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Sant’Ambrogio non sta solo nelle chiese e nelle vie del centro di Milano. Al santo patrono è dedicata anche una cascina che si trova in una delle tante periferie della sfavillante smart city meneghina. In uno slargo tra il passante ferroviario e viale Forlanini, con vista sull’omonimo parco, sorge, da secoli, Cascina Sant’Ambrogio, una delle tante ex fattorie che oggi punteggiano il tessuto urbano e che sono state oggetto di rigenerazione. A gestire Sant’Ambrogio è un’associazione, CasciNet, che, come recita la dichiarazione di missione, si occupa di “studiare, tutelare e valorizzare l’identità storica, artistica e ambientale di Cascina Sant’Ambrogio”.

Fin qui nulla di strano finché non ci si addentra nelle attività dell’associazione. Da lì in poi tutto si fa più ibrido ed è proprio da questa ricombinazione di valori che nascono nuove forme di organizzazione di impresa a finalità
sociale. CasciNet infatti ha trasformato gli spazi della cascina in “hub multiservizi di innovazione agricola, culturale e sociale” dove si trova uno spazio di coworking, un incubatore di imprese, laboratori di restauro, una foresta commestibile fruita e cogestita, servizi sociali per persone escluse e l’immancabile eventologia cultural-ricreativa milanese. Troppe cose – e pure diverse – per un’associazione che per di più ha siglato un accordo con il Comune di Milano impegnandosi a “garantire 190.000 euro tra investimenti obbligatori e facoltativi nella manutenzione straordinaria per il recupero della Cascina”.

Eppure CasciNet è sempre meno un’eccezione. È sì una “buona pratica”, figlia però di una mutazione profonda che riguarda ormai da decenni “il sociale” – associazioni, cooperative, fondazioni che formano il terzo settore – ma che più recentemente investe, in senso più ampio, il modo in cui si produce valore nella nostra società. Per cui a essere chiamate in causa sono tutte le istituzioni e i confini che tradizionalmente ne sanciscono l’identità: il privato dal pubblico, il nonprofit dal for profit, il mercato dal dono. Ad essere particolarmente scossa è l’identità delle organizzazioni sociali perché un conto è riconoscerla tracciando un perimetro, inevitabilmente ristretto, per collocare al suo interno tutte le forme giuridiche che sono “terze” rispetto alle istituzioni dominanti dello stato e del mercato. Ben diverso è costruire l’identità all’interno di un percorso evolutivo che restituisce la vitalità di un comparto che ormai non è più sperimentazione ma un vero e proprio comparto, ben diverso dalle origini.

Per avere conferma si può guardare anche ai dati di sistema perché restituiscono un quadro che evolve sempre più per differenza più che per assimilazione. Il nonprofit è fatto di volontari? Vero, sono quasi 6 milioni secondo gli ormai vetusti dati Istat del 2011 che dovrebbero essere aggiornati grazie al nuovo censimento permanente, ma al loro fianco opera quasi 1 milione di lavoratori retribuiti. E ancora: il sociale vive di donazioni private e contributi pubblici? Vero, ma quasi il 20% dei 63,9 miliardi di entrate avviene attraverso scambi di mercato con famiglie, cittadini, imprese, altre organizzazioni non lucrative. E infine: il nonprofit eroga i suoi servizi a soci di associazioni, organizzazioni di volontariato e cooperative sociali? Vero, ma con consistenti eccezioni, considerando che sono oltre 20 milioni gli “utenti disagiati” (persone malate, povere, disabili, immigrate, ecc.) che usufruiscono delle loro attività senza alcun vincolo associativo.

Il tema dell’identità che emerge non per via statutaria, ma per l’impatto derivante dalla gestione di concrete attività, segnala quindi un elevato grado di cambiamento che procede sia per spinte interne sia per effetto di trasformazioni della società di cui il terzo settore è parte integrante. Un cambiamento che ridisegna le organizzazioni alle fondamenta in funzione della diversa natura che assumono i bisogni – sempre più personalizzati e sempre meno intermediati dai corpi sociali tradizionali – le motivazioni delle persone che vi operano – con ruoli anch’essi sempre più ibridi tra produttore, consumatore e finanziatore – e non ultimo le tecnologie che sono sempre meno supporti e sempre più parte dell’umano, in particolare della sua dimensione relazionale.

Tutto questo richiede nuovi meccanismi di generazione del valore che tendono a ricombinare sociale ed economico e non a separarlo. Il percorso di ricerca sulle imprese ibride è nato proprio con l’intento di promuovere una linea di indagine legata all’osservazione e allo studio di forme d’imprenditoria sociale che richiedono nuove politiche e strategie per sbloccare il potenziale innovativo insito in molte progettualità a cavallo fra profit e non profit. Non esiste infatti solo la già citata mutazione del nonprofit che ha assunto una più estesa vocazione imprenditoriale con oltre 82.000 organizzazioni (quasi un quinto del totale) che ricava oltre la metà delle proprie risorse economiche da scambi di mercato. Vi è anche il crescente orientamento della Pubblica Amministrazione a premiare forme organizzative dove efficienza e dimensionamento si accompagnano a capacità di co-progettualità e co-investimento facendo leva su meccanismi, tipicamente ibridi, di partnership pubblico-privata.

E ancora va osservata la forza trasformatrice esercitata da un numero crescente di imprese for profit che costruiscono la propria competitività dentro il perimetro del valore condiviso inteso nella sua valenza comunitaria, coesiva e collaborativa. Anche quest’ultimo è un mutamento più profondo di quel che dice la punta dell’iceberg rappresentata da poche decine di “società benefit” (riconosciute nell’ultima Legge di Bilancio) e dalle 120 startup innovative a vocazione sociale. Numeri non consistenti come le 14.000 imprese sociali di origine nonprofit, ma che comunque crescono velocemente e soprattutto poggiano su popolazioni organizzative più ampie, come le oltre 8.000 “imprese coesive” censite da fondazione Symbola. Sono PMI for profit dei settori di eccellenza del made in Italy (manifatturiero, agroalimentare) che performano meglio in termini di fatturato, occupazione, internazionalizzazione perché investono non solo in innovazione tecnologica ma anche sulla coesione sociale e sulla valorizzazione di risorse “di luogo” (attrattori culturali, competenze diffuse, relazioni con la società civile) rendendole parte integrante della loro catena di produzione del valore.

L’innovazione radicale delle imprese ibride consiste quindi nel dilatare e civilizzare il mercato piuttosto che limitarsi ad ampliare il terzo settore. Ma questo processo necessita di politiche che agiscano ad almeno tre livelli:

  1. stimolare gli amministratori pubblici all’uso, anche sperimentale, di forme più aperte di impresa sociale, in particolare guardando a risorse di investimento che premiano anche l’impatto sociale per alimentare così un nuovo ciclo di sviluppo locale
  2. dar vita non a politiche di innovazione settoriali, ma a un ecosistema di risorse utile a coinvolgere persone e imprese in progetti legati a beni comuni, nuovi servizi alla persona, nuove manifattura e nuove tecnologie;
  3. favorire l’intersezione dei settori e delle competenze nella produzione di beni e servizi dove le imprese sociali fungono da agenzia per promuovere un imprenditorialità diffusa e sostenibile.

Infine la conferma del valore autenticamente sociale di molte imprese ibride viene dai giovani. Servono infatti occhi nuovi per leggere l’innovazione che accade. Una recente ricerca sui giovani negli Stati Uniti (i cosiddetti millennials) evidenzia come sia proprio la pluralità di obiettivi il fine dell’impresa a cui guardano. Forse anche in Italia dove i dati delle Camere di commercio dicono che le imprese fondate dagli under 35 sono ormai più di 630.000 e che crescono a ritmi più elevati della media con un minor tasso di chiusura. Forse anche nella periferia di Milano, dove i fondatori di CasciNet sono, guarda caso, tutti trentenni.


Il presente articolo è stato pubblicato su Avvenire l’8 febbraio 2017 e riprodotto su questo sito previo consenso degli autori