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Due premesse

Forse è opportuno mettere sin da subito in chiaro la posizione di partenza: quanto riportato dal Sole 24 Ore a proposito dell’imminente nascita di quello che è stato definito “IRI del terzo Settore” è una buona notizia. Questa è la prima premessa che sembra opportuno fare nell’affrontare un tema che non mancherà certamente di avere ulteriori sviluppi. Ciò detto, occorre tuttavia rilevare che ogni buona notizia non è necessariamente la migliore possibile e soprattutto non necessariamente esaurisce curiosità e preoccupazioni. Nei passaggi che seguono si vorrebbe provare ad offrire alcune di queste curiosità e preoccupazioni in modo un po’ sistematico e sulla linea di quanto emerso nel lavoro di osservazione svolto da Percorsi di Secondo Welfare negli ultimi mesi. 

Prima di entrare nel merito della proposta, sia consentita una seconda preliminare osservazione, volta a dimostrare che le riflessioni seguenti, lungi dall’essere mero esercizio di spirito polemico, muovono da posizioni non così distanti da quelle del presidente in pectore dell’IRI del Terzo Settore, Enzo Manes. Le posizioni dell’imprenditore, manager e filantropo che è stato nominato consigliere per il Terzo Settore dal Primo Ministro Matteo Renzi, pur essendo molto più articolate di un semplice slogan, sono spesso ricordate attraverso il titolo dato ad un suo intervento sulle pagine de Il Fatto Quotidiano nella primavera scorsa, laddove Manes sosteneva che «gli investimenti sociali sono trendy ma non sono la priorità». Su questa uscita si era aperto un acceso dibattito più volte ripreso anche da Percorsi di Secondo Welfare e peraltro richiamato nel capitolo dedicato ai social impact bond di prossima pubblicazione con il Secondo Rapporto sul Secondo Welfare in Italia. Quanto detto da Manes in quell’intervento non sembrava del tutto condivisibile, tuttavia una certa insofferenza per la retorica che circonda il tema degli investimenti ad impatto sociale aveva trovato la nostra simpatia.

Prova di questo sia il recente contributo che abbiamo pubblicato a proposito di un articolo uscito sulla Stanford Social Innovation review, dove ci siamo permessi di definire “lezioso” il modo in cui il dibattito sui social impact bond è portato avanti anche tra docenti della prestigiosa Harvard University.


Nodi che dovrebbero essere esplicitati

Il punto principale che non è chiaro nell’articolo del Sole 24 Ore riguarda il tipo di attività finanziaria che l’IRI del Terzo Settore andrà a realizzare. Nel testo infatti si legge che i 50 milioni messi a disposizione di tale ente «costituiscono una base per procedere al successivo fundraising fra i privati»: ora se è chiaro che l’IRI del Terzo Settore si preoccuperà di raccogliere ulteriori fondi, non altrettanto appare il modello di finanziamento che metterà a disposizione delle imprese sociali (e quali soggetti siano effettivamente legittimati ad accedervi, visti i rallentamenti del disegno di legge che dovrebbe offrirne una ridefinizione). Che si tratti di finanziamenti a fondo perduto o finanziamenti che richiedono – quantomeno – un rimborso, non è aspetto secondario. E nel caso di finanziamenti in senso stretto, dunque escludendo logiche di grant-making più tradizionali, sarebbe interessante sapere che tipo di investimenti si ipotizzano: sia per quanto riguarda la loro connotazione temporale (di breve, medio o lungo termine), sia con riferimento al tipo di capitale che offriranno (debito, di rischio, misto, ecc.).

Sulla base delle dichiarazioni di Manes, così come riportate nell’articolo citato, «l’idea è quella di creare una lista di donors»: una simile espressione, legata anche all’utilizzo del termine “fundraising” e al costante riferimento all’attività filantropica, farebbe propendere per una attività erogativa più classica, rendendo in tal caso difficili da distinguere – dal punto di vista funzionale – l’IRI del Terzo Settore dalle fondazioni filantropiche già presenti nel nostro Paese, come ad esempio le Fondazioni di Origine Bancaria. Al di là della de-territorializzazione e di una maggiore semplicità nella scelta dei soggetti cui erogare i finanziamenti (pare non sussisterà l’obbligo di procedure ad evidenza pubblica!), peraltro aspetti di per sé discutibili, ci si chiede dunque: quale sarà l’elemento di novità che accompagnerà la nascita di questo nuovo soggetto?

Peraltro, sempre basandosi sul virgolettato dell’articolo a firma di Paolo Bricco, si apprende che l’obiettivo sarebbe quello di accompagnare il Terzo Settore ad un «salto dimensionale»: ora sappiamo bene che la crescita di ogni attività economica non avviene per il semplice fatto di maggiori disponibilità finanziarie. Innanzitutto sarebbe opportuno approfondire se una crescita dimensionale, ammesso che tale obiettivo possa essere ritenuto un obiettivo valido da perseguire, possa avvenire sulla base di contributi a fondo perduto che, se in un primo momento consentirebbero una espansione delle attività dell’impresa sociale, sul medio e lungo termine la ritroverebbero estremamente dipendente da tali contributi, salvo la decisione di un ritorno alla dimensione pre-finanziamento.

Ancora, e sulla base di quanto sta avvenendo anche in altri paesi europei (leggasi Portogallo), ci si chiede se all’interno dell’IRI del Terzo Settore si preveda qualcosa in più di semplici trasferimenti monetari o operazioni finanziarie, giacché quanto più volte sostenuto anche da autorevoli studiosi del Terzo Settore, una necessità particolarmente avvertita in tale ambito è oggi quella che va sotto il nome di “capacitazione”: nuove competenze manageriali, maggiore dimestichezza con i profili finanziari dell’attività di impresa e più definite strategie di sviluppo poggiano evidentemente sull’acquisizione di capacità e conoscenze che vanno al di là delle semplici disponibilità finanziarie di un’impresa. Sono tuttavia questi ultimi elementi quelli che la teoria economica più avvertita ha riconosciuto essere decisivi per una crescita.


Oltre la crescita e verso un “incastro virtuoso”

L’autore dell’articolo sostiene dunque che il modello «è quello di una fondazione in partecipazione mista pubblico-privata, dotata di un nocciolo duro di soldi statali in grado ipoteticamente di attrarre fondi privati, con una gestione di stile privato e una supervisione pubblica». Però prosegue sostenendo anche che un tale modello è costruito nella speranza «che possa contribuire alla razionalizzazione e alla modernizzazione di un settore che, nonostante la fioritura sperimentata negli ultimi quindici anni, resta frammentato e frammentario».

Al di là di un certo senso di contraddizione tra il commento del giornalista e le parole attribuite a Manes, bisogna riconoscere che l’autore centra un punto decisivo del dibattito più avanzato sui rapporti interni al mondo del Terzo Settore e tra questo e il sistema sociale o di welfare: considerato che il sistema di welfare pubblico (inteso qui come “statale”) trova nei soggetti del Terzo Settore e in tutte quelle esperienze di secondo welfare che al suo interno fioriscono un prezioso alleato, diviene strategico stabilire quale linea seguire perché si possa produrre un “incastro virtuoso” tra questi due ambiti.

Il tema che quindi si propone è quello di una governance del versante dell’offerta di servizi sociali o di welfare che sia in grado di bilanciare il carattere frammentario e frammentato del Terzo Settore. Non si tratta di un nodo semplice, anche perché la consapevolezza del valore strategico del Terzo Settore, di cui il secondo welfare è in buona parte espressione, non è così sviluppata, come documenta anche la recente scelta operata in occasione del rimpasto degli assessorati di Regione Lombardia: dinnanzi alla possibilità di creare per la prima volta un assessorato orientato all’innovazione sociale, dunque impegnato proprio nel sostegno e nella governance di un secondo welfare che è sempre di più un fattore produttivo e di sviluppo economico, si è scelto – peraltro comprensibilmente in una logica eminentemente politica – di formulare deleghe assessorili sul reddito di autonomia e l’inclusione sociale. In altri termini, e ritornando sulla questione in oggetto, non è chiaro se l’IRI del Terzo Settore sarà un soggetto in capo al quale si instaureranno simili funzioni o se resterà un mero soggetto erogatore. Questo peraltro non è un elemento neutro rispetto alla futura governance interna della struttura, posto che la scelta di costruire e coordinare una rete di offerta di servizi sociali o di welfare richiede una legittimazione politica consistente, soprattutto nel generale clima di sfiducia odierno.

Ma l’opzione tra un soggetto erogatore e un ente cui affidare la governance di un ecosistema di investimenti ad impatto sociale, riguarda soprattutto una visione circa le possibili relazioni tra mondo economico e mondo sociale. Si tratta di capire se è possibile superare l’austerità e le politiche di risanamento dei conti pubblici, sostenendo la creazione di una vera ed integrata economia civile, orientata alla creazione di autentico impatto sociale, per raggiungere la sostenibilità economica, oltre i confini geografici e organizzativi dei diversi ambiti del mercato e del welfare. Ancora, mentre il trend generale che si può apprezzare osservando quanto avviene in molti altri paesi europei, è guidato dall’idea di trasformare i “costi pubblici” in investimenti condivisi per il bene comune, favorendo così il passaggio da una fornitura (o acquisto) di servizi sociali da parte del settore pubblico, al co-design, co-finanziamento e co-fornitura di prestazioni e outcomes sociali concordati in una prospettiva multistakeholders, i termini in cui l’IRI del Terzo Settore prende forma sembra seguire logiche che ripropongono la tradizionale dicotomia tra agire economico e agire sociale.


Oltre lo spirito filantropico: niente gattopardismi, puntiamo all’innovazione sociale

Manes sostiene che «il Terzo Settore italiano è articolato ed effervescente» e che «questo campo si è molto evoluto negli ultimi quindici anni». Ma di che evoluzione si tratta? Senza specificare quali cambiamenti sono occorsi e stanno avvenendo nel mondo del Terzo Settore sembra difficile immaginare una forma adeguata per accompagnarli. Peraltro, come potrebbe a lungo argomentare Paolo Venturi, uno dei tratti salienti del Terzo Settore è quello della sua ibridazione. Ora appare chiaro che di questa ibridazione non c’è traccia nella proposta di Manes. A fronte di imprese sociali afferenti al mondo una volta detto non profit, si offrono strumenti di sostegno sempre non profit. Alle imprese for profit, si deduce, restano riservati gli strumenti di finanziamento for profit.

Così, secondo un approccio top-down, l’IRI del Terzo Settore sembra nascere sulla base del migliore spirito filantropico, il quale tuttavia è da tempo impegnato nella ricerca di una sua nuova identità e un suo rinnovato ruolo: non per nulla e in tempi non sospetti abbiamo ritenuto di proporre ai lettori italiani una sorta di sintesi commentata del corposo lavoro di Lester Salamon, che parla – si direbbe non a caso – di “nuove frontiere della filantropia e impact investing”.

Se l’IRI del Terzo Settore non si misurerà con questo grande processo di cambiamento rischia di nascere su ottime intenzioni e purtuttavia su una visione passata del Terzo Settore, così come della filantropia. È vero quanto dice Manes, laddove – riferendosi all’imminente nascita di questa “super” fondazione filantropica nazionale – sostiene che «una cosa così, in caso di successo, cambierà in meglio il volto di un pezzo fondamentale dell’economia e della società del nostro Paese», tuttavia come insegna il caso del Portogallo, con il suo programma Portogallo Innovazione Sociale, l’obiettivo potrebbe essere anche un po’ più ambizioso: perseguire il miglioramento di un pezzo dell’economia non è lo stesso che ambire a cambiare la struttura profonda dell’economia e delle politiche pubbliche. La vera sfida dinnanzi alla quale ci si trova riguarda infatti riguarda non tanto le dimensioni del profitto e della solidarietà, quanto piuttosto la possibilità e i modi di una riconciliazione tra due diverse dimensioni che – soprattutto dopo gli eventi alla base delle note vicende del 2008 – non possono più essere considerate a sé stanti, come fossero parallele: la riconciliazione tra la dimensione economica e quella sociale è l’ambizione che caratterizza – non solo in Italia – gli attuali sistemi di welfare, non a caso oggi investiti dal paradigma dell’investimento sociale. La partita insomma si giocherà ancora una volta tra innovazione sociale e “gattopardismi”.