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Nell’aprile 2014, il Governo Renzi, ha annunciato il proprio impegno per la riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale, generando forti aspettative ed alimentando un importante dibattito sul futuro del Terzo settore nel nostro Paese. I principali obiettivi perseguiti dal Governo con la riforma erano due: liberare il potenziale di crescita delle organizzazioni del Terzo settore, con particolare attenzione alle imprese sociali, e semplificare il quadro normativo del settore regolato da norme specifiche, frammentate e parcellizzate (ad esempio dedicate alla disciplina del volontariato, delle associazioni di promozione sociale e della cooperazione sociale), approvate in prevalenza negli anni Novanta.

Il percorso di riforma ha avuto due momenti chiave: l’approvazione della legge delega n. 106 del 6 giugno 2016 e l’approvazione del decreto legislativo n. 112 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 luglio del 2017 che da attuazione, per la parte relativa all’impresa sociale, ai principi contenuti nella legge delega.

In questo articolo ricostruiremo il dibattito che si è sviluppato in questi tre anni tra operatori del settore, ricercatori e policy maker, illustreremo le principali novità introdotte dalla riforma e cercheremo di formulare delle prime valutazioni generali sulla riforma.

 

1. Il dibattito che ha accompagnato la riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale

Il percorso di riforma ha fatto emergere un dibattito sul futuro del Terzo settore e dell’impresa sociale che ha visto confrontarsi schieramenti differenti. Da un lato un modello di impresa sociale che si ispira all’esperienza anglosassone, in cui sono centrali i grandi filantropi e la capacità di attrarre capitali finanziari. In questa prospettiva l’impresa sociale, legata alle realtà for profit, puntando sulla finanziarizzazione e sull’industrializzazione dei processi di erogazione dei servizi, può svolgere un importante ruolo nei processi di mercatizzazione del sistema di welfare italiano e può candidarsi a realizzare alcuni grandi progetti nazionali individuati, direttamente o indirettamente, dalle autorità governative con un approccio top down. Questa visione si è dimostrata estremamente attraente, ha incontrato il consenso dei media, dei grandi player bancari, del mondo della finanza e dell’imprenditoria tradizionale, tuttavia la capacità di questo modello di produrre utilità e valore sociale non sembra essere supportato da adeguate evidenze empiriche.

Dall’altro lato un adeguamento del modello di impresa sociale nato e sviluppatosi in Italia grazie alle cooperative sociali, che ha rappresentato un punto di riferimento per numerosi paesi europei. Questo modello ha permesso di innovare la rete dei servizi del welfare in collaborazione con gli attori pubblici ed ha reso esigibili i diritti di molti cittadini con disabilità anche se con ridotte capacità di spesa. Le cooperative sociali hanno saputo realizzare importanti investimenti pur essendo fondate sulle persone e si sono caratterizzate per percorsi di sviluppo botton up centrati sul coinvolgimento degli attori del territorio. Numerose evidenze empiriche, nazionali ed internazionali, mostrano la capacità di questo modello di impresa sociale di realizzare importanti performance economiche e sociali, in termini di numerosità delle imprese, degli addetti, dei soci, dei beneficiari dei servizi e delle persone svantaggiate coinvolte in percorsi di inclusione lavorativa. A prova di questi giudizi vi sono i rapporti di ricerca realizzati in questi anni dall’Istat, dalla rete dei centri di ricerca sull’impresa sociale Iris Network, dal centro studi Euricse e dal Centro Studi di Legacoop.

Con la riforma il Parlamento ed il Governo che scelte hanno fatto? Quale modello di impresa sociale hanno deciso di promuovere e sostenere? Quali strumenti hanno individuato per “liberare” il potenziale di crescita delle imprese sociali?

 

2. I principali contenuti della riforma

Per rispondere a questi interrogativi analizzeremo i principali contenuti della legge delega 106 del 2016 e successivamente quelli del decreto legislativo 112 del 2017.

La legge delega 106 del 2016

La delega offre una definizione chiara di Terzo settore, ne definisce il perimetro individuando le organizzazioni che appartengono al settore e quelle escluse. In particolar modo la delega stabilisce che “per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che … promuovono e realizzano attività di interesse generale mediate azione volontaria e gratuita o di mutualità e di produzione e scambio di beni e servizi”.

La legge 106 stabilisce in modo esplicito che l’impresa sociale “rientra nel complesso degli enti del Terzo settore” così come fanno parte del Terzo settore le cooperative sociali ed i loro consorzi per le quali all’art. 6 della delega è prevista “l’acquisizione di diritto della qualifica di impresa sociale”.
Per quanto riguarda le imprese sociali la legge delega supera il divieto assoluto di distribuzione degli utili e permette alle imprese sociali di distribuire gli utili in modo analogo alle cooperative a mutualità prevalente.

In questo modo la legge delega determina un percorso di convergenza tra imprese sociali e cooperative sociali costituite ai sensi della legge 381 del 1991.
In primo luogo, le imprese sociali e le cooperative sociali perseguono entrambe finalità collettive e solidaristiche. Questo aspetto è stato rafforzato dalla legge 106 che ha inserito le imprese sociali nel perimetro delle organizzazioni del Terzo settore ma era presente anche in precedenza in quanto l’Art. 1 della legge 381 del 1991 stabiliva che le cooperative sociali perseguono “l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini” e l’Art. 1 del decreto legislativo 155 del 2006 definiva che possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni “che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale”.

In secondo luogo, la norma del 2016 ha stabilito per le cooperative sociali e i loro consorzi l’acquisizione di diritto della qualifica di impresa sociale. In questo modo la legge delega supera quanto previsto su questo tema dal 155 del 2006 e riconosce che le cooperative sociali rappresentano una specifica forma di impresa sociale, sanando una falla normativa che era stata aperta dal 155, poiché sia da un punto di vista teorico che operativo le cooperative sociali sono considerate una delle principali forme di impresa sociale presenti in Europa, si veda a tal proposito i lavori della rete dei centri di ricerca europei Emes, consultabili sul sito www.emes.net.

Infine, la legge delega ha superato il vincolo alla distribuzione degli utili previsto per le imprese sociali dal 155. Nel dettaglio l’art. 3 del 155 stabiliva che “l’organizzazione che esercita un’impresa sociale destina gli utili e gli avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio” e che “a tale fine è vietata la distribuzione, anche in forma indiretta, di utili e avanzi di gestione, comunque denominati, nonchè fondi e riserve in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori”. Queste disposizioni, molto più stringenti di quelle previste per le cooperative sociali, sono state riviste dalla legge delega che ha introdotto per le imprese sociali la possibilità di distribuire gli utili tra i soci individuando come limite massimo lo stesso fissato per le cooperative a mutualità prevalente.

Il Parlamento con la legge 106 ha individuato nella cooperazione a mutualità prevalente un importante modello per le imprese sociali, non accogliendo le proposte di chi, anche nel Governo, avrebbe preferito offrire alle imprese sociali la possibilità di distribuire utili senza porre dei tetti.

Il decreto legislativo 112 del 2017

Il decreto legislativo che attua la delega per la parte relativa all’impresa sociale introduce alcune significative novità tra cui: ridefinisce i settori in cui può essere esercitata l’attività di impresa sociale ed i settori di operatività delle cooperative sociali; introduce delle misure fiscali a sostegno delle imprese sociali; introduce degli incentivi finalizzati a sostenere la capitalizzazione delle imprese sociali.

  • La revisione dei settori in cui possono operare le imprese sociali e le cooperative sociali: il decreto legislativo amplia i settori in cui possono operare le imprese sociali (vedi tabella 1 e 2) inserendo nuovi ambiti di intervento che si aggiungono ed in parte sostituiscono quelli definiti dal 155 del 2006. In questo modo permette alle imprese sociali di operare in nuove aree come ad esempio l’alloggio sociale, il microcredito, la riqualificazione dei beni pubblici inutilizzati e dei beni confiscati alle mafie con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo di questa forma di impresa in settori ritenuti strategici per lo sviluppo sociale ed economico del Paese. Il decreto, inoltre, modifica l’art. 1 della legge 381 del 1991 ed amplia il campo di intervento delle cooperative sociali che operano senza realizzare inserimenti lavorativi (vedi tabella 1 e 2).

   
Tab. 1 Settori in cui possono operare cooperative sociali ed imprese sociali prima della riforma

Tab. 2 Settori in cui possono operare cooperative sociali ed imprese sociali dopo la riforma
  

  • Le misure fiscali e di sostegno economico: il decreto legislativo affronta anche la parte relativa alle misure fiscali e di sostegno economico volte a favorire la nascita e lo sviluppo delle imprese sociali alle quali viene dedicato uno specifico articolo (Art. 18). In primo luogo, in analogia con il trattamento degli utili delle cooperative sociali, il Governo con il decreto ha stabilito che “gli utili e gli avanzi di gestione delle imprese sociali non costituiscono reddito imponibile ai fini delle imposte dirette qualora vengano destinati ad apposita riserva indivisibile … e risultino effettivamente destinati … allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio”. In secondo luogo, sostiene la capitalizzazione delle imprese sociali introducendo significativi vantaggi fiscali per le persone fisiche e giuridiche che capitalizzano le imprese sociali di recente costituzione (36 mesi) che abbiamo acquisito la qualifica di impresa sociale successivamente all’entrata in vigore del decreto. A tal fine il decreto stabilisce che “dall’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche si detrae un importo pari al trenta per cento della somma investita dal contribuente nel capitale sociale di una o più società … che abbiano acquisito la qualifica di impresa sociale successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto e siano costituite da non più di trentasei mesi dalla medesima data”.

 

3. Un primo giudizio sulla riforma

La riforma ha apportato numerose novità nella disciplina dell’impresa sociale, per capire la portata delle quali saranno necessari mesi e forse anni, anche perché molte innovazioni normative e molte misure incentivanti necessitano di ulteriori provvedimenti attuativi.

In sintesi la riforma dell’impresa sociale:
a. Introduce, per tutte le imprese sociali, la possibilità di distribuire;
b. Riconosce la centralità del modello cooperativo per le imprese sociali;
c. Stabilisce che le cooperative sociali sono imprese sociali di diritto;
d. Amplia in modo significativo i settori di intervento delle imprese sociali (tabella 2);
e. Introduce agevolazioni fiscali per le imprese sociali simili a quelle che già erano presenti per le cooperative sociali;
f. Introduce misure di sostegno alla capitalizzazione delle imprese sociali nella fase di start-up.

Pur riconoscendo la portata innovativa della riforma crediamo che nel suo complesso il percorso riformatore avviato con grande enfasi nel 2014 avrebbe potuto raggiungere obiettivi molto più ambiziosi. Crediamo che in diversi aspetti la riforma sia poco lungimirante e poco coerente con gli obiettivi dichiarati di semplificazione normativa e di sviluppo economico.

In particolar modo riteniamo che i due principali limiti della riforma sono: non aver uniformato i settori di intervento delle cooperative sociali a quelli delle imprese sociali e in modo più generale non aver allineato la normativa che disciplina le cooperative sociali con quella delle imprese sociali; aver riservato le misure a sostegno della capitalizzazione delle imprese sociali solo alle start-up.

I settori di intervento delle imprese sociali e delle cooperative sociali

Il Governo con il decreto legislativo 112 ha modificato l’art. 1 della legge 381 del 1991 che disciplina le cooperative sociali ed ha ampliato il campo di intervento delle cooperative sociali che operano senza realizzare inserimenti lavorativi aggiungendo ai “servizi socio-sanitari ed educativi” previsti dalla legge 381 anche alcuni settori in cui possono operare le imprese sociali (Tab. 2). Questo intervento, tuttavia, anziché uniformare i settori in cui possono operare le imprese sociali e le cooperative sociali, ha scelto di perimetrare il campo di operatività della cooperazione sociale al welfare ed alla formazione, lasciando tutti i settori maggiormente connessi alle dinamiche di sviluppo locale (ad esempio l’ambiente, la cultura, la riqualificazione dei beni pubblici e dei beni confiscati alle mafie) ad esclusiva prerogativa delle imprese sociali costitute ai sensi del decreto 155/2006 ed alle imprese sociali che nasceranno in seguito alla riforma. Questa scelta è, per diversi motivi, miope e poco lungimirante.

In primo luogo, non considera che le più recenti dinamiche di sviluppo dell’imprenditorialità sociale integrano sempre più welfare, innovazione e sviluppo locale (Bernardoni ed altri, 2012, Bernardoni e Picciotti, 2017 e Federsolidarietà 2015) e che è proprio l’integrazione tra welfare e sviluppo locale ad aver prodotto negli ultimi anni le maggiori innovazioni sia tra le cooperative sociali che tra le imprese sociali.

In secondo luogo, il decreto non è allineato con la realtà attuale, in quanto non include tra i settori in cui le cooperative sociali possono operare ambiti di intervento in cui oggi mettono in campo buone pratiche riconosciute a livello internazionale. Emblematico in tal senso è il tema dei beni confiscati alle mafie; in questo settore le cooperative sociali rappresentano un modello studiato nel mondo, ma in base al decreto legislativo la riqualificazione dei beni pubblici inutilizzati e dei beni confiscati alle mafie è un settore in cui le cooperative sociali che non realizzano inserimenti lavorativi non potranno operare.

In terzo luogo, anziché liberare il potenziale di crescita dell’imprenditorialità sociale il decreto lo limita in quanto l’ampliamento dei settori di attività riguarda solo marginalmente la cooperazione sociale che rappresenta per numero di imprese, addetti e valore della produzione più del 90% dell’imprenditorialità sociale in Italia.

Uniformare gli ambiti di intervento di imprese sociali e cooperative sociali sarebbe stato un provvedimento a costo zero per lo Stato che avrebbe moltiplicato gli effetti positivi della riforma sia in termini di sviluppo economico che di coesione sociale.

I meccanismi incentivanti

Le misure introdotte dal decreto a sostegno della capitalizzazione delle imprese sociali sono importanti e positive, tuttavia non si comprende la ragione per cui gli incentivi alla capitalizzazione delle imprese sociali siano limitati solamente alle imprese di recente costituzione (36 mesi) che abbiamo acquisito la qualifica di impresa sociale solo successivamente all’entrata in vigore del decreto.

Tale vincolo penalizza le imprese sociali costituitesi dopo l’approvazione del decreto 155 del 2006 e le migliaia di cooperative sociali nate e sviluppatesi nei decenni scorsi. Tale penalizzazione appare particolarmente pesante se si considera che negli anni della crisi le cooperative sociali hanno garantito occupazione e coesione sociale anche grazie ai soci che hanno realizzato importanti aumenti di capitale sociale. La capitalizzazione dei soci rappresenta uno degli elementi che hanno dato solidità patrimoniale alle imprese e cooperative sociali e quindi dovrebbe essere incentivata, cosa che il decreto fa solo per le start-up.

Appare, anche, eccessivamente elevato il limite dell’investimento massimo detraibile per le persone fisiche, fissato in 1 milione di euro, tale limite potrebbe infatti rappresentare un incentivo implicito all’adozione di comportamenti opportunistici.

L’esclusione delle migliaia di imprese e cooperative sociali diffuse in tutto il territorio nazionale ed attive da più di 3 anni unito al limite molto elevato dell’investimento detraibile rende questo misura incentivante molto attenta alle esigenze dei grandi filantropi e per nulla sensibile alle esigenze ed ai bisogni delle realtà già attive, caratterizzate da una base sociale ampia formata da centinaia ed a volte migliaia di soci. Oltre al tema dell’efficacia questa misura apre anche una questione di equità perché il fisco premia chi ha grandi ricchezze ed intende investirle in imprese sociali e non premia il lavoratore svantaggiato e l’operatore sociale di una cooperativa già costituita che decidono di sostenere il piano di sviluppo dell’impresa sociale in cui lavorano.

Infine, un meccanismo incentivante di questo tipo anziché favorire la patrimonializzazione e la crescita dimensionale delle piccole e medie imprese sociali, potrebbe incentivare lo start-up di nuove imprese sociali, utilizzando società già esistenti costituite da meno di 36 mesi, anche nei casi in cui alcune attività avrebbero potuto essere svolte dalle imprese sociali già attive, producendo degli effetti negativi sulla competitività del sistema paese.

Guardare avanti

Come abbiamo cercato di evidenziare la riforma ha introdotto delle positive novità nella disciplina delle imprese sociali. Tali novità, tuttavia, anziché liberare il potenziale di crescita delle imprese sociali e rendere la normativa più chiara e semplice hanno aumentato la complessità normativa del settore ed hanno limitato le possibilità di sviluppo di una parte significativa delle imprese sociali attive in Italia. Per queste ragioni riteniamo auspicabile la revisione della normativa che:
1. Armonizzi la disciplina delle imprese sociali con quella delle cooperative sociali, rimuovendo le distinzioni esistenti tra imprese sociali e cooperative sociali (ad esempio nei settori di intervento, nell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate). La riforma ha aperto un percorso di convergenza tra imprese sociali e cooperative sociali che crediamo debba essere concluso, nell’interesse del Paese, arrivando alla parità normativa, fiscale e contributiva.
2. Estenda le agevolazioni alla capitalizzazione previste dal 112 a tutte le imprese sociali e introduca dei meccanismi tali da ridurre il rischio di comportamenti opportunistici che potrebbero essere posti in essere persone fisiche e giuridiche per eludere il fisco utilizzando delle “imprese sociali di comodo”. Questo aspetto potrebbe sembrare marginale ma è centrale per organizzazioni che hanno nella fiducia uno degli asset principali per lo sviluppo futuro.

Riferimenti bibliografici

Bernardoni A., Fazzi L., Picciotti A., Welfare, innovazione, sviluppo locale. La cooperazione sociale in Umbria, Il Mulino, Bologna, 2012
Bernardoni A. e Picciotti A., Imprese sociali tra mercato e comunità, FrancoAngeli, Rimini, 2017
Federsolidarietà, Sviluppo locale e cooperazione sociale, Ecra, Roma, 2015