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Sono organizzazioni strane le fondazioni. Soprattutto se si guarda alla loro evoluzione recente che le vede operare in contesti sempre più diversi – non solo in alcuni campi elettivi come cultura, sanità, educazione – e attraverso modalità di azione che evolvono dalla dimensione filantropica e redistributiva verso business model di impresa sociale (le cosiddette “fondazioni operative”). Per non parlare poi della governance che, da assetti tendenzialmente accentrati intorno alla gestione di un asset, si sposta verso modelli di “partecipazione” che sempre più rappresentano un campo di sperimentazione istituzionale.

Ma le peculiarità non risiedono solo nell’attualità e nella possibile evoluzione futura di questi attori non profit. Per comprenderne approcci e strategie occorre anche esplicitare gli elementi più intimi che si rinvengono nella cultura organizzativa e financo nel profilo antropologico di chi vi opera. Si potrebbe in questo senso sostenere che le fondazioni hanno una chiara natura “pulsionale”: una spinta profonda che si genera da uno stato di ansia e insieme di eccitazione e che si può placare solo attraverso la definizione di un obiettivo, di una meta, per la quale si mobilitano risorse.

Da qui l’orientamento, soprattutto nella versione primigenia della fondazione, quella filantropica, ad agire con uno scopo riparativo attribuendosi a tal fine obiettivi di natura sistemica (eliminare malattie, tutelare l’ambiente, estirpare la povertà, ecc.) probabilmente come nessun altro attore sociale ed economico. In casi ancora più specifici la pulsione è incarnata dalla figura stessa del filantropo o da persone e organizzazioni prossime ad esso, contribuendo ad innalzare ulteriormente il livello di tensione verso il raggiungimento della meta. Questa dimensione è un formidabile propellente per l’azione, tanto che le fondazioni sono spesso utilizzate per gestire progetti di lungo periodo rispetto ai quali i principali portatori di interesse non siedono nel board. Ad esempio le nuove generazioni che potranno godere, in un futuro prossimo, di un determinato bene ambientale o infrastruttura sociale.

La gestione di questi soggetti richiede quindi, come in un setting terapeutico, di “tenere a bada” queste pulsioni, principalmente da due rischi che traspaiono anche nel recente contributo del Segretario Generale di Assifero, Carola Carazzone

Il primo è il senso di colpa rispetto ai beneficiari delle proprie attività perché “l’agonia per progetti del terzo settore” ha un responsabile anche – ma non solo – nell’impostazione dei programmi di grantmaking guardando alla taglia dei finanziamenti, alle modalità di erogazione, ai sistemi di valutazione. La deriva da “progettificio” è quindi il risultato di un concorso di colpa (peraltro a tre perché va aggiunta la Pubblica Amministrazione, come spiegato anche da Federico Mento in un suo recente intervento) che riguarda non solo chi riceve il denaro ma anche chi lo assegna, ad iniziare dai costi di staff.

La seconda pulsione da gestire è quella del dominio guardando in questo caso alla volontà di estenderlo occupandosi anche di servizi di supporto e di accompagnamento sempre a favore dei beneficiari. Una evoluzione, questa del supporto attivo, che si giustifica in buona parte con la necessità di far crescere capacità operativa e soprattutto impatto degli attori che utilizzano di risorse filantropiche (ed anche finanziarie) sempre più giustamente, anche se lentamente, orientate alla trasformazione sociale. Ma se il capacity building è unilaterale il rischio di rendere i grantees ancor più dipendenti dai finanziatori è dietro l’angolo nella forma della colonizzazione organizzativa.

Come evitare tutto questo? Una possibile risposta sta nel nuovo codice del terzo settore, precisamente all’articolo 55. È una disposizione pensata per la gestione dei rapporti tra soggetti del terzo settore e amministrazione pubblica, ma potrebbe essere tranquillamente traslata anche nell’ambito della filantropia, in particolare quella che vede nelle fondazioni uno strumento per agire in senso “venture”. Si tratta infatti di norme che codificano principi di coprogettazione e cogestione di politiche di interesse collettivo assegnando loro una “missione” non predefinita assecondando una pulsione, ma piuttosto derivante dalla generatività di una dialettica che sa tenere in equilibrio interventi top down e bottom up e mettendo a valore elementi di apprendimento reciproco. Perché, in fondo, un capacity building autentico riguarda tutti gli attori coinvolti.