Le nuove stime pubblicate dalla Banca d’Italia sul Pil 2017 hanno fatto discutere. Il numero uscito (+1,4%) non è così distante dalle valutazioni di altri centri di ricerca o persino del Fondo Monetario ma una lista degli ottimisti capeggiata da Palazzo Koch qualche sensazione nuova la fornisce. I più maliziosi, come Enrico Rossi presidente della Regione Toscana e fondatore di Mdp, si sono spinti molto in avanti ipotizzando un legame «tra l’odierno ottimismo e la scadenza degli incarichi che ci sarà ad ottobre» ma come si sa in Italia le polemiche partono anche per molto meno.
Per avere un riscontro solido bisognerà attendere metà agosto con il dato ufficiale dell’Istat sul Pil del secondo trimestre (la Banca d’Italia prevede +0,4%), nel frattempo però metteremmo in guardia gli esponenti della maggioranza dall’intestarsi in toto la ripresa. Se non altro perché appare chiaro, da tutti gli studi, che la matrice è esogena ovvero è molto influenzata dal buon ritmo dell’economia internazionale, dalla tenuta dei flussi della globalizzazione nonostante le sparate di Donald Trump e dal ritorno di vivacità dei Paesi Bric. L’elemento endogeno dell’accelerazione del Pil italiano è dovuto quasi interamente alle vendite di auto che in tre anni hanno fatto segnare +40% di immatricolazioni. Ma fin quando durerà questo ciclo? È di 48 ore fa la rilevazione riferita a giugno 2017 di un rallentamento nelle vendite in Europa.
Resta da aggiungere che la nostra crescita viaggia comunque più lentamente rispetto ai partner europei: la Spagna è poco sotto il 3%, la Germania poco sopra il 2%, la Francia a +1,7% e la media dell’area euro a +2,1%.
Anche i più ottimisti tra coloro che stimano un’accelerazione dei decimali del Pil italiano sanno però che il problema di più difficile soluzione è un altro: l’effetto di trasmissione in basso non è così immediato e meccanico. Se ci riferiamo ad almeno tre parametri «sociali» ovvero disoccupazione, povertà e salari anche un +1,4% non sposta molto. Partiamo dall’occupazione che è cresciuta ma non nella direzione auspicata dai sostenitori del Jobs act: dai dati Inps viene fuori che nel 2017 solo il 20% di contratti attivati ha utilizzato le tutele crescenti mentre il 66,8% è composto da assunzioni a termine. Aggiungiamo poi che per effetto della legge Fornero sul prolungamento dell’età pensionabile l’occupazione statistica aggiuntiva si addensa nelle classi di età dai 50 in poi.
Che fare? Il governo Gentiloni pensa di inserire nella prossima legge di Stabilità una misura selettiva a favore dei giovani, che ne riduca strutturalmente il costo del lavoro e quindi induca le imprese a privilegiarli. Maurizio Ferrera sul Corriere pochi giorni fa ha sostenuto la necessità di una misura straordinaria, una sorta di 5xmille per l’occupazione giovanile. Il tema è dunque sul tappeto e i decimali del Pil incidono poco (per ora).
In materia di povertà assoluta possiamo dirci soddisfatti di aver fermato la frana: negli ultimi due anni le quantità sono rimaste invariate. Il guaio è però che l’indigenza italiana si addensa tra i minori e gli adolescenti con il gravissimo rischio di consegnarci negli anni un considerevole stock di giovani poveri con tutto quello che ne consegue in termini di esclusione, costi di welfare e contraccolpi psicologici. Il governo Gentiloni ha colmato una lacuna storica del nostro Paese varando la prima misura anti povertà (il Reis) ma le organizzazioni della società civile che l’hanno proposta e sostenuta sono coscienti che si tratta solo di un intervento di pronto soccorso. C’è bisogno invece di una vera terapia anche se guidata dal criterio di focalizzazione delle risorse e non dalla spesa a pioggia.
Per ultimo, i salari. L’Istat ci ha detto che si stanno ingrossando le fila dei working poors, tute blu che lavorano ma non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. La Banca d’Italia ha aggiunto che un incremento dei salari aiuterebbe i consumi e indirettamente il Pil. Ma come abbiamo visto con gli 80 euro — per le incertezze sul futuro — non è automatica la trasmissione tra aumenti in busta paga e maggiori consumi e soprattutto da parte della Confindustria si teme, a ragione, che un incremento dei salari finisca per deprimere gli investimenti e l’export a causa della conseguente perdita di competitività da parte delle imprese. Come se ne esce? A settembre piuttosto che organizzare 100 tavole rotonde sul tema, la strada che ci sentiamo di suggerire è un’altra: rompere gli indugi sulla riforma delle relazioni industriali e pigiare il pedale dello scambio salari-produttività.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 16 luglio e qui riprodotto previo consenso dell’autore