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Sulle pagine dell’ultimo numero della Stanford Social Innovation Review è apparsa una articolata riflessione di Rangan e Chase, entrambi impegnati professionalmente nella rinomata Harvard Business School. Nella sorta di abstract che anticipa l’articolo sui pay-for-success negli Stati Uniti (ma non solo), si può leggere l’idea generale che ha guidato i due esperti: «i contratti pay-for-success, conosciuti anche come social impact bonds, sono stati promossi come un modo intelligente per colmare il gap che affligge i programmi sociali, attraendo una parte dei miliardi di dollari che costituiscono capitali privati in cerca di profitto. Nonostante tale scenario non sia realistico, il modello pay-for-success avrà comunque un impatto positivo, ma non nel modo in cui molti dei suoi supporter si immaginano».

Ora, considerato che sul tema dell’impact investing e in particolare a proposito di social impact bond c’è chi si dimostra entusiasta e chi invece fortemente scettico, la possibilità di letture “alternative” del fenomeno emergente suscita senz’altro l’interesse di chi scrive. Per questo si è ritenuto utile procedere ad una attenta rassegna dei contenuti e degli argomenti riportati nel breve saggio della Stanford Social Innovation Review, unitamente alle due risposte che lo accompagnano, una a firma di Overholser (cofondatore e CEO di Third Sector Capital Partners) e l’altra offerta da Palandjian e Shumway (rispettivamente CEO e vice-presidente di Social Finance US).


I contenuti del dibattito 

Una lettura generale sull’avvento dei social impact bond

L’articolo di Rangan e Chase apre con una osservazione generale che vorrebbe in poche parole spiegare le ragioni per le quali si è andato sempre più affermando il modello di finanziamento costruito intorno ai meccanismi dei pay-for-success (o social impact bond). In effetti – si legge – considerato come i finanziamenti governativi per i servizi di assistenza sociale sono andati diminuendo in modo costante, si capisce la notevole attenzione che è stata posta su una nuova forma di finanziamento, rappresentata dai social impact bond. Questi sono infatti contratti che sembrano promettere di attrarre capitali privati di investimento per dare risposta alle più cruciali esigenze sociali presenti tra i cittadini. Anziché un governo impegnato a pagare organizzazioni non profit, lo schema dei social impact bond prevede che siano gli investitori privati a fornire il finanziamento necessario, ovviamente con la promessa del rimborso quando non anche di un ritorno, a seconda del raggiungimento di determinati risultati.

:Gli autori, pur riconoscendo l’elevato interesse che i social impact bond stanno riscontrando, in particolar modo negli Stati Uniti, sostengono che una attenta analisi dei numerosi casi da loro presi in considerazione, li porta a ritenere che il nuovo modello è attualmente adatto per una ristretta cerchia di organizzazioni non profit. L’elenco di questi soggetti si forma sulla base di due requisiti: da un lato, devono essere in grado di generare e misurare effettivamente l’impatto sociale che scaturisce dalle loro iniziative; dall’altro, devono possedere gli strumenti utili a tradurre tale impatto in benefici finanziari o risparmi che siano tracciabili rispetto ai bilanci di una o più amministrazioni pubbliche.

Ovviamente nell’articolo Rangan e Chase spiegano anche che la loro intenzione non è quella di minimizzare i potenziali benefici che meccanismi come i social impact bond sarebbero in grado di offrire. Anzi, esplicitamente dichiarano che essi porteranno senz’ombra di dubbio una serie di importanti contributi al mondo – per così dire – sociale. Dal tentativo in corso di attrarre investimenti per lo sviluppo di servizi basati su modelli impact-driven, le agenzie governative svilupperanno anche le conoscenze necessarie alla quantificazione dei costi legati ai vari problemi sociali, così come le organizzazioni non profit acquisiranno le competenze utili per stabilire, anche sul piano finanziario, i benefici generati attraverso i loro programmi, dando luogo così a partnership più efficaci ed effettive al servizio dei bisogni della società.

Ciononostante, sulla base dei numerosi casi analizzati nella ricerca dei due studiosi, la capacità che i social impact bond avrebbero di attrarre capitali puramente profit-seeking in programmi a finalità sociale sarebbe relativamente bassa. Piuttosto, considerato il ruolo di primo piano assunto dalla filantropia nei casi di social impact bond lanciati di recente, il potenziale contributo di tali meccanismi sarà quello di sbloccare ingenti risorse filantropiche facendosi carico del rischio per i capitali profit-seeking o, in alcuni casi, dell’intero finanziamento di specifici progetti. In ultima analisi, capitali impact-seeking piuttosto che profit-seeking stimoleranno la crescita di modelli di social impact bond.

Il ruolo della filantropia e il futuro dei social impact bond

Anche se i contratti pay-for-success sono tipicamente caratterizzati come sistema per l’impiego di finanziamenti di capitali privati al fine di risolvere problemi sociali, uno sguardo più attento ai numerosi progetti in corso negli Stati Uniti rivela come il ruolo critico e abilitante sia svolto principalmente da capitali filantropici. Per comprendere meglio il ruolo di tali capitali nella struttura di finanziamento dei social impact bond, gli autori distinguono i finanziatori in tre categorie: senior, junior e filantropici.

Richiamando i primi sette casi di social impact bond negli Stati Uniti, Rangan e Chase sostengono – a ragione – che, delle tre tipologie di investitori, sono quelli filantropici a farsi prevalentemente carico dei rischi insiti nei progetti. La ragione risiederebbe nel fatto che questi ultimi agirebbero sulla base di motivazioni sensibilmente differenti rispetto agli investitori appartenenti alle altre due categorie. Nella migliore delle ipotesi infatti, i senior e junior lenders riceverebbero il rimborso del capitale, con un tasso di ritorno inferiore a quello medio disponibile sul mercato. Nel caso invece di investitori filantropici, il rimborso del capitale, deprezzato dalla perdita (rinuncia) degli interessi, darebbe luogo ad un nuovo capitale, anch’esso di tipo filantropico e disponibile per un ulteriore investimento ad impatto sociale. Come appare evidente, si tratta di un caso molto diverso rispetto a quello di un capitale alla ricerca di profitto, che ha come primo obiettivo un ritorno. Senza la riduzione dei rischi offerta da investitori ad impatto (che nell’articolo sembra sinonimo di “capitale filantropico”), gli autori sostengono che il mercato dei capitali privati non si precipiterà per finanziare programmi realizzati secondo le logiche dei social impact bond.

Il mercato di capitali avrà senz’altro un qualche ruolo, tuttavia secondo l’interpretazione avanzata da Rangan e Chase, gli investitori alla ricerca di profitto prenderanno parte a operazioni sviluppate attraverso meccanismi come i social impact bond solo quando tali architetture contrattuali saranno in grado di ridurre i rischi. Questo d’altra parte è il dato che emergerebbe dai più recenti contratti pay-for-success. Considerando dunque il ruolo fondamentale che la filantropia e altri investitori mission-oriented stanno giocando nella maggior parte dei social impact bond implementati su scala globale, il futuro dei programmi pay-for-success – ancora secondo gli autori dell’articolo apparso sulla Stanford Social Innovation Review – risiede nella possibilità di allineare gli interessi tra investitori impact-seeking e return-seeking. Al di là delle prime previsioni circa la possibilità dei social impact bond di arruolare capitali privati per la soluzione di problemi sociali, gli autori sembrano piuttosto riconoscerne la capacità di stimolare nel settore un numero sempre maggiore di investimenti filantropici, potenzialmente in grado di marginalizzare quelli profit-seeking.

Il fatto che nei più recenti contratti pay-for-success si debba rilevare l’emergere delle fondazioni filantropiche nel ruolo di giocatori chiave è ritenuto tutto sommato un dato incoraggiante e gli autori sottolineano come sia da tale coinvolgimento – non in quello del mercato dei capitali privati – che occorre attendersi la maggior parte dei fondi necessari a finanziare modelli pay-for-success. Questo sviluppo, assieme al miglioramento di efficacia ed efficienza delle amministrazioni pubbliche e delle organizzazioni non profit impegnate nella erogazione di servizi di welfare, costituisce dunque il vero e misurabile contributo positivo offerto dai modelli pay-for-success.

Sul punto anche Overholser concorda circa il fatto che non è responsabilità dei capitali profit-seeking promuovere e sostenere per un tempo indefinito il fenomeno dei social impact bond. L’opinione del CEO di Third Sector Capital Partners si distingue da quelle dei due studiosi di Harvard per il fatto che – ad avviso appunto di Overholser – nemmeno i capitali filantropici hanno integralmente in mano gli sviluppi della finanza ad impatto. Piuttosto sarebbero i governi ad essere chiamati a svolgere il ruolo chiave: una volta consolidato l’utilizzo di meccanismi pay-for-success, grazie anche all’iniziale supporto di capitali privati (filantropici o meno), l’onere di “portare a regime” lo strumento dei social impact bond graverà in capo ai governi. Anche Palandjian e Shumway rifiutano la previsione di Rangan e Chase, mettendo innanzitutto in discussione i tre assunti di partenza. Secondo i due esperti che lavorano per Social Finance US, infatti, non si possono condividere le seguenti premesse: 1) i governi sono interessati ai meccanismi dei social impact bond solamente in una logica di risparmio e di riduzione della spesa pubblica; 2) stabilire un nesso tra il finanziamento ad organizzazioni non profit e la misurazione di outcomes influenzerà negativamente il settore; 3) gli investitori in programmi pay-for-success ricercano o il profitto o l’impatto, non entrambi. La conclusione di Palandjian e Shumway è quindi che la previsione circa il ruolo futuro (unico o prevalente) della filantropia è eccessivamente prematura.


La premessa mancante

Senza entrare nel merito dei numerosi argomenti segnalati dall’articolo di Rangan e Chase e dalle relative risposte, sembra potersi dire che il dibattito, pur interessante, manca di un a chiara premessa. In particolare è l’apertura stessa della riflessione che, prendendo le mosse dalla riduzione delle risorse pubbliche disponibili per il welfare, considera tale circostanza come un dato di fatto, qualcosa che non richiede alcun approfondimento o spiegazione. Questa scelta di evitare ogni sorta di contestualizzazione argomentata circa lo stato dei sistemi di protezione sociale espunge dalla riflessione un importante filone di studi, che negli anni ha contribuito significativamente a sviluppare una discreta consapevolezza sulle evoluzioni del welfare state.

Con un livello di approssimazione imposto da esigenze di sintesi, si può segnalare come la fine della età dell’oro del welfare state può essere collocata a partire almeno dagli anni Ottanta (Esping-Andersen 1996). Mentre nel periodo precedente, a partire dal secondo Dopoguerra, i sistemi di welfare si erano strutturati in un contesto di espansione economica, a partire dagli anni Ottanta essi debbono misurarsi con la sfida posta da un contesto politico-istituzionale e socio-economico profondamente mutato. Il cambiamento in discorso riguarda alcune premesse su cui si basava il welfare state sorto in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, che non è qui possibile richiamare ma che. In breve e con le parole di Agostini, si può dire che «di fronte alla crisi dello Stato sociale e alla diffusione di politiche di contenimento dei costi, molti studiosi si sono interrogati sul futuro stesso dei sistemi di welfare, dando vita ad un dibattito che può essere sinteticamente descritto con l’opposizione fra smantellamento e resistenza» (2005).
L’insoddisfazione per questa lettura dicotomica, che tende a trascurare la dimensione qualitativa del welfare e dei suoi cambiamenti, ha portato ad avanzare il concetto di “ricalibratura” (Ferrera e Hemerijck 2003). Con tale espressione si intende principalmente riferirsi a tre elementi: «1) la presenza di vincoli, connessi alle sfide sopra illustrate (soprattutto quelle di natura finanziaria), che condizionano la scelta delle politiche pubbliche e la loro evoluzione; 2) l’interdipendenza tra addizioni (o miglioramenti) e sottrazioni (i cosiddetti ‘tagli’) nel processo di riforma, per effetto dei vincoli suddetti […]; 3) lo spostamento deliberato del peso attribuito ai diversi strumenti e obiettivi di politica sociale, sulla scia di complesse dinamiche di apprendimento sociale e istituzionale» (Ferrera 2004).

Trascurato nella “premessa mancante” del discorso sui social impact bond, il tema ora segnalato e che necessita di essere affrontato, ritorna peraltro in via indiretta proprio in relazione ad una delle sfide che Rangan e Chase identificano più o meno correttamente in un passaggio del loro articolo. Essi sostengono che «dopo che la prima serie di risparmi sarà stata effettivamente realizzata, la pressione politica potrebbe spingere per l’abbassamento delle somme per i pagamenti degli appalti pay-for-success successivi, in linea con i nuovi parametri di efficienza» con la conseguenza di «sempre minore spazio per ritorni crescenti» e dunque il rischio che «i capitali privati siano tentati di fuggire il mercato dei pay-for-success». Tale osservazione sembra giocare a favore della tesi sostenuta da Rangan e Chase, secondo i quali il futuro dei pay-for-success sarebbe sulle spalle della filantropia. In realtà sembra più corretto ritenere che la sfida individuata dai due studiosi emerge come conseguenza di un non adeguato approfondimento circa le già citate strategie di ricalibratura del welfare state.

In altri termini si può osservare come una volta che i social impact bond avranno generato su determinate voci di spesa sociale significativi risparmi, mantenendo comunque il livello qualitativo richiesto dagli enti governativi, si arriverà ad un punto per cui ulteriori risparmi si tradurranno nella abolizione stessa del servizio offerto. Non esistono infatti servizi a costo zero e nemmeno si può immaginare un servizio di prevenzione che elimini integralmente la necessità di successivi interventi “in emergenza”.

Pertanto, al di là del ruolo svolto oggi e in futuro da filantropia, governi e mercato, i social impact bond appaiono assumere un valore particolare rispetto alla necessità che nei sistemi di welfare è emersa a proposito della risposta a nuovi bisogni e nuovi rischi sociali, secondo un approccio che a livello europeo è stato identificato come quello della social investment perspective. I social impact bond, lungi dall’essere una via ordinaria per la sostenibilità generale del welfare, sono uno strumento particolarmente innovativo a disposizione proprio per la realizzazione di mirate e puntuali strategie di ricalibratura. I social impact bond consentono infatti di “aggredire” quelle aree di intervento del welfare che vengono riconosciute come potenziali ambiti di spreco, appunto nell’ottica di una funzione preventiva di buona parte dei servizi che possono essere erogati in vista di promuovere un maggiore benessere e un corrispondente minore costo sociale. La conseguenza è quella di generare dei risparmi, che significa liberare delle risorse e recuperarne la piena disponibilità per nuovi “investimenti”.

Pertanto, anche una sommaria analisi della “premessa mancante”, consente di apprezzare come sistemi di welfare possono mutare «attraverso una serie di aggiustamenti incrementali coerenti con le architetture istituzionali dei differenti modelli di welfare» (Agostini 2005) dunque sotto il vincolo di path dependency che caratterizza ogni tentativo di ricalibratura del welfare (Capano e Giuliani 2002). In tale lenta e graduale evoluzione dei sistemi di welfare, che avviene anche attraverso l’introduzione di nuovi strumenti di policy, un ruolo affatto secondario è svolto dalla comunità epistemica. Secondo la celebre definizione di Haas, questa può essere intesa come «una rete di professionisti con competenze riconosciute e capacità in un settore particolare oltre che un claim politico autorevole all’interno di un certo dominio o area problematica» (1992). Il ruolo della comunità epistemica, tuttavia, non è appena quello di promuovere un tema o segnalarne punti di forza e di debolezza, quanto piuttosto comprenderlo in termini di variabili dipendenti e indipendenti, di questioni in gioco e di presupposti assiologici talvolta impliciti. Solo così il ruolo della comunità epistemica rispetta la natura della propria composizione – distinguendosi da altri soggetti operanti nell’ambito dell’advocacy – e offre un reale contributo al dibattito politico nel quale essa si inserisce.

Da tale osservazione discende quindi la necessità di approfondire anche sul piano metodologico quali siano gli approcci più adeguati per comprendere il tema dell’impact investing e in specie dei social impact bond. Queste espressioni non possono essere considerate semplicemente come espediente retorico per l’immissione sul mercato finanziario di nuovi prodotti e nemmeno possono consistere nell’affidamento ad un tipo di imprenditoria la soluzione di problemi ormai consolidati. Quando si parla di impact investing e di social impact bond si fa riferimento a nuovi strumenti, senz’altro complessi, che tuttavia dalla prassi sono emersi come espressione dell’ambizione di rispondere adeguatamente, o meglio di come non abbiano già fatto altri dispositivi, ad un problema o un gruppo di problemi ben definito. E’ da tale definizione che occorre prendere le mosse, pena non rispettare la pretesa “epistemica” e dunque deprimere l’autorevolezza del claim avanzato dalla comunità. È chiaro che sono diversi gli ambiti della conoscenza che entrano in gioco nel momento in cui si fosse effettivamente interessati a comprendere le variabili che sottostanno al processo di emersione dell’impact investing. Senz’altro si tratta di un fenomeno che può essere letto attraverso le lenti della politica economia, così come quelle degli studiosi di management. Nel dibattito attuale sembra però mancare l’idea che l’impact investing possa essere considerato come un social policy tool e così resta marginalizzato il possibile contributo degli studiosi provenienti dall’area politologica e sociologica. Ciò che tuttavia risulta ad avviso di chi scrive ancora più dannoso è che tale assenza non sembri trovare bilanciamento nemmeno attraverso tentativi di “sconfinamento” da parte degli studiosi impegnati sul tema, che continuano a lasciare scoperta una dimensione decisiva del discorso. La lettura dell’articolo di Randan e Chase, insieme ai numerosi spunti autenticamente interessanti, mette anche in luce questo limite della riflessione odierna e ripropone la necessità di un approccio interdisciplinare, capace di dispiegare la propria forza conoscitiva lungo tutto l’arco delle questioni poste dal fenomeno emergente.


Conclusioni

Per concludere, provando a sintetizzare quanto sopra segnalato, si può argomentare come il nodo principale del dibattito sui social impact bond riguarda il fatto che di fronte al problema della riduzione delle risorse disponibili, assieme ad eventuali altri fattori che appaiono in grado di mettere sotto pressione i sistemi di protezione sociale tradizionali, occorre in primo luogo interrogarsi sulle ragioni specifiche delle difficoltà che – per la verità da qualche decennio – si stanno incontrando; dunque si rende indispensabile una riflessione puntuale sulla natura di quelli che qualcuno potrebbe definire come i “fallimenti del welfare state”.

In secondo luogo è poi necessario discutere delle strategie politiche che si offrono come possibili risposte ai problemi in precedenza rilevati e compresi. In terzo luogo, come ultimo passaggio, si dovrà guardare agli strumenti più adeguati che consentono di perseguire quelle strategie politiche di ammodernamento dei sistemi di protezione sociale. Purtroppo nel dibattito sull’impact investing solo l’ultima fase, quella inerente la discussione degli strumenti, sembra conquistare l’interesse del pubblico, come se le cause fossero ben conosciute da tutti. O come se la dimensione politica degli strumenti e dispositivi per la soluzione di problemi pubblici fosse solo accessoria.

Salvo il caso più che meritorio di chi è impegnato in attività di advocacy rispetto a simile tema, a chi scrive sembra che la riflessione portata avanti dalla comunità epistemica sull’impact investing sia troppo incentrata sulle potenziali conseguenze e sulle prospettive suggerite da alcune pur promettenti sperimentazioni, trascurando invece ciò che dovrebbe essere sempre oggetto di approfondimento, ossia le cause e i problemi cui l’impact investing pretende di dar risposta. D’altra parte è sulla capacità dell’impact investing di dare soluzione a problemi determinati che si misurerà l’opportunità di proseguire nelle sperimentazioni e – magari – adottare tale approccio come preferenziale per lo sviluppo di politiche non lineari a sostegno del welfare. Se non si creano sin d’ora i presupposti per una tale verifica, il dibattito che sul tema inevitabilmente si sta sviluppando – anche nei blasonati ambienti accademici d’oltreoceano – resterà inevitabilmente un po’ lezioso.

 

Riferimenti

Rangan & Chase (2015) The Payoff of Pay-for-SuccessStanford Social Innovation Review

Haas (1992), Introduction: epistemic communities and international policy coordination, International Organization / Volume 46 / Issue 01 / Winter 1992, pp 1-35

Agostini (2005), Fra politiche e istituzioni. Quale eredità per i nuovi modelli di welfare?, Quaderni di Ricerca del Dipartimento Innovazione e Società, Università di Roma “La Sapienza”, n. 3

Capano e Giuliani (2002), Dizionario di politiche pubbliche, Carocci, Roma

Ferrera (2004), Ricalibrare il modello sociale europeo. Accelerare le riforme, migliorare il coordinamento, URGE Working Paper 7/2004

Ferrera & Hemerijck (2003), Recalibrating Europe’s Welfare Regimes, in Zeitlin J. e Trubek D.M., (a cura di), Governing Work and Welfare in the New Economy. European and American Experiments, Oxford University Press, Oxford. 

 

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