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Il 18 dicembre su Corriere Buone Notizie, inserto settimanale del Corriere della Sera, è stata pubblicata un’inchiesta curata da Percorsi di secondo welfare sulle Società di Mutuo Soccorso. Di seguito trovate l’articolo di contesto firmato da Davide Illarietti, giornalista del Corriere della Sera, e l’infografica curata da Sabina Castagnaviz; qui invece potete trovare il commento di Valentino Santoni sul ruolo che le mutue hanno nell’attuale sistema di welfare italiano, a cavallo tra sistema sanitario nazionale e nuove possibilità offerte dagli attori privati.

 

Ce n’è in ogni città. Di solito è un edificio signorile, affreschi e cimeli impolverati e un vecchio portone, che si apre solo per eventi culturali. Via De Bonis a Verbania, via Monteleone a Palermo, via Dei Priori a Perugia. Altre volte è un palazzo moderno, un sito web agguerrito e uffici open space, come in via Calori a Bologna. Le società di mutuo soccorso in Italia sono nate nel 1804, sotto Napoleone; ne sopravvivono oltre un migliaio, anche se molti le davano per spacciate quarant’anni fa. Grandi, piccole, ricche e povere, hanno un’unica origine comune: quella di salvadanai “comunitari” creati lungo la Penisola dalla solidarietà collettiva.

Le prime nacquero in istituti religiosi, o all’osteria. I fondatori – corporazioni artigiane o sindacati di lavoratori ante-litteram, uniti dall’esigenza di assicurarsi da infortuni e malattie – difficilmente avrebbero immaginato di finire in un’anagrafe digitale, due secoli dopo. È successo nel 2017. La riforma del Terzo Settore ha riconosciuto le Società di mutuo soccorso (Sms) come enti no profit, in ragione della loro missione sociale. Nel frattempo cosa è cambiato? E cosa cambierà in futuro?

I numeri anzitutto. Nel 1884 il primo censimento nazionale – ordinato dai Savoia – contava 857 società (operaie e non) di mutuo soccorso in Italia; nel 1904 erano 6.535 con 926.027 soci; poi il fascismo e, ancor di più, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (Ssn) nel 1978 ne decretarono il declino. Due anni fa le Sms registrate in Italia erano 1.114 per un totale di 953mila iscritti, e in futuro sembrano destinate a diminuire ancora. In realtà, già oggi oltre metà delle associazioni sono “tecnicamente defunte”: quelle davvero attive sono 509 secondo la Fimiv, la Federazione italiana della mutualità integrativa volontaria. La maggior parte di esse svolge attività minori, di tipo ludico-ricreativo o culturale. Ventiquattro offrono servizi in campo sanitario: si concentrano soprattutto al Nord, in Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna, e cercano di buona lena d’allargare il raggio d’azione su scala nazionale.

Non mancano – si sa – gli spazi lasciati vuoti dalla sanità pubblica in ritirata. “Tappare i buchi” assistenziali è diventata, negli anni, l’arte delle mutue integrative più dinamiche: dalle cure domiciliari alle spese odontoiatriche, dai trasporti alle visite specialistiche. «L’offerta di servizi strutturati è cresciuta proporzionalmente al bisogno delle famiglie che, purtroppo, nel nostro Paese si vedono sempre più spesso costrette a rivolgersi al settore privato» osserva Franca Maino, docente di Politiche sociali e del lavoro alla Statale di Milano e coordinatrice del Laboratorio di ricerca Percorsi di secondo welfare. I dati fanno impressione: nel 2017 secondo il Censis 44,1 milioni di italiani hanno speso risorse private (in totale 39,7 miliardi di euro) per prestazioni sanitarie non coperte dall’Ssn. Dodici milioni hanno invece rinunciato a curarsi a causa dei costi troppo elevati. Le mutue «di fatto rappresentano per questo bacino l’unica reale alternativa» avverte Maino.
 


Il problema è che pochi sanno che esistono ancora
. E cosa sono davvero. Colpa (anche) della concorrenza del settore profit: a colpi di slogan, i concetti stessi di “mutualità” e “sussidiarietà” sono stati assorbiti col tempo – impropriamente – dalle compagnie assicurative. La differenza non è da poco: le Sms si compongono per statuto di soci con diritto di voto, non hanno scopo di lucro, offrono sussidi e prestazioni a soggetti in difficoltà economiche. In base alla nuova legge, ora hanno «tre anni di tempo per trasformarsi in associazioni e iscriversi al Registro unico del Terzo Settore (Ets), mantenendo così il proprio patrimonio sociale». La mutazione implica diversi obblighi (contabili e statutari) ma altrettanti benefici: uno su tutti, l’accesso agli strumenti della finanza sociale.

Delle 509 mutue attive in Italia non si sa, quante passeranno la prova. Solo una su quattro ha più di 400 soci; di questi, appena il 14 per cento hanno un’età inferiore ai 50 anni, un terzo ha passato la sessantina. Ma alcuni casi fanno ben sperare. La Società Pinerolese è tra le più antiche d’Italia e tra le prime ad aver imboccato la trasformazione in Enti del terzo settore; da piccolo operatore locale (2.500 soci) ha creato una rete di servizi in tutto il Piemonte. Società come la Cesare Pozzo (86mila soci) o la bolognese Campa (37mila) riescono già a competere con i grandi gruppi assicurativi. E si proiettano su nuove frontiere: attorno ai primi circuiti virtuosi tra mutue e cooperative socio-sanitarie sono nati, negli ultimi anni, veri e propri bacini di welfare comunitario. Alla rete si sono allacciati enti pubblici e privati, Confcommercio, Confindustria e Legacoop (per dirne alcune) dal Trentino all’Abruzzo passando per la Liguria. Per uscire dall’angolo «i piani di welfare aziendale rappresentano un’opportunità che alcune Sms hanno già saputo cogliere, offrendo servizi non più solo ai cittadini, ma anche alle imprese. È una sfida da non perdere» osserva Maino. Il rischio altrimenti, è che i benefici previsti dai Ccnl «finiscano in buoni benzina o buoni acquisto per i dipendenti» avverte l’esperta. «La salute verrebbe ancora una volta trascurata».

Questo articolo è stato pubblicato su Buone Notizie del 18 dicembre 2018 ed è stato realizzato nell’ambito della collaborazione tra Percorsi di secondo welfare e il settimanale del Corriere della Sera.