioni europee, non solo sul terreno economico, ma anche su quello della democrazia e della solidarietà. Parole che oggi suonano innovative e controcorrente. Ma che non sono poi così diverse da quelle più volte ribadite dal nostro Antonio Giolitti, che fu Commissario europeo fra il 1977 e il 1985: se abbandoniamo a se stessa la dimensione della solidarietà, non avremo mai un’Europa unita.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 5 gennaio 2018 e qui riprodotto previo consenso dell’autore.