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La notizia dei due fondi di investimento filantropico di Duemme SGR, società di gestione di Banca Esperia, non è recente dato che già ad aprile scorso era stata portata all’attenzione degli addetti ai lavori attraverso alcuni comunicati stampa. Tuttavia da allora sono intervenuti alcuni elementi che rendono opportuno richiamare questa duplice e significativa esperienza.

 

Gli elementi che spingono a riprendere e commentare la notizia sono diversi: in primo luogo entrambi i fondi (che in verità si distinguono solo per il soggetto del Terzo Settore che vanno a beneficiare, San Patrignano uno e Comitato Maria Letizia Verga l’altro) sono divenuti operativi; in secondo luogo il dibattito sulla c.d. finanza sociale o social impact investing è esploso in seguito alla proposta avanzata da Enzo Manes nelle settimane scorse. Questi due elementi costringono a guardare di cosa si tratti e in particolare – secondo lo spirito che ci è solito – quali indicazioni di policy possono essere formulate.

 

I due fondi di investimento filantropico: di cosa si tratta e come funzionano

Tra le diverse offerte che Banca Esperia offre ai propri clienti c’è quella di investire in fondi con devoluzione a scopo filantropico, ritenuti dalla società per la gestione del risparmio di Banca Esperia «strumenti con caratteristiche di spiccata innovatività per il mercato italiano, frutto di partnership perfezionate con i primari enti benefici italiani».

Al momento esistono due fondi di questo tipo: il primo è legato alla realtà di San Patrignano, che si occupa di accogliere ragazzi e ragazze con gravi problemi di droga, il secondo è invece a sostegno del Comitato Maria Letizia Verga, una associazione senza fini di lucro per «lo studio e la cura della leucemia del bambino». Il funzionamento e i profili di rischio dei due fondi sono identici, pertanto nel ricostruire i meccanismi che stanno alla base del loro funzionamento verranno trattati indistintamente.

Secondo quanto risulta dalle informazioni disponibili, i fondi con devoluzione a scopo filantropico sono strutturati in modo da assicurare all’ente benefico un flusso di ricavi ricorrenti nel tempo, che consentirebbe agli investitori di sostenere l’ente del terzo settore in maniera continuativa, investendo in un prodotto finanziario con un basso livello di rischio e una liquidità giornaliera.

In sostanza si tratta di fondi di investimento che da un lato operano secondo le logiche loro proprie, ma al tempo stesso, grazie ad una significativa riduzione della commissione di gestione rispetto a quella praticata nel mercato di riferimento, consentono al gestore (in questo caso appunto Duemme SGR) di effettuare una devoluzione direttamente all’ente benefico.

Questo “innesto filantropico”, poiché è ritagliato dalla commissione di gestione non pregiudica in alcun modo l’investitore, sul quale non grava dunque il costo della devoluzione.

L’investitore dunque non si assume rischi connessi alla dimensione “sociale” dell’investimento, posto che i fondi con devoluzione a scopo filantropico sono «fondi mobiliari aperti, armonizzati di diritto italiano, di tipo bilanciato obbligazionario, a capitalizzazione dei proventi, che investono il proprio patrimonio in organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR), in depositi bancari e in strumenti finanziari di natura azionaria e obbligazionaria». Ne discendono quindi le tipiche implicazioni che un investitore è chiamato a considerare quando decidesse di impegnarsi in tali tipi di fondi, al di là dunque di ogni possibile valutazione sullo spirito filantropico del fondo. Ciò non significa che la dimensione filantropica non possa costituire l’elemento discriminante sulla base del quale un investitore decide di fondare la propria opzione per questo tipo di fondo, ma dal punto di vista squisitamente finanziario essa non ha alcuna rilevanza.

 

Gli elementi caratterizzanti i fondi di investimento filantropico

Rispetto ad alcuni altri tentativi occorsi in Italia, orientati ad avviare qualche forma di sperimentazione di quella che è ormai conosciuta come finanza sociale, l’iniziativa della società di Banca Esperia si distingue per alcuni elementi che debbono essere messi in luce.

Come aveva avuto modo di segnalare nel capitolo dedicato alla finanza sociale del Primo rapporto sul secondo welfare Lorenzo Bandera, un primo caso italiano che aveva destato particolare interesse è stato quello dei social bond di UBI Banca: «titoli obbligazionari che, oltre a garantire un ritorno sugli investimenti effettuati, offrono ai sottoscrittori la possibilità di sostenere iniziative caratterizzate da un alto valore sociale», individuate dall’istituto bancario stesso.

A differenza di tale strumento, il caso di Banca Esperia si distingue in quanto non prevede alcuna emissione di titoli obbligazionari del tipo di quelli sopra citati, ossia caratterizzati da rendimenti parzialmente ridotti al fine di consentire la devoluzione di una frazione del capitale investito ad un ente appartenente al terzo settore1. Nel caso qui in esame si tratta infatti di un fondo di investimento bilanciato con diversificazione globale, che offre al sottoscrittore rendimenti di mercato analoghi a quelli degli altri prodotti presenti sul mercato.

Inoltre, mentre il social bond si struttura come una elargizione che avviene in una unica soluzione al momento della sottoscrizione del titolo emesso, nel caso del fondo di investimento filantropico la devoluzione del capitale avviene in via continuativa ed è legata all’andamento del fondo. Generando un flusso pluriennale di ricavi anche per il soggetto del terzo settore che beneficia dei positivi risultati del fondo, lo schema sembra particolarmente vantaggioso perché la distribuzione di una quota parte del patrimonio, per tutta la durata del prodotto, assicura la possibilità di una serena pianificazione a medio e lungo termine, eventualmente immaginando strategie di sviluppo e crescita delle proprie attività.

Come sostiene Andrea Cingoli, amministratore delegato del Gruppo Esperia, «questo prodotto interpreta perfettamente il nuovo trend della finanza sociale, che punta a un’evoluzione dalla tradizionale filantropia basata sulla beneficenza verso soluzioni che abbiano un virtuoso bilanciamento tra la ricerca del profitto (il rendimento dell’investitore) e l’impatto sociale reso possibile dalla social responsibility della banca».

Siamo quindi distanti anche dal più complesso e discusso caso dei social impact bond, dei quali ci si è spesso occupati: il rischio in capo agli investitori non ricomprende in alcun modo quello relativo al raggiungimento di determinati livelli di performance sociale e la partnership non richiede il coinvolgimento della pubblica amministrazione, bensì di un attore dell’industria finanziaria che intende utilizzare un proprio programma di corporate social responsibility come strumento per allineare obiettivi sociali e di mercato. In tal senso si può sottolineare come il fenomeno degli investimenti ad impatto, o delle nuove frontiere della filantropia, non si ponga in termini alternativi alle diffuse prassi di corporate social responsibility, piuttosto ne costituisce una evoluzione, rendendo tale prassi aziendale – se l’espressione è concessa – strategicamente orientata alla generazione di un cambiamento sistemico.

Peraltro nella logica del fondo di investimento filantropico proposto emerge come ulteriore elemento di interesse il fatto che pure l’investitore sociale, quello che si suole definire “impact-first”, trarrebbe rispetto ad altri prodotti di investimento sociale un maggior vantaggio, in quanto oltre a non vedere eroso il proprio apporto finanziario dai notevoli costi di transazione che derivano dalla necessità talora presente in alcuni schemi di misurare le performance e gli outcome sociali raggiunti, avrebbe altresì la possibilità di vedere crescere il capitale investito, ricavando ulteriori disponibilità finanziarie per nuove ed analoghe iniziative.

 

Oltre le nuove frontiere della filantropia alcune indicazioni di policy

Pur nella apparente semplicità delle logiche sottostanti il fondo di investimento filantropico proposto dal Gruppo Esperia, emergono almeno alcune indicazioni che possono essere ritenute particolarmente utili rispetto al contesto italiano, anche alla luce dell’attuale dibattito sull’IRI del terzo settore.

Sarà infatti fondamentale costruire una serie di incentivi che permettano la moltiplicazione di simili schemi di finanza sociale, così da stimolare la competizione tra i diversi fondi di investimento filantropici, che si troverebbero a dover scegliere sostanzialmente tra due strategie: o ridurre le commissioni di gestione più dei propri competitor, oppure costruire fondi di investimento con rendimenti migliori. In tal senso si può considerare l’opportunità di prevedere misure di agevolazione fiscale (tax ruling) per coloro i quali si coinvolgessero (come investitori o come gestori) in fondi di investimento filantropici, al fine di incoraggiare la diffusione di tali pratiche. La posta in gioco è infatti alta, perché il considerevole sforzo compiuto per avviare questi tentativi pioneristici richiede per il proprio consolidamento e il proprio sviluppo un ecosistema favorevole.

Inoltre, con più specifico riferimento all’IRI del terzo settore, tale costituenda fondazione potrebbe considerare un simile meccanismo per la propria costruzione e crescita: oltre a – o al fine di – intercettare i flussi di potenziali donor, la futura fondazione potrà attivarsi per lo sviluppo da parte delle banche del paese di fondi di investimento filantropici dei quali risulterebbe beneficiaria, esattamente come oggi avviene per San Patrignano e il Comitato Maria Letizia Verga. Pur rimanendo aperto il tema dei termini e dei modi della “redistribuzione” del capitale raccolto, che avevamo già in parte sollevato, il versante della costituzione di un patrimonio significativo potrebbe in parte trovare una copertura attraverso lo schema identificato dai fondi di investimento filantropici.

Al fine di supportare la diffusione di simili schemi di investimento, una ulteriore e diversa ipotesi potrebbe essere quella che l’IRI del terzo settore, intercettati e recuperati i flussi delle donazioni circolanti nel paese, giocasse la sua partita ritagliandosi il ruolo di facilitatore, promotore e in un certo senso regolatore di tali strumenti: la futura fondazione, grazie all’impiego del proprio patrimonio potrebbe decidere di andare a contribuire per una percentuale della riduzione della commissione di gestione proposta dagli istituti finanziari chiamati a gestire il fondo, così premiando in via indiretta quelle realtà appartenenti al terzo settore che ritenesse possedere i requisiti individuati preventivamente come qualificanti; in alternativa, la futura fondazione potrebbe decidere, sempre attraverso l’impiego del proprio capitale, di portare all’interno di schemi quali i fondi di investimento filantropico quei soggetti o gruppi di soggetti del terzo settore che per diverse ragioni non avessero la possibilità di definire direttamente con le società di gestione dei risparmi simili programmi.

Al di là del ruolo che l’IRI del terzo settore può avere e indipendentemente dalla possibilità che si avvalga o meno di strumenti come quelli che qui si è cercato di illustrare, sembra importante sottolineare come i fondi di investimento filantropico proposti dal Gruppo Esperia mostrano l’estrema varietà di forme che il fenomeno dell’impact investing può assumere. Alcuni casi si mostreranno più complessi e quindi tanto affascinanti quanto difficilmente realizzabili senza significativi sforzi, altri invece – come il caso in discorso – sembreranno assumere un aspetto più moderato rispetto ai termini della loro narrazione, pur mantenendo la capacità di contribuire al cambiamento sociale. Ciò che tuttavia è certo riguarda il fatto che nell’uno come nell’altro caso, gli investimenti sociali costituiscono ad oggi uno dei tentativi più significativi di allineare interessi che erroneamente e troppo a lungo si sono ritenuti appartenenti ad ambiti diversi e inconciliabili.


1 L’Ufficio Stampa di UBI Banca ci segnala che i Social Bond UBI Comunità, contrariamente a quanto riportato nell’articolo, non presentano rendimenti ridotti al fine di consentire la devoluzione di parte del capitale investito ad organizzazioni del terzo settore ma, al contrario, i rendimenti percentuali per gli investitori nel 2013, 2014 e 2015 sono risultati costantemente superiori a quelli di BTP e Prestiti Obbligazionari Welcome Edition del Gruppo UBI. Ai fini della massima trasparenza e onestà riportiamo quindi i dati ricevuti in tal senso. [nota inserita il 28 gennaio 2016]