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Quando si parla di welfare privato si fa riferimento anche alle organizzazioni ecclesiali e al contributo della Chiesa Cattolica al contrasto alla povertà e all’accoglienza di alcuni gruppi particolarmente svantaggiati come i migranti irregolari e i senzatetto. Al riguardo è opportuno ricordare come numerose definizioni di terzo settore, ad esempio l’art. 1 comma 4 della legge 328/2000, comprendano le organizzazioni religiose.

 

Il lavoro di Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana di Torino, affronta proprio il tema del welfare parrocchiale analizzando le numerose esperienze della Chiesa Cattolica in Italia. Nelle prime pagine si tratteggiata l’attività caritativa delle parrocchie, soffermandosi su come negli ultimi anni si sia riconfigurata, aprendo centri d’ascolto, promuovendo servizi più specifici e costruendo reti (con altre realtà ecclesiali, con le organizzazioni del terzo settore e con i servizi sociali comunali) per rispondere alle esigenze dei nuovi poveri che bussano alla porta della canonica. Come sottolinea l’autore, la domanda di assistenza non proviene più solo dai poveri cronici ma anche da persone cadute in povertà per eventi particolari come la perdita del lavoro, una dipendenza (da sostanze e da gioco d’azzardo), problemi di salute fisica e mentale, un progetto migratorio (in particolare dopo la cosiddetta “emergenza Nord Africa”).

 

Il volume fa emergere alcune problematiche che le parrocchie si trovano ad affrontare  come il rapporto con gli enti locali, le difficoltà organizzative, la necessità di garantire un servizio strutturato e trasparente, la fatica a rispondere alle sempre più numerose richieste − e sorgere alcuni interrogativi: è giusto che determinati servizi sociali siano svolti da un’organizzazione religiosa come la Chiesa Cattolica? Se si, che peculiarità devono avere?

 


Il welfare delle parrocchie

 

Analizzando l’evoluzione della pastorale sociale delle parrocchie emerge come fino agli anni ’70, quando erano presenti solo forme tradizionali di povertà, le parrocchie rispondevano con gruppi di volontari senza attivare alcun servizio specifico. Successivamente per gestire meglio un problema che diventava sempre più complesso sono nati i centri d’ascolto e servizi specifici per bisogni diversi e sempre più complessi. Non sempre infatti a essere richiesti sono contributi economici o generi alimentari e quando lo sono, dietro questa richiesta c’è sempre un bisogno più profondo.

 

Spesso le persone arrivano alla parrocchia perché provano vergogna a rivolgersi al servizio sociale comunale e vedono in essa un punto di riferimento, un luogo fidato, perché non hanno avuto risposta in altri servizi (e non possono averne come è il caso dei migranti irregolari) o cercano un differente stile di accoglienza.

 

Emergono quindi alcuni tratti specifici dei servizi di welfare gestiti dalle parrocchie. Come sottolinea l’autore, la parrocchia, come unità elementare della Chiesa, interviene nei servizi alla persona per testimoniare il Vangelo andando incontro ai bisogni dell’Altro. Certamente la fede cristiana è ispirata dalla speranza della risurrezione ma è importante donare la salvezza alle persone anche in questo mondo. Da questo nasce l’esigenza di aprire le porte ai poveri. L’aiuto offerto dalla parrocchia non può quindi limitarsi al semplice sostegno economico ma deve raggiungere i bisogni più profondi della persona, di relazione, di senso, per poter portare speranza. Anche quando viene chiesto un aiuto per pagare la spesa o un servizio, la persona porta sofferenze maggiori, fatica a dare senso alla sua vita, ai fatti che possono esserle accaduti, talvolta vive una condizione di isolamento; il vero bisogno è riallacciare relazioni e trovare il senso della propria biografia.

 


Uno stile relazionale

 

Si comprende così quale deve essere lo stile del “welfare parrocchiale”, vi è però, come anticipato, anche un’altra domanda: è giusto che determinati servizi sociali siano erogati da un’organizzazione religiosa come la Chiesa Cattolica?

 

Dovis tratta con giusta e doverosa profondità il rapporto con i servizi pubblici a partire dal titolo. L’espressione “per carità e per giustizia” deriva da un documento del Concilio Vaticano II ove i padri conciliari hanno affermato che “siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia” (Apostolicam Actuositatem 1965). È chiaro quindi che il rapporto con il primo welfare non deve essere informato alla sostituzione ma all’integrazione e nel caso in cui la parrocchia debba fornire un servizio di competenza del welfare pubblico, ciò avvenga stimolando il doveroso intervento pubblico e guardando al bene comune. Purtroppo molto spesso, ci ricorda Dovis, accade diversamente e il parroco è visto non solo dagli utenti ma anche dai servizi sociali pubblici come “colui che non può dire di no”.

 

Non basta però fermarsi al rapporto con il settore pubblico per comprendere il senso di un servizio alla persona realizzato da una realtà religiosa, bensì è opportuno riflettere sul contributo dato. Gli ultimi decenni hanno visto le parrocchie italiane impegnate in un profondo percorso di discernimento sulle modalità da adottare nella pastorale sociale. Come già accennato, si è passati da piccoli gruppi di volontari, ai centri d’ascolto, all’attivazione di servizi per arrivare al lavoro di rete (tra parrocchie ma non solo), agli empori solidali e all’accompagnamento al lavoro; la specificità della parrocchia non è più il contributo economico o il pacco viveri ma lo stile relazionale e l’obiettivo è superare la logica assistenzialista.

 

Lo stile relazionale cristiano è centrato sull’incontro che trasforma la vita; in campo sociale questo significa realizzare servizi e progetti finalizzati all’autonomia. Per tale ragione vengono posti dei vincoli ai contributi economici, si incrociano i dati con altre parrocchie per evitare che permangano “professionisti della questua”, si lavora sulla valorizzazione delle competenze, sull’educazione e dove è possibile si cerca di procurare un lavoro.

 

Leggendo le pagine di Dovis sorge un’ulteriore quesito: dove si può collocare il welfare parrocchiale in un’ottica di secondo welfare?

 


Welfare parrocchiale e secondo welfare

 

Il secondo welfare si caratterizza per l’origine privata, l’innovatività degli interventi, la complementarietà con il primo welfare pubblico. Lo studio di Dovis mostra come la Chiesa Cattolica, pur essendo uno dei più antichi erogatori di servizi alla persona, si relazioni al welfare con dinamicità, capacità di sperimentazione e analisi. Da un lato, la prassi pastorale è orientata alla progettazione di servizi che mettono al centro la persona e la sua autonomia, dall’altro, la Dottrina Sociale ha rivolto i suoi sforzi a delineare un welfare societario dove Stato, imprese e terzo settore collaborano per il bene comune.

 

Il “welfare parrocchiale” nasce dall’esigenza di testimoniare la “Fede in una salvezza integrale, dalla Speranza in una giustizia piena, dalla Carità che rende tutti gli uomini veramente fratelli in Cristo” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa 2004), perciò gli attori ecclesiali operano per trasformare la società andando incontro all’Altro. Questo porta a ricercare soluzioni creative, non burocratiche e a lavorare sulla relazione come strumento di aiuto della persona, in un’ottica di integrazione collaborativa con il welfare pubblico. La specificità del welfare parrocchiale è quindi la relazionalità, elemento che accomuna tutti i servizi erogati, dal semplice ascolto, alla compagnia, all’ospitalità (ove è possibile), fino ai percorsi più strutturati, agli empori solidali, i pranzi dei poveri e la progettazione europea… Don Virginio Colmegna, fondatore della Casa della Carità A. Abriani di Milano, sottolinea l’importanza dello stare nella sofferenza della città, del vivere la quotidianità insieme ai poveri e ai sofferenti, del costruire una relazione educativa che li porti all’autonomia, in un’ottica comunitaria di condivisione (Colmegna 2012). Scrive infatti, “In questo spazio entra la sfida della gratuità e della responsabilità verso gli altri; e da qui nasce la domanda di una nuova politica, che sappia riportare il bene relazionale, lo sguardo di reciprocità, i legami di fraternità al centro dell’interesse della città”.

 

La parrocchia (o i servizi diocesani e di ordini religiosi) ha quindi la possibilità di costruire relazioni profonde che possono trasformare la vita delle persone partendo da un incontro, il servizio che può offrire la parrocchia va quindi al di là dell’aiuto economico e materiale. Per questo è importante che il rapporto con gli enti pubblici sia di collaborazione e non di sostituzione. La specificità della parrocchia è infatti un’altra e in una fase in cui i sistemi di welfare devono rispondere a bisogni multipli e personalizzati, un approccio fortemente relazionale è fondamentale, insieme all’universalismo dei servizi pubblici e alla professionalità delle altre realtà del terzo settore.

 

L’autore non parla esplicitamente di secondo welfare ma definendo le sfide del welfare parrocchiale ne adotta le caratteristiche. Le parrocchie devono puntare a coinvolgere nuovi soggetti come le imprese o le organizzazioni sportive, contaminarsi entrando in dialogo con la società (nello specifico con le scienze umane) per comprendere meglio le problematiche sociali e la gestione di un servizio alla persona, lavorare sulla formazione dei volontari e dei ministri di culto, considerare la dimensione territoriale in un’ottica di progettazione e ampliare l’offerta di servizi.

 

Alcuni spunti di riflessione

Il lavoro di Dovis sistematizza anni di esperienza sul campo e non sono molti gli approfondimenti di questa portata su un’area così rilevante del terzo settore. Certamente l’autore non fornisce dati quantitativi (con l’eccezione di alcune citazioni del IV Censimento nazionale dei servizi socio-assistenziali) tuttavia pone in evidenza le caratteristiche essenziali del welfare ecclesiale, le problematiche e le linee di sviluppo e descrive numerose sperimentazioni interessanti.

Sarebbe quindi proficuo partire dall’opera di Dovis per approfondire il ruolo delle parrocchie e degli altri enti ecclesiali nel sistema di welfare italiano in rapporto con gli attori del terzo settore e del primo welfare pubblico. Sebbene sia difficile raccogliere dati quantitativi precisi (sia per l’alto numero di parrocchie, sia per l’informalità di molte esperienze) potrebbe essere utile mappare le esperienze principali per poi giungere a definire le caratteristiche essenziali delle policy di settore. Il welfare ecclesiale in Italia ha una lunga storia, risale ai primi monasteri benedettini e basiliani, per passare ai Monti di Pietà e alle congregazioni tardomedievali, fino alle Conferenze di San Vincenzo, alla vicenda piemontese dei “Santi Sociali”, per poi giungere alle Caritas e alle nuove esperienze di attivazione e inserimento lavorativo. In questo quadro, sarebbe opportuno sviluppare un’analisi che ne descriva l’evoluzione sociopolitica e normativa.

Al riguardo è importante considerare come il contributo della Chiesa Cattolica al sistema di welfare, nel corso dei secoli, abbia svolto diverse funzioni, quali la promozione di nuove esperienze, la gestione di servizi e la riflessione filosofica sulle politiche sociali culminata nell’elaborazione della Dottrina Sociale. Se da un lato, l’analisi delle esperienze concrete di welfare ecclesiale può essere proficua, dall’altro, sarebbe opportuno approfondire come la Dottrina Sociale ha contribuito a elaborare il moderno concetto di welfare e come sta contribuendo al dibattito sulla trasformazione delle politiche sociali.

 

Riferimenti

Dovis P. (2015), Per carità e per giustizia, Edizioni Gruppo Abele, Torino.