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La Fondazione

La Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone è una Onlus che offre servizi accreditati di assistenza e riabilitazione, rivolti a persone con disabilità psicofisiche ed anziani non autosufficienti. Si tratta di un istituto con una lunga tradizione nel settore dell’assistenza: fu infatti fondato nel lontano 1896 dall’allora parroco di Cesano Boscone, Don Domenico Pogliani. L’istituto ha da allora costantemente rafforzato la sua presenza sul territorio ed i suoi servizi. Oggi, la Sacra Famiglia è un ente accreditato in tre regioni (Lombardia, Piemonte e Liguria) e opera nelle stesse attraverso sedi e filiali. Le aree di intervento della Fondazione sono quelle degli anziani, dei disabili, della riabilitazione, della psichiatria, dei Servizi Cure Domiciliari e Voucher e dei servizi assistenziali.

Intervista a Paolo Pigni, Direttore generale della Sacra Famiglia

Dottor Pigni, sappiamo che possiede una lunga esperienza di amministratore nella sanità (prima nell’Ospedale di Garbagnate e poi nell’Asl Milano 1, quindi Direttore del Dipartimento Amministrativo dell’Azienda Ospedaliera di Legnano fino al marzo 2012 quando ha assunto la carica di direttore generale della Sacra Famiglia) e negli enti locali (direttore generale del Comune di Castellanza e della Provincia di Belluno). Questa esperienza ricca e trasversale nella pubblica amministrazione come viene impiegata in una realtà particolare come quella della Fondazione Sacra Famiglia?

Ho accettato l’incarico di direttore generale della Sacra Famiglia 4 mesi fa, in passato ho lavorato nella sanità pubblica e negli enti locali. La scelta è stata determinata dalla volontà di accettare una sfida: quella di contribuire a disegnare un’offerta nel campo socio-assistenziale diversa e nuova rispetto a quella che ho sperimentato nel pubblico.
Mi interrogo da tempo, in particolare, sulla piena adeguatezza (anche in relazione alle risorse economiche messe in campo) degli interventi messi in campo dalla sanità pubblica rispetto ai bisogni espressi da soggetti che definirei fragili (anziani e disabili per svariati motivi) e dalle loro famiglie di riferimento.
In molti ospedali per acuti, anche ad alta specializzazione, la percentuale di utenza, ultrasettantacinquenne o più giovani ma con problemi di cronicità è visivamente elevata, al di là dei numeri e delle conferme che nei dati di accesso possiamo trovare. Mi colpisce il frequente disorientamento di queste persone quando accedono alle strutture ospedaliere; ed è un disorientamento non solo spaziale, ma innanzitutto rispetto a percorsi diagnostici e terapeutici che percepiscono come complessi od inefficaci rispetto ai loro bisogni.
Come dicevo, è necessaria una riflessione generale sull’appropriatezza delle risposte in sanità. Pensi solo a quante volte, dopo il primo accesso all’ospedale, inizia un percorso complesso per l’anziano, fatto di altri accessi, ad altre strutture specialistiche, ognuna con il proprio differente approccio. Il problema diventa quindi anche la frammentazione delle risposte che è in grado di generare tensioni all’interno del nucleo familiare, alla ricerca di soluzioni adatte ai bisogni del proprio congiunto: i familiari sono alla ricerca di risposte personalizzate ed efficacemente integrate. Per farle un esempio di come l’ospedale può percorrere la strada della migliore lettura dei bisogni, proprio a Legnano si è cominciato a sperimentare un servizio volontario di accompagnamento degli utenti all’interno della struttura: decine di volontari affiancano pazienti e familiari nel percorso che conduce agli accertamenti sanitari del caso, partendo dalle cose più semplici come aiutare l’anziano a capire le comunicazioni, le indicazioni, gli ambulatori in cui recarsi. Già neutralizzare l’ansia e, come dicevo, lo smarrimento dell’ingresso all’ospedale ha un impatto positivo incredibile sulle persone.
In questo senso credo che il “secondo welfare” debba molto interrogarsi su questi bisogni, in termini di presa in carico del soggetto, in un’ottica multidimensionale che non perda mai di vista l’aspetto “relazionale” dell’assistenza. Anche la “domiciliarità” rischia di essere, oggi, un grande mito: se il luogo di domicilio dell’assistito ha determinate caratteristiche ambientali e di nucleo familiare, la domiciliarità delle cure è ovviamente ben accetta. Ben diversi sono i casi (e sono moltissimi) in cui le condizioni per la domiciliarità di fatto non esistono, magari perché a curare la persona c’è un coniuge lui stesso con problemi di salute, oppure dei figli che vivono con grande ansia e difficoltà le responsabilità legate al mantenimento del congiunto nella propria abitazione, magari in un contesto di progressivo peggioramento delle condizioni generali dello stesso. E i costi degli accessi del personale infermieristico? Non sono certo cifre irrilevanti, che dovrebbero spingere a capire come rendere più efficienti ed efficaci tali prestazioni. La vera domiciliarità si fa con una lettura attenta dei bisogni e delle caratteristiche della famiglia, cercando di costruire percorsi di assistenza intelligenti, mirati, elastici e soprattutto condivisi ed apprezzati dai familiari.
La Sacra Famiglia si sta muovendo in questa direzione, cercando di sperimentare soluzioni di presa in carico. Io credo molto in questo processo ed è per questo che ho accettato la sfida di passare dal pubblico al privato non profit, e dalla sanità ad un “socio-sanitario in evoluzione”.

Essere direttore generale di un istituto come la Sacra Famiglia fa sì che il ruolo manageriale si arricchisca di elementi valoriali legati all’origine ed alla mission dell’ente? All’inizio degli anni Ottanta, all’interno dell’Istituto la gestione viene distinta dall’attività religiosa secondo la linea espressa dall’allora Arcivescovo di Milano, il Cardinale Montini: "tentare di animare cristianamente un pubblico servizio". Secondo lei questa idea è ancora presente nella Fondazione Sacra Famiglia a distanza di trent’anni? Se sì, come viene declinata in concreto?

Nel mio approdare alla Sacra Famiglia c’è una forte scelta valoriale. Dopo la Laurea in Economia e Commercio alla Bocconi, nel 1985, ho lavorato per un anno in banca. Decisi subito di entrate a lavorare in una Usl, per una scelta già allora valoriale di impegno al servizio della collettività. Il passaggio al privato no profit che ho compiuto qualche mese fa è su questa linea.
Alla Sacra Famiglia un manager puro, senza orientamento religioso, potrebbe forse fare bene sul piano tecnico, ma il ruolo di direttore generale in questo contesto implica una piena e convinta adesione alla mission dell’Istituto, un rispetto sincero per il valore rappresentato da quanto fatto e testimoniato in quasi 120 anni di storia.
La Sacra Famiglia è espressione di un cattolicesimo sociale aperto: chi entra qui non viene certo selezionato sulla base del suo credo. Non tutti i nostri dipendenti sono credenti, ciò che conta è appunto l’adesione alla mission, cioè la cura delle persone più fragili, a qualunque costo. Dove non arrivano le risorse c’è un forte impegno personale che sa sopperire ai criteri di economicità.
"Tentare di animare cristianamente un pubblico servizio" per me vuole dire due cose: che non ci si ferma neanche di fronte alla crisi, semmai diventa il momento di rilanciare, di dare di più in senso cristiano, e che si lavora in un’ottica di presenza e testimonianza, che significa fare le cose nel modo migliore perché il Signore è al tuo fianco e tu hai il coraggio di dirlo, in modo trasparente. Questa visione non è alterata dal fatto che gli operatori siano o meno essi stessi credenti, e che gli utenti siano, oggi, di ogni razza e religione. Il cristianesimo vero si misura su questa sfida, la capacità di aiutare e di amare in modo incondizionato, con una forte connotazione pratica dell’agire.
Qui nell’istituto le suore di S. Maria Bambina, che gestiscono anche il vicino asilo, aiutano in reparto, mentre quattro frati cappuccini fanno opera di pastorale, parlando di Gesù agli ospiti. La lettura del messaggio cristiano qui avviene a misura degli ultimi, con moltissime iniziative, ad esempio di teatro, che sono importantissime per il sostegno psico-emotivo degli ospiti. E’ un approccio non banale di animazione cristiana della società attuale, che purtroppo appare sempre più ansiosa e ripiegata su se stessa.
La nostra azione mette al centro la relazione tra esseri umani, a maggior ragione nella fragilità. E questa attenzione alle persone mi sembra straordinariamente presente nel nostro personale. Nella fase di avvio del mio lavoro ho visitato tutte le sedi e le filiali della Fondazione. Ebbene, parlando con gli operatori non ho potuto non riflettere tra me e me sul confronto con la mia esperienza rispetto al personale dei servizi sanitari nel settore pubblico. Gli operatori della Fondazione mi sono sembrati particolarmente attenti nel segnalare i possibili miglioramenti dei servizi e delle strutture, meno a forme varie di rivendicazione (stipendio, turni…), e consideri che i sindacati in Sacra Famiglia sono molto attivi, quindi non si tratta di un problema di scarsa sindacalizzazione. Direi piuttosto che si sentono parte di un progetto in cui credono, anche se le fatiche di questo tipo di assistenza generano ciclicamente affaticamento fisico e psichico. Ma il clima rimane davvero positivo e soprattutto propositivo, nell’ottica della nostra mission. Questo, rispetto ad alcune mie precedenti esperienze, mi ha colpito molto.

Alla luce della sua lunga esperienza nel settore socio-sanitario in Lombardia, può offrirci un quadro della situazione presente per quanto riguarda il ruolo assunto dal pubblico, dal privato for profit e da quello non profit, rispetto all’offerta di servizi per la non autosufficienza e la disabilità?

Nel socio-sanitario e nel socio-assistenziale, in Lombardia, l’offerta è sostanzialmente privata e in particolare non profit. Al di là delle Asp, che sono pubbliche, il profit opera prevalentemente sugli anziani. Ma l’ossatura del lavoro sul socio-assistenziale è costituita da Onlus e questo merita particolare attenzione ed anche un’attenta riflessione. Gli istituti di ispirazione religiosa (i principali sono Sacra Famiglia, Don Gnocchi e La Nostra Famiglia) rappresentano una parte davvero consistente dell’offerta socio-sanitaria sul territorio, quindi sono un interlocutore essenziale della Regione rispetto alle sue funzioni programmatorie. Dico questo anche alla luce delle nuove progettualità che dovrebbero scaturire dal Patto per il Welfare. Siamo realtà fondamentali. Poi c’è il mondo delle piccole e medie cooperative sociali che ha qualche problema in più per quanto riguarda le prospettive di stabilizzazione in questa fase di crisi economica. E poi c’è l’universo delle Rsa che io considero un modello statico, rigido e per certi versi da superare, su cui il profit ha costruito negli anni il suo mercato socio-assistenziale, puntando sempre più sugli anziani non autosufficienti. Però attenzione, i posti qui sono molti, e rischiano presto di essere in eccedenza rispetto alle richieste. Perché? In parte per motivi legati ai costi delle rette, sempre meno sostenibili dalle famiglie (ma anche una badante, se in regola, costa).
A mio parere il problema qui è un altro: la qualità della vita offerta da queste strutture per come è percepita dagli ospiti e dai loro familiari. Parliamo di un vero e proprio sradicamento dell’anziano. E poi c’è il problema della natura indifferenziata dell’offerta: anziani con problematiche molto differenti convivono, con ricadute molto pesanti su quelli più autosufficienti che rischiano di peggiorare rapidamente sul piano psico-emotivo. Ebbene, questo modello mi sembra destinato ad entrare, almeno parzialmente, in crisi almeno quanto quello della gestione degli ultrasettantacinquenni negli ospedale per acuti. Si tratta di casi complementari che devono essere adeguatamente letti e interpretati se si vogliono mettere in campo nuove risposte ai bisogni sociali. Le realtà del non profit possono essere le più pronte a fare il salto di qualità, a prendersi carico delle persone in un’ottica multidimensionale e con strumenti elastici.

A partire dalla crisi di questi ultimi anni la Fondazione ha cambiato strategia di intervento per far fronte da un lato ai nuovi bisogni e dall’altro alla scarsità di risorse? Se sì, in che modo? Quale scenario futuro intravede, come direttore generale di una grande Onlus, per l’assistenza alle persone con disabilità complesse e anziani non autosufficienti? Quali in particolare le sfide all’ombra della spending review?

La Sacra Famiglia ha subito un primo riassetto finanziario nel 2005 a causa dei cambiamenti nelle modalità di pagamento di Regione Lombardia. Da lì è partito l’impegno a correggere il rapporto tra costi ed entrate con l’obiettivo di perseguire più stabili condizioni di pareggio di bilancio. Le difficoltà di questo momento io le percepisco, eccome, ma devo segnalare anche una ferma volontà di tutti quelli che operano nella struttura di continuare a portare avanti le nostre progettualità.
La crisi è pesantissima e, a mio parere, senza possibilità di ritorno agli equilibri precedenti. Il rischio più grande che vedo è che le realtà piccole del non profit ne siano danneggiate in modo irrimediabile. Per la Sacra Famiglia il discorso è in parte diverso: noi possiamo contare su un significativo patrimonio immobiliare, anche a reddito. Questo patrimonio, in buona parte derivante da donazioni e contributi dei decenni passati, ci può aiutare molto in questa fase di transizione; anche se il nostro obiettivo è quello di conservare il patrimonio e metterlo a frutto per la collettività attraverso il rinnovamento nostri tanti servizi e delle strutture in cui operiamo.
Ci stiamo impegnando a fondo, anche con i più moderni strumenti di pianificazione strategica, per ridefinire quadri futuri adeguati al bisogno, dunque innovativi, e coerenti con le risorse disponibili.
Ma, come dicevo prima, le piccole cooperative che non possono contare su risorse immobiliari consistenti rischiano di essere schiacciate dalla situazione economica attuale e dalla spending review. Questo è un capitale sociale che rischia di disperdersi. Pensi, del resto, ai problemi di ricollocamento dei disabili assistiti da una cooperativa che chiude i battenti: queste sono persone che si vedono cambiare tutte le coordinate di vita essendo già in condizioni di fragilità. Si tratta di questioni che non possono essere affrontate con piglio puramente e semplicemente manageriale, nella sola prospettiva di tagliare i costi.
Io ritengo che sarebbe bene che si riuscisse a garantire, almeno per qualche anno, e qualsiasi cosa accada, i livelli del socio-assistenziale e del sanitario (almeno per le fragilità) oggi esistenti, approcciando nello stesso tempo di buona lena un progetto di ristrutturazione del welfare. Questo significa andare ad analizzare protocolli, unità di offerta, requisiti di accreditamento per verificare ciò che è davvero necessario e cominciare seriamente a mettere al centro la presa in carico delle persone e delle loro famiglie in un’ottica integrata. Per fare questo i soggetti coinvolti devono sedersi ad un tavolo e costruire un welfare nuovo. Per un’istituzione come la Sacra Famiglia, che non si muove nel sociale per profitto ma secondo una mission precisa, spendersi in questo nuovo capitolo del welfare è fondamentale.

Riferimenti

Il sito dell’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone

La storia dell’Istituto Sacra Famiglia

Nuovo patto per il welfare lombardo

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