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BERTINORO – Sabato 12 ottobre si è svolta la seconda ed ultima giornata delle Giornate di Bertinoro 2013, durante la quale si è tenuta la sessione conclusiva dei lavori dedicata al tema “Ridisegnare il nuovo universalismo: pluralità di attori per il nuovo welfare”. Per la cronaca della prima giornata clicca qui.

Come ridisegnare il welfare?

Luca Jahier, Presidente del III Gruppo del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE), ha spiegato come occorra ripensare il sistema di welfare italiano, che negli ultimi anni si è trovato soggetto a diverse e numerose pressioni, partendo da tre elementi di sfida. Primo, l’urgenza di trovare un nuovo e necessario equilibrio tra le politiche di responsabilità di bilancio, politiche per la crescita e politiche di solidarietà territoriale. Negli ultimi anni si è solo infatti lavorato sulle politiche di austerity, e serve ora fare un passo in avanti sul fronte della crescita. Secondo, occorre inventare un nuovo welfare che non si incentri su nuovi trasferimenti per mantenere lo status quo ma miri a una riforma radicale del sistema. Terzo, prendere sul serio il tema della pluralità: il settore pubblico resterà ancora a lungo quello prevalente, ma è necessario immaginare forme di welfare che si appoggino al’economia sociale in un disegno che includa anche i privati for profit oltre a quelli non profit.

Jahier ha spiegato come in questo senso nel quadro europeo stia iniziando a muoversi qualcosa. Dal dicembre 2012 si è iniziato a pensare a una dimensione sociale per l’Unione Europea, e dopo un lungo percorso negli ultimi giorni il presidente Van Rompuy ha assunto un impegno in tre punti: ribilanciare le politiche sociali dell’UE, andare verso un maggiore coordinamento tra politiche occupazionali, lavorative e sociali, ragionare su strumenti sufficientemente convincenti per contrastare la disoccupazione europea. Concludendo l’introduzione Jahier ha spiegato come siamo dentro ad un quadro in movimento, in cui si può decidere di difendere le vecchie posizioni o mettersi in gioco per pilotare gli esisti di un cambiamento ormai irreversibile.

Ugo Ascoli, docente presso l’Università Politecnica delle Marche, è entrato nel cuore del tema chiedendosi: come si ridisegna l’universalismo? Nel nostro Paese ci sono solo due politiche create a partire dal principio di universalismo: istruzione e sanità. Per mantenere il concetto di cittadinanza bisogna ripartire da questi due settori, senza permettere un loro ulteriore indebolimento. Secondo Ascoli sul fronte sanitario esiste un dualismo determinato dal divario territoriale: i diritti sociali e la loro fruizione registrano grandi differenze tra Nord e Sud della Penisola. Per affrontare questa problematica occorre cambiare approccio e classi dirigenti. Serve un nuovo rapporto tra politiche pubbliche e terzo settore: “non si possono rigenerare le politiche se non si rigenerano le istituzioni politiche”. “Dovrebbe farci riflettere” – ha continuato Ascoli – “il fatto che l’Italia è l’unico Paese in UE che non ha preso misure sul long term care. L’unica cosa che abbiamo fatto in questo senso è stata la regolarizzazione delle badanti”. Per salvare la sanità è necessario ripensare con realismo, gradualità e intelligenza l’articolo 117 della Costituzione. In questo senso, tornando sulla questione Sud, Ascoli ha spiegato come serva ripensare la legislazione diversificata per il rientro delle risorse: “se non si commissaria tutto il Sud parliamo di falso universalismo”.

Cristiano Gori, docente presso l’Università Cattolica di Milano, ha incentrato il suo intervento sul tema del welfare sociale (anziani, persone con disabilità, bambini, persone in situazione di povertà) partendo dalle politiche di intervento pubblico sviluppatesi in questi anni. Siamo in un mondo dove la spesa pubblica per i servizi socio-assistenziali è calata o rimasta invariata nonostante  i bisogni siano cresciuti in maniera impressionante. In questa fase di declino cosa è possibile fare? “Pensavamo che il terzo settore sarebbe migliorato progressivamente, avrebbe potuto gradualmente fare quello che lo Stato non riusciva a fare” ha affermato Gori “ma questo non è successo”. Il dibattito recente si è concentrato su due ipotesi fondamentali per affrontare questo tema: quella che Gori indica come “secondo welfare male interpretato” (per l’interpretazione corretta vai qui) che avrebbe dovuto sopperire all’assenza di adeguati finanziamenti pubblici, e quella della Social Investment Strategy dell’UE, che vede negli investimenti sul welfare uno strumento per valorizzare le potenzialità dell’individuo. Entrambe le posizioni secondo Gori non hanno portato a risultati significativi perché non prendono in considerazione la vera domanda: “qual è la responsabilità del pubblico nei confronti delle persone più fragili?”. Gori si anche chiesto quale ruolo possa assumere il Terzo settore in quest’ottica, concludendo che esso “può fare advocacy, ma ha bisogno di sussidiarietà per poterla fare” e tuttavia “senza risorse pubbliche crescenti gli sarà impossibile rispondere al disagio”.

Chiara Saraceno è tornata sul tema toccato da Ascoli sottolineando come “più che ripensare all’universalismo forse dovremmo pensare all’universalismo”. In Italia a parte i settori ricordati in precedenza, per i quali comunque ci sarebbe da discutere sulla reale portata dell’universalismo, non c’è mai stata un’età dell’oro dell’universalismo. “Il nostro problema oggi non è tanto ripensare a un sistema universalistico ma crearlo”. Secondo Saraceno nel nostro Paese sul fronte del welfare si soffre un “categorialismo spinto” unito a un “territorialismo smodato” (o “municipalismo selvaggio”). Il nostro sistema offre protezione diverse non a seconda del bisogno in quanto tale ma in base a dove il bisogno sorge – “pensiamo ad esempio come le misure di contrasto alla disoccupazione variano da categoria a categoria lavorativa” – a cui si associano le differenze da territorio a territorio. “In Italia a seconda di dove si vive cambia l’adeguatezza di risposta ai bisogni”. Il nostro welfare è categoriale e frammentato, e per tale ragione determina comportamenti impropri: se uno non appartiene a una categoria cerca di “infilarsi” in una di esse, anche fingendo (caso finti invalidi, finti poveri…). "Pensate al Sostegno di Inclusione Attiva proposto da Giovannini: neanche nato, ha già subito pressioni di sindacati, gruppi e corporazioni perché parte dal bisogno in quanto tale e non dal bisogno di questa o quella categoria". E’ per queste ragioni che c’è bisogno di semplice universalismo e non di nuovo universalismo. La Saraceno ha concluso il suo intervento sottolineando come, in un’ottica di sussidiarietà, non si possa affrontare il problema né attraverso la pura delega né con una divisione netta tra pubblico e privato. Oggi servono esperienze di coproduzione, che facciano in modo che i cittadini vengano coinvolti nello sviluppo delle politiche sociali. “Se penso alla scuola, per esempio, non vedo come assurdo che genitori, nonni e cittadini in generale cooperino per lo sviluppo di politiche educative” e questo “non perchè lo Stato non ce la fa più, ma perché è un compito che ci appartiene in quanto cittadini”. In questo senso, ha concluso Saraceno “il welfare dovrebbe essere intesto come un bene comune: come l’acqua”.

Pier Luigi Sacco dello IULM di Milano ha incentrato il suo intervento sull’interessantissimo tema del “welfare culturale”. Al di là delle pratiche per risolvere i problemi bisogna aprire strade nuove che permettano di cambiare l’approccio del Paese per la risoluzione dei problemi sociali. Una delle più grandi barriere all’universalismo oggi in Italia sta nella cultura. Il recente rapporto OCSE dimostra che spesso l’opinione pubblica semplicemente non riesce a capire tanti degli argomenti fondamentali di cui parliamo: “quel che impedisce alla nostra società di scogliere alcuni nodi strutturali è la mancanza di un sistema di partecipazione culturale adeguato”. Alcuni indici dimostrano che un alto livello di partecipazione culturale determina un alto livello di benessere psicologico, e questo si traduce in benessere fisico. Un welfare culturale crea nuovi modelli comportamentali che potrebbero sostenere cambiamenti importanti nel sistema sociale italiano. Questo nuovo approccio culturale al welfare potrebbe secondo Sacco presentare una strada di innovazione grazie al tramite dell’impresa sociale. “Ci sono ottime ragioni per pensare che questo è un margine di sviluppo per l’impresa sociale italiana sia a livello italiano che europeo, da cui potrebbero arrivare importanti risorse nell’ottica della lotta alla povertà”.

Wladimiro Boccali, sindaco di Perugia e fino a pochi giorni fa delegato Anci per welfare, ha affermato che nella riorganizzazione delle istituzioni serve avviare una stagione che riveda normative sulle tematiche sociali, e che possa permettere di affidare alle Regioni un ruolo di programmazione che punti sulla coproduzione. Anche Boccali ha sottolineato l’importanza dell’advocacy del terzo settore: “il cittadino informato è fondamentale per creare una società consapevole dei suoi bisogni e delle possibili soluzioni, non necessariamente pubbliche, per rispondervi”. In quest’ottica il Terzo settore non è parte residuale dell’economia, e per questo deve essere pienamente integrato nell’attività produttiva.

Giuliano Poletti, Presidente di Legacoop e dell’Alleanza delle Cooperative Italiane, iniziando il suo intervento ha posto una domanda tagliente: “Abbiamo parlato delle responsabilità della politica, dell’Europa, delle istituzioni, della finanza sociale, del sindacato, della società… ma noi del terzo settore in questo discorso dove siamo?”. Secondo Poletti il Terzo settore ha in mente un modello di società chiaro e preciso che ha intenzione di realizzare, ma stando arroccato sulle sue posizioni non riuscità mai in questo intento. “Noi veniamo da storie precise, abbiamo identità precise che per tanti anni ci hanno garantito la possibilità che qualcun altro pensasse per noi. A questa appartenenza, certamente importante, noi non abbiamo ancora rinunciato, ma forse è giunto il tempo di farlo”. Il mondo cooperativo è diviso, coltiva la propria identità in modo spasmodico e così non ha la capacità di dialogare: “ha la pretesa di far ruzzolare il mondo usando come leva una scatola di stuzzicadenti”. L’Alleanza delle cooperative secondo Poletti ha aperto una strada importante: ha messo insieme realtà diverse che ora, ad esempio, interloquiscono col presidente del Consiglio attraverso un’unica voce. Tuttavia non bisogna compiere l’errore di considerarsi la “Confidustria del terzo settore”: “l’alleanza delle cooperative non può rappresentare il terzo settore in toto, e deve aprire un dialogo con le altre realtà del Terzo settore, come il Forum per poter contare davvero qualcosa”. Le cooperative devono avere il coraggio di “inquinarsi” senza la pretesa di essere cooperative perfette: “ho conosciuto tante cooperative pure, perfette. Ora si trovano al cimitero. Meglio essere imperfetti, inquinati, ma vivi”. Concludendo il proprio intervento Poletti ha sottolineato come il Terzo settore debba prendersi la responsabilità di fare questa battaglia, di essere meno autoreferenziale e sfidare di più il resto delle culture, delle opinioni, dei modi d’essere: “bisogna smettere di guardarsi in cagnesco nel nostro settore e uscire dalla rocca. Solo così avremo fatto un servizio vero alla società. Per co-operare c’è bisogno anzitutto di questo”.

Le conclusioni di Stefano Zamagni

A conclusione delle Giornate di Bertinoro è intervenuto Stefano Zamagni, che ha cercato di tirare le fila dei numerosi spunti emersi nel corso della due giorni. “Una cosa palese è che se noi non modifichiamo la causa generatrice della povertà non basteranno mai le risorse disponibili per affrontarla”. Oggi la disuguaglianza è endemica al sistema, sia sul fronte del reddito che della ricchezza. “Il welfare state è nato per rispondere, come dice Keynes, ai fallimenti del mercato, ma oggi questa impostazione non può più valere, perché con questo meccanismo la situazione continua a riproporsi endogeneamente”. In questo senso l’economia civile può intaccare il sistema di creazione e distribuzione della ricchezza al principio, perché si pone i problemi prima che la ricchezza venga distribuita

Secondo Zamagni il welfare state è nato sul principio di negoziabilità, ovvero sul contratto sociale: in questa logica solo coloro che sono in grado di contrattare possono vedere corrisposte le loro richieste. Da qui verrebbe anche quel principio di “categorialismo” menzionato da Chiara Saraceno. Bisogna cambiare le cose “passando dal principio di negoziabilità a quello di vulnerabilità”. Tutti sono vulnerabili, anche i benestanti: bisogna partire dal principio di vulnerabilità perché esso “è la cifra della condizione umana”. “Se uno non può negoziare ora è escluso; col principio di vulnerabilità questa cosa cambierebbe, perché tutti sono "sulla stessa barca, tutti sono a rischio”. Per far questo tuttavia non basterà agire sull’ingegneria istituzionale, perché “se cambio il sistema ma mantengo i comportamenti invariati commetto un errore già fatto in passato”. Riprendendo l’intervento di Sacco, Zamagni ha indicato come occorra portare un cambiamento culturale che determini cambiamenti anche sul fronte del welfare. “Dobbiamo modificare le istituzioni, le regole del gioco, ma a seconda dei mutamenti culturali avvenuti o in corso: bisogna tener conto della transizione in corso per rigenerare le istituzioni correttamente”.

Da ultimo, Zamagni ha ripreso il tema della co-produzione emerso nel corso della discussione: “il concetto di co-produzione è uguale a quello della sussidiarietà circolare: non si collabora, ma si coopera, si produce insieme. Collaborare significa lavorare insieme per cambiare l’oggetto. Cooperare è invece un’azione che cambia l’oggetto ma anche il soggetto coinvolto nel processo di cambiamento”. Bisogna quindi iniziare, come ribadito anche da Poletti, a fare le cose insieme. “E’ bene ricordarsi”, ha concluso Zamagni, “che o la crisi, come ci dice anche l’etimologia greca, è una transizione oppure continueremo a piangerci addosso”. A questo punto, visto che i colori del cielo sono gli stessi all’aurora o al tramonto “bisogna iniziare a usare delle lenti giuste per capire se siamo alla fine della giornata o all’inizio di quella nuova”. 

 

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