6 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Una delle più diffuse “opere segno” portate avanti dalle Caritas diocesane è quella dell’accoglienza: sotto il nome di foresteria, ostello, casa di accoglienza e sinonimi vari, le Caritas, da oltre 40 anni, offrono una risposta immediata al bisogno abitativo dei senza dimora. Soprattutto nei grandi centri urbani, il sistema dell’accoglienza di decine di individui in dormitori ha rappresentato un intervento necessario e certamente rispondente all’esigenza emergenziale e primaria di assicurare un tetto ed un letto per la notte.  L’homelessness, infatti, rappresenta uno dei più degradanti esempi di povertà ed esclusione sociale, poiché, in molti casi, il disagio materiale è accompagnato dalla disgregazione psicologica ed affettiva e dalla perdita di contatto con la realtà circostante.

L’accoglienza di grandi numeri, alla quale, negli ultimi anni, si è ricorso particolarmente in occasione dell’intensificarsi dei flussi migratori verso l’Italia o dell’emergenza freddo, se da un lato ha rappresentato una risposta al bisogno immediato, dall’altro non ha consentito, se non raramente, di avviare nei confronti dell’accolto quel percorso di accompagnamento e di promozione umana integrale che rappresenta l’obiettivo ultimo dello stile di intervento Caritas: la fuoriuscita dallo stato di bisogno.

Così, la delegazione siciliana di Caritas, forte di questa esperienza, maturata anche la necessità di un’azione innovativa, e conscia dell’esigenza di snellire e ripensare i modelli di welfare in senso meno assistenzialista ed economicamente più sostenibile, ha elaborato il progetto “Housing first Sicilia”, iniziato lo scorso mese di giugno con la supervisione scientifica di fio.PSD – Federazione Italiana Organismi Persone Senza Dimora.


Chi è il senza dimora?

Una persona è considerata senza dimora quando versa in uno stato di povertà materiale e immateriale, che è connotato dal forte disagio abitativo, cioè dall’impossibilità e/o incapacità di provvedere autonomamente al reperimento e al mantenimento di un’abitazione in senso proprio. La classificazione ETHOS – European Typology of Homelessness and Housing Exclusion – lanciata dalla FEANTSA nel 2005, è riconosciuta come la definizione comune dei senza dimora. L’ETHOS ricorre agli ambiti fisici, sociali e giuridici di “casa” per creare una tipologia ampia che classifica i senza dimora in base a quattro principali situazioni abitative:

  • senza tetto: persone che vivono in strada, in sistemazioni di fortuna o che ricorrono a dormitori o strutture di accoglienza notturna;
  • senza casa: persone ospiti in strutture per senza dimora, in dormitori e centri di accoglienza per donne, in strutture per immigrati, richiedenti asilo, rifugiati, persone in attesa di essere dimesse da istituzioni (carceri, comunità terapeutiche, ospedali, istituti di cura, istituti, case famiglia e comunità per minori), persone che ricevono interventi di sostegno di lunga durata in quanto senza dimora;
  • sistemazioni insicure: persone che vivono a rischio di perdita dell’alloggio (es: sfratto esecutivo), a rischio di violenza domestica o in sistemazioni non garantite (coabitazione temporanea con famiglia o amici, mancanza di un contratto d’affitto, occupazione illegale di alloggio o terreno);
  • sistemazioni inadeguate: persone che vivono in strutture temporanee non rispondenti agli standard abitativi comuni (roulotte, capanna, baracca ecc…), che vivono in alloggi impropri (inadatti per uso abitativo) o in situazioni di affollamento.


I dati

Secondo la ricerca sui senza dimora condotta da fio.PSD in collaborazione con Istat, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Caritas Italiana, le persone senza dimora sono per lo più uomini (86,9%), la maggioranza ha meno di 45 anni (57,9%), nei due terzi dei casi hanno al massimo la licenza media inferiore e il 72,9% dichiara di vivere solo. La maggioranza è costituita da stranieri (59,4%) e le cittadinanze più diffuse sono la rumena (l’11,5% del totale delle persone senza dimora), la marocchina (9,1%) e la tunisina (5,7%).

In media, le persone senza dimora riferiscono di esserlo da circa 2,5 anni. Quasi i due terzi (il 63,9%), prima di diventare senza dimora, vivevano nella propria casa, mentre gli altri si suddividono pressoché equamente tra chi è passato per l’ospitalità di amici e/o parenti (15,8%) e chi ha vissuto in istituti, strutture di detenzione o case di cura (13,2%). Il 7,5% dichiara di non aver mai avuto una casa.

L’incidenza sul totale dei residenti in Sicilia è dello 0,21% Il 28,3% delle persone senza dimora dichiara di lavorare: si tratta in gran parte di occupazioni a termine, poco sicure o saltuarie (24,5%); i lavori sono a bassa qualifica nel settore dei servizi (l’8,6% delle persone senza dimora lavora come facchino, trasportatore, addetto al carico/scarico merci o alla raccolta dei rifiuti, giardiniere, lavavetri, lavapiatti, ecc.), nell’edilizia (il 4% lavora come manovale, muratore, operaio edile, ecc.), nei diversi settori produttivi (il 3,4% come bracciante, falegname, fabbro, fornaio, ecc.) e in quello delle pulizie (il 3,8%).


Cosa prevede il progetto “Housing first Sicilia”?

Il progetto, che consente di andare oltre i sistemi tradizionali basati su forme di alloggio temporaneo, si rivolge a persone senza dimora o con difficoltà a mantenere l’abitazione e le inserisce direttamente all’interno di alloggi, fornendo supporto sociale multidisciplinare “a partire dalla casa” ed accompagnandole verso la fuoriuscita dalla propria situazione di marginalità sociale.
Il modello cui s’ispira il progetto di housing first siciliano è americano, sviluppato a partire dagli anni ‘90 da Sam Tsemberis di Pathway to Housing, ma filtrato attraverso l’esperienza di Casa Primeiro, la più avanzata in Europa, che a Lisbona segue attualmente 50 senza dimora.

“L’idea di fondo – spiega Josè Ornelas padre dell’housing first in Europa e guida di Casa Primeiro – è di eliminare tutto quel percorso a scalini (dal marciapiede al dormitorio, alle comunità, ai gruppi appartamento) che dovrebbe portare al recupero dei senza dimora. L’housing first, invece, arriva subito al traguardo: dalla strada alla casa. Nell’arco di sei mesi, un anno al massimo, l’80% dei nostri utenti taglia ogni legame con la strada e crolla il numero dei ricoveri in ospedale”.

Il progetto siciliano, reinterpretando la metodologia e calandola sul contesto ed i bisogni dell’Isola, rappresenta un’esperienza unica, spiega don Vincenzo Cosentino direttore dell’Ufficio regionale per la Carità della Conferenza Episcopale Siciliana e delegato regionale di Caritas, “in grado di interessare tutte le Chiese di Sicilia attraverso il coinvolgimento di strutture di proprietà di diocesi e parrocchie, oltre che di privati. Occorre superare la logica dei centri di accoglienza, seppur necessari ma sempre intesi come misure emergenziali, – aggiunge – per realizzare un percorso di ospitalità completo ed attento alla persona, rispondendo all’invito di Papa Francesco per un nuovo utilizzo dei luoghi ecclesiali, che diventa un valido e verificato strumento di fuoriuscita dal bisogno e di promozione della persona e di interi nuclei familiari”.

Quello proposto coralmente dalle Caritas di Sicilia è, quindi, un percorso verso la capacità di riprendere in mano la propria vita, con le caratteristiche del cammino partecipativo e pedagogico. Infatti, viene stipulato con le persone accolte un contratto e si sottoscrive un regolamento disciplinare con il quale si chiede anche un piccolo contributo, una partecipazione minima in denaro o anche in attività di volontariato, in base ai differenti casi, per sviluppare percorsi rigenerativi. Il target al quale il progetto si indirizza riguarda singoli individui, italiani e stranieri, in situazione di emarginazione sociale ed abitativa e nuclei familiari con o senza figli in situazioni di emergenza (sfratto, sovraffollamento, alloggi insicuri ed inadeguati, casi di violenza domestica, etc). Questa metodologia di accoglienza, più vicina alla reale modalità di vita che le persone auspicano per loro stesse, consente di stimolare in modo più naturale l’auto affermazione, l’empowerment e il desiderio di riappropriarsi delle proprie autonomie, facilitando anche quelle normali forme di conoscenza e relazione che possono offrire maggiori possibilità di inserimento socio-lavorativo nel tessuto locale.

Dall’altro lato questa metodologia di “accoglienza diffusa” offre l’opportunità al territorio di accogliere in maniera sostenibile gli homeless senza veder nascere “grossi centri o dormitori” dove le dinamiche d’integrazione vengono, per forza, sfalsate. I dati riportati dalle esperienze europee e statunitensi, inoltre, ci dimostrano come l’approccio alla problematica dei senza dimora secondo la metodologia dell’housing first sia non solo più efficace ma anche più conveniente economicamente per la pubblica amministrazione: l’80% delle persone non è più senza dimora, meno del 50% degli accolti utilizza dei servizi di emergenza, consentendo un notevole risparmio per i servii pubblici sanitari e di primo welfare.

Per quanto riguarda i numeri, “Housing First Sicilia” coinvolge 15 diocesi siciliane e rende disponibili 35 appartamenti e strutture a persone senza dimora o con difficoltà a mantenere l’abitazione ed avrà una durata complessiva, in questa prima fase sperimentale, di 18 mesi. Il progetto beneficia, attraverso Caritas Italiana, di un contributo della Conferenza Episcopale Italiana di 500 mila euro e prevede forme di cofinanziamento da parte delle singole diocesi che hanno impegnato in totale 130 mila euro.


Architettura e Social design

Oltre all’aspetto metodologico dell’accompagnamento, l’innovatività del progetto, riguarda anche più prettamente l’aspetto progettuale degli spazi dedicati all’housing fist. Infatti, il termine “Social design” qualifica i modi in cui le competenze che tradizionalmente si rifanno al design thinking affrontano temi di emergenza sociale e promuovono soluzioni adeguate, fattive e coerenti. Parlare di social design significa parlare d’inclusione, empowerment, autonomia, autodeterminazione, identità e rappresentatività, che il design persegue e cui finalizza i progetti che concretizza: oggetti d’uso, strumenti di lavoro, servizi, sistemi di comunicazione e produzione.

L’esperienza di contaminazione tra architettura e scienze sociali ha visto l’avvio ad Agrigento, dove si è svolto un percorso di co-produzione, incentrato sul tema dell’accoglienza per le persone senza dimora e lo sviluppo dei territori. Contemporaneamente l’edificio destinato all’accoglienza dei senza dimora si è aperto al territorio, accogliendo idee e offrendo opportunità di relazione, di inclusione e promozione sociale. Le azioni del workshop hanno facilitato questo processo, generando percorsi partecipativi di co-costruzione di prodotti e servizi, per attivare relazioni vantaggiose tra luoghi dell’accoglienza per la grave marginalità e i territori in cui essi sono inseriti.

L’equipe multidisciplinare composte da antropologi, educatori, persone senza dimora e giovani progettisti utilizza il modello di conduzione dell’azione progettuale intensiva ispirato all’empowered peer education, dove i saperi, eterogenei in base alle biografie, si incontrano e si confrontano in un rapporto di interscambio, nel contesto di un esperienza progettuale condivisa, da cui emergono esiti molteplici e significati nuovi. Questo aspetto progettuale è curato scientificamente, nella sua realizzazione in Sicilia, grazie alla collaborazione con Cristian Campagnaro del Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino e di Valentina Porcellana del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, Università di Torino.

 

Potrebbe interessarti anche:

Se anche il Papa sostiene il secondo welfare

Emergenza alimentare: le risposte della Caritas

Milano: l’esperienza delle Dame della Carità di San Vincenzo de’ Paoli

Rapporto Caritas 2014: tra povertà inedite e nuovi poveri

Il capitolo del Primo Rapporto sul secondo welfare dedicato al social housing

 

Torna all’inizio