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Nel corso degli ultimi mesi ci sono state importanti novità in materia di welfare aziendale. Oltre alla recente circolare dell’Agenzia delle Entrate (di cui vi abbiamo parlato qui), lo scorso 28 febbraio Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un accordo – denominato "Patto per la fabbrica" – con lo scopo di promuovere un nuovo modello condiviso di relazioni industriali e contrattazione. A fronte di queste novità, Giovanni Scansani (co-fondatore e Amministratore unico di Valore Welfare Srl) – all’interno di un articolo pubblicato dal portale Mitbestimmung che qui vi riproponiamo – fa un’analisi delle opportunità per il prossimo futuro legate al welfare di natura aziendale.

Welfare aziendale, partecipazione dei lavoratori all’impresa e nuovi scenari delle relazioni industriali

Le trasformazioni del lavoro e della relazione tra impresa e lavoratore sono sempre più incentrate sulla necessità di contrattare innovazione organizzativa finalizzata agli incrementi delle performance. Ciò anche al fine di assecondare il crescente rilievo, riconosciuto nei contesti d’impresa più virtuosi, al valore apportato da ciascuno nell’organizzazione complessiva dei cicli produttivi, valorizzandone la soggettività, le competenze e le capacità. Queste trasformazioni per potersi tradurre in efficaci pratiche d’innovazione nei luoghi di lavoro ed accrescere la competitività aziendale richiedono, ad un tempo, gradi crescenti di partecipazione attiva da parte dei lavoratori – sempre più chiamati ad esprimere appieno il proprio potenziale umano e professionale ed a diventare “imprenditivi”, per richiamare un’immagine recentemente utilizzata da Federmeccanica – e dosi non meno rilevanti di attenzione, da parte delle imprese, al rapporto esistente tra vita e lavoro e tra “bene-essere” e “bene-avere” se si vuole che quel potenziale possa essere pienamente liberato. E quest’ultimo è il campo d’azione delle pratiche di Welfare Aziendale (WA).

Così inquadrati, WA e partecipazione appaiono essere due sfide culturali che hanno come denominatore comune il sostegno di alcuni interessi dei lavoratori che si pongono in stretta sinergia rispetto alle evoluzioni che, sul piano organizzativo, le imprese sono chiamate a realizzare. Se il lavoro è uno dei luoghi principali della fioritura dell’umano e se l’umano è oggi sempre più al centro della riorganizzazione del lavoro, non si vede come il crescente coinvolgimento attivo dei lavoratori, ossia appunto la partecipazione, possa restare ancora a lungo oggetto di dibattitto senza diventare prassi maggiormente diffusa.

Mi pare si stia andando in questa direzione e segnali ce ne sono. L’ultimo, in ordine di tempo e a livello interconfederale, è quel “Patto per la Fabbrica” del 28 febbraio scorso con il quale, nella lista delle priorità individuate dalle parti sociali, ci sono proprio, tra le altre, il WA e la partecipazione che, rispettivamente, aprono e chiudono la to do list delle future relazioni industriali.

Le attuali trasformazioni del lavoro, del resto, spingono a ripensare l’azienda partendo da una prospettiva più comunitaria e inducono a sostenere le dinamiche di partecipazione tra i protagonisti della vita aziendale i quali sono sempre più attenti alla tutela di un bene per essi comune (ed invero comune per tutti, anche per gli stakeholder esterni all’impresa) che coincide con l’impresa in quanto tale. Quest’ultima, per sostenere nel tempo questa visione e poterne beneficiare appieno, deve necessariamente aprirsi verso nuove forme e modalità di coinvolgimento a partire dal suo principale stakeholder rappresentato dall’insieme (e da ciascuno) dei suoi dipendenti.

Welfare aziendale e partecipazione dei lavoratori all’impresa

Tra i tanti possibili ambiti che, nella visione contemporanea del lavoro, richiedono la partecipazione (spesso diretta) dei lavoratori c’è senz’altro quello creatosi con la diffusione delle prassi di WA che, nel quadro delle trasformazioni in atto, si presentano pienamente allineate sia alla maggiore considerazione della relazione esistente tra equilibri della vita e produttività del lavoro, sia alla mutata strutturazione della retribuzione della quale i servizi di WA costituiscono un elemento sempre più considerato nel quadro della definizione del total reward.

Partecipazione e WA, come espressioni della vitalità organizzativa di un’impresa, rappresentano strumenti di voice dei lavoratori in grado di rafforzarsi vicendevolmente. Occorre ovviamente intendersi sul concetto di partecipazione cui ci si riferisce: quella organizzativa (diretta ed indiretta) e quella economica presentano senz’altro delle complementarità con il WA che è un elemento rilevante della prima ed è diventato recentemente una modalità di affermazione della seconda, come avviene attraverso le pratiche di “welfarizzazione” del Premio di Risultato (PdR).

Anche le finalità dei due istituti presentano alcune coincidenze posto che WA e partecipazione hanno l’obiettivo comune di accrescere la produttività e dunque di coordinarsi con la complessiva business strategy dell’impresa. Similari sono anche altri effetti che possono generare, incidendo positivamente sul clima aziendale, sulla reciprocità, sulla capacità dell’azienda di attivare maggiore attraction/retention dei collaboratori e nell’accrescere il loro livello di engagement. WA e partecipazione contribuiscono, così, al rafforzamento del “contratto psicologico” che, pur sotteso a quello di lavoro, è sempre necessario arricchire costantemente per porre le persone nelle condizioni di esprimere pienamente le proprie capacità attivando quelle dinamiche d’impegno e di reciprocità, a loro volta necessarie per un lavoro più produttivo. Analogamente, WA e partecipazione sono i presupposti per il rafforzamento del “patto” che il “lavoro buono” sa instaurare tra impresa e lavoratori affinché l’output dell’agire quotidiano possa essere un “buon lavoro”, ossia un lavoro fatto bene, realmente gratificante e normalmente eccedente i limiti del contratto che, per definizione, è sempre incompleto e non riesce a contenere tutto l’umano che il lavoro può e deve esprimere.

Più in particolare, quanto al WA, nella sua versione più vera e completa – ossia quella che deriva da un programma frutto di una precisa strategia di people management di medio-lungo periodo, sostenuta da un investimento aziendale specifico e non da “conversioni” di componenti variabili delle retribuzioni – il momento partecipativo è rappresentato, anzitutto, dal coinvolgimento delle persone nell’indicazione dei bisogni sui quali, poi, l’azienda sarà chiamata a dare risposte nei termini che saranno espressi dal Piano di Welfare Aziendale (PWA). Si tratta di un momento essenziale per la calibratura degli interventi che si realizza mediante sistemi di ascolto che altro non sono se non momenti di partecipazione (sia dei lavoratori come anche dei loro rappresentanti, se presenti in azienda).

Analogamente può dirsi della fase successiva alla definizione del PWA, ossia quella della sua implementazione e della sua gestione che, nei casi più evoluti, sono guidate da un sistema di governance che, oltre alle funzioni HR dell’azienda, prevede il coinvolgimento dei lavoratori o del sindacato sino ad arrivare, nelle imprese più grandi, all’istituzione di appositi comitati bilaterali aziendali.

Questa è la “via alta” al WA “partecipato” la cui alternativa è quella di un WA disegnato “a tavolino” dai manager o paternalisticamente definito direttamente dell’imprenditore che, però, proprio per l’assenza di un coinvolgimento della “base” sulle decisioni progettuali e gestionali, non può cogliere nel segno ed è destinato a non avere successo. Analogamente può dirsi per certi automatismi oggi derivanti dalla conversione dei PdR in servizi di WA, spesso tradotti in sistemi di accesso ai vari servizi secondo logiche di disintermediazione più vicine alle dinamiche dell’e-commerce che a quelle di reali politiche di people care. Tali automatismi sono ben lungi dal creare quel valore aggiunto che, sul piano delle relazioni (individuali e collettive), uno strutturato PWA è invece in grado di generare anche come leva per attivare dinamiche di partecipazione e di coinvolgimento o per rafforzarle, ove già presenti.

Ciò dimostra come il “vero” WA contribuisca a mutare la relazione tra impresa e dipendente favorendo uno “scambio sociale” e non più solo di mercato e lo sviluppo del senso di comunità che trasforma l’impresa (e il lavoro stesso) in un bene comune.

Il WA, poi, si dimostra così capace di essere anche uno strumento di sostegno e di radicamento dei processi di partecipazione organizzativa, posto che, tramite il coinvolgimento dei lavoratori e del sindacato nelle fasi di progettazione e poi di gestione degli interventi, l’output dell’accresciuto benessere individuale che riesce a realizzare finisce per avere un diretto impatto anche sul benessere dell’organizzazione complessiva il quale cresce, a sua volta, se cresce il coinvolgimento del team aziendale.

Il WA “partecipato”, inoltre, è capace di generare effetti di efficientamento dell’investimento aziendale in maniera del tutto similare al medesimo effetto che la partecipazione organizzativa (diretta ed indiretta) è in grado di produrre rispetto agli investimenti aziendali destinati alla tecnologia impiegata nella produzione. In entrambi i casi, infatti, la partecipazione alla definizione del disegno del WA, come la partecipazione al miglioramento dei prodotti e dei processi produttivi, diventa un fattore capace di migliorare il “ritorno di valore” dell’investimento.

Il WA e la partecipazione dei lavoratori sono capaci, quindi, di irrobustire tutte le componenti che conducono ad una maggiore produttività, ma senza incidere negativamente sulla qualità del lavoro ed anzi migliorandola: il WA sul piano della conciliazione con le esigenze della vita privata e del sostegno, anche economico, rispetto a finalità di rilievo sociale che riguardano il lavoratore e/o la sua famiglia; la partecipazione organizzativa sul piano della fioritura delle soggettività e dell’alleviamento delle condizioni di lavoro per il tramite dei miglioramenti complessivi dei processi produttivi che l’apporto partecipativo dei lavoratori è in grado di attivare.

Un altro terreno che accomuna WA e partecipazione è poi quello della “generatività”: il WA s’inserisce a pieno titolo in quel concetto di “welfare generativo” che soprattutto l’economia civile spesso richiama per il superamento del paradigma dell’attuale sistema di welfare state. Quello “generativo” si caratterizza per la scomparsa delle connotazioni meramente assistenzialistiche (che in ambito aziendale si direbbero paternalistiche) facendo spazio alla responsabilizzazione e all’empowerment delle persone che è anche la cifra della partecipazione organizzativa, specialmente di quella diretta, nella quale i lavoratori sono coinvolti in prima persona ed anche a prescindere dal coinvolgimento dei loro rappresentanti. Questa partecipazione è dunque “generativa” nel senso che esalta pienamente la centralità della persona e quindi la capacitazione di ciascuno. Quando WA e partecipazione sono presenti congiuntamente nello schema organizzativo aziendale e nella cultura dell’impresa, la responsabilizzazione diventa reciproca e reciprocante perché riguarda non solo i lavoratori rispetto al loro lavoro ed ai risultati attesi, ma anche l’azienda rispetto al benessere ed alla considerazione complessiva della persona che quel lavoro e quei risultati ha contribuito e contribuirà a produrre in futuro.

Infine, un ambito che accomuna WA e partecipazione è rintracciabile anche all’esterno all’azienda: penso alla governance degli enti bilaterali, ai fondi per la formazione, a quelli pensionistici complementari e a quelli sanitari integrativi, senza dimenticare le potenzialità che può esprimere una “partecipazione territoriale” che proprio le policy di WA sono in grado di attivare grazie al coinvolgimento e alle esternalità delle quali possono beneficiare gli stakeholder esterni all’impresa, ma con essa pur sempre connessi.

In quest’ultimo senso ed in una visione evoluta e maggiormente efficace, la partecipazione e il WA devono saper uscire dal perimetro aziendale e porsi in sinergia con l’economia territoriale perché creare valore solo all’interno della singola azienda, senza cooperare alla crescita di tutti i soggetti che con essa si relazionano, priva l’impresa stessa di un risultato essenziale che è quello di generare valore aggiunto nel tessuto economico e sociale nel quale si trova inserita.

A tale proposito, il WA ha notoriamente la capacità di generare esternalità positive per il territorio attraverso il sostegno alla domanda di servizi che non possono che essere locali, ossia erogati dove le persone e le famiglie vivono e lavorano e può giungere, nei casi più evoluti, sino ad offrire esso stesso servizi dei quali l’intera comunità può beneficiare (classico il caso dell’asilo aziendale aperto anche ai figli di persone non impiegate nell’impresa che lo allestisce). In tal modo il WA esprime appieno la sua capacità d’integrazione rispetto all’offerta di welfare pubblico disponibile. Ovviamente queste esternalità, per essere efficacemente progettate e pienamente vissute, necessitano di forti dosi di partecipazione che mettano attorno al tavolo l’impresa, i sindacati, le organizzazioni della società civile e gli enti locali: dunque la “società” nel suo insieme, in una visione circolare ed armonica del senso collettivo.

E i benfit di welfare che derivano dalla conversione dei premi di risultato?

Ci sono alcune importanti differenze tra il “vero” WA e la “welfarizzazione” dei PdR la cui attivazione, pur rimessa ad una previa contrattazione, generalmente non presuppone un “ascolto” ed una partecipazione diretta dei lavoratori all’identificazione dei bisogni cui fornire risposte. Il PdR si “welfarizza”, pur se a fronte di una libera scelta del dipendente, tramite un automatismo che si sostanzia unicamente in una diversa modalità di corresponsione della componente variabile della retribuzione. Ecco un limite della partecipazione, in tal caso economica, che può essere visto con la lente del WA: essa è capace di accrescere la motivazione estrinseca verso il buon andamento aziendale collegato ad un incremento retributivo ed è quindi capace di spronare verso una maggiore produttività, ma difficilmente riesce a generare valore nel vissuto delle persone che, invece, si produce quando ad attivarsi sono le motivazioni intrinseche e specialmente quando queste siano allineate con i valori espressi dalla cultura aziendale, come avviene nelle realtà dove il WA è pratica solida, presente da tempo e strettamente connessa all’intento di fornire di tutele (che sono cose ben diverse dall’erogare premi).

E’ poi di tutta evidenza il fatto che la “welfarizzazione” del PdR è sempre aleatoria (perché l’accesso ai servizi di WA è associato al conseguimento dei target aziendali che sono per definizione incerti) e potenzialmente non stabile (mentre i bisogni lo sono, pur nella loro mutevolezza nel tempo). Quello che deriva da questo canale di attivazione è allora un WA “debole”, nel quale l’investimento aziendale non è presente (il finanziamento degli interventi è fatto con la parte variabile della retribuzione del dipendente che, di fatto, “si paga” il suo welfare) e dove l’opzione exit per l’azienda può diventare molto semplice (“no target, no welfare”).

Tuttavia l’innovazione normativa che ha condotto alla possibilità di convertire i PdR in servizi di WA ha avuto il merito di aver fatto da detonatore di un fenomeno ormai considerabile strutturale nel quadro dei cambiamenti che il rapporto di lavoro sta vivendo, ossia l’inserimento del WA nel sinallagma lavoro-retribuzione. Inoltre, la pratica della welfarizzazione del PdR sta contribuendo alla diffusione della “leva” WA sia nelle strategie delle imprese, sia nel bagaglio culturale del sindacato e sta entrando nelle abitudini dei lavoratori (sia pure con alcune difficoltà in relazione alle fasce più deboli). Può quindi costituire una base di partenza, per le aziende che si siano avvicinate a questo tema attraverso la “via bassa” della conversione, verso future evoluzioni del WA in senso più stabile, strutturato e soprattutto partecipato.

Nuove possibilità dal "Patto per la Fabbrica"

L’Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018, almeno nelle intenzioni delle parti firmatarie, mira ad ammodernare le relazioni industriali e la contrattazione collettiva dei prossimi anni. Per arrivare a questo risultato è stato rimesso a specifiche e prioritarie intese tra le parti di intervenire sulle materie che, in questi ultimi anni, hanno assorbito molti degli sforzi della contrattazione collettiva. Tra queste materie figura, al primo posto di una lista di cinque priorità, proprio il WA che, ferma restando la necessità di “salvaguardare il carattere universale del welfare pubblico” dovrà atteggiarsi sempre più come un welfare contrattuale “integrato e coordinato”.

Si noti la differenza: il WA “integrativo” (di quello pubblico), come sin qui è sempre stato qualificato quello predisposto dalle imprese a beneficio dei propri lavoratori, esprime interventi che si affiancano e non si sostituiscono (e spesso neppure dialogano) con quelli di matrice pubblica dei quali sono, appunto, solo “integrativi”; viceversa, come ora si propongono di fare le parti del “Patto”, un WA “integrato” e “coordinato” potrà diventare qualcosa di diverso e di ulteriore, ossia sostanziarsi in un complesso d’interventi che, pur avendo natura e origine occupazionale e privatistica, potranno risultare sempre più sinergici con quelli pubblici, grazie a dinamiche di maggiore interscambio e reciprocità.

Pensare ad un WA “integrato” non può prescindere allora da forme di partecipazione che, come dicevo, potremmo definire “territoriali”, inclusive cioè di tutte le istanze sociali del tessuto civile ed economico nel quale l’impresa si colloca.

Tra le priorità elencate dal “Patto per la Fabbrica” figura – last but not least – anche la partecipazione, posto che, per accrescere la competitività delle imprese “la realizzazione di forme di partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori sono un obiettivo comune da perseguire”. Si vuole, infatti, che la partecipazione organizzativa costituisca, in futuro, uno dei principii cardine della regolazione degli assetti contenuti nella contrattazione collettiva ed in particolare di quella di secondo livello. A questa indicazione se ne aggiunge un’altra piuttosto innovativa, perché l’accordo ritiene sia «un’opportunità la valorizzazione di forme di partecipazione nei processi di definizione degli indirizzi strategici dell’impresa». Questo passaggio allude ad un obiettivo che sappiamo essere da noi molto complesso, ma anche decisivo di fronte alle trasformazioni in atto derivanti dall’avanzata delle tecnologie IoT nei processi produttivi.

Verso una cultura meno conflittuale delle relazioni di lavoro

Non vi è dubbio che la diffusione del WA, anche per il tramite del rafforzamento della contrattazione di secondo livello, è una delle più evidenti manifestazioni sia del superamento di logiche unicamente conflittuali, sia dell’attenzione che i modelli partecipativi, incentrati sulla cooperazione tra le parti sociali, stanno progressivamente ottenendo.

Da qualcuno si sostiene che contrattazione e partecipazione siano in contrasto o siano difficilmente conciliabili. Tralasciando la considerazione che partecipazione non significa abdicazione rispetto al confronto, può essere interessante notare che dove c’è partecipazione c’è più facilità nella contrattazione e l’esempio del WA ci dice che dove c’è partecipazione è presente anche una contrattazione più capace d’individuare i bisogni reali dei lavoratori. Ciò che conta è che questi bisogni reali siano poi guidati lungo percorsi caratterizzati da risposte coerenti, senza abbondare i lavoratori a semplificazioni che sviliscano la sottostante attenzione alle persone che il WA deve saper esprimere e soprattutto tangibilmente dimostrare.

I prossimi passi per rafforzare la cultura della partecipazione in Italia

La partecipazione che va affermandosi è trainata da motivazioni che rimandano all’innovazione organizzativa e manageriale e all’assecondamento del desiderio dei lavoratori di contare di più e di vedere maggiormente valorizzato il loro apporto. Tali forme di partecipazione sono tipicamente collegate alle strategie di gestione proprie dell’HRM e della lean production e dunque sostenerle e diffonderle non significherebbe certamente voler arrivare ad ipotesi diverse che avrebbero impatti diretti sulla governance delle aziende. Su queste premesse dovrebbe essere possibile immaginare di poter dare alle imprese una cornice normativa leggera che, tenendo conto dei diversi settori produttivi e della diversa dimensione delle aziende, nonché delle loro differenti forme costitutive, possa essere capace di dare impulso alla diffusione delle prassi partecipative senza nulla imporre, ma favorendo la massima libertà applicativa e sostenendone lo sviluppo anche tramite specifiche incentivazioni fiscali e premiali. Queste ultime sarebbero giustificabili tenendo conto del valore sociale insito nella diffusione di tali prassi che hanno la capacità di aggregare nella codecisionalità anche stakeholder esterni all’impresa, ma non meno con essa collegati e verso i quali taluni output aziendali codecisi potrebbero generare un maggiore shared value complessivo, rendicontabile nei bilanci di sostenibilità e dunque forse anche misurabile ai fini dell’incentivazione.

Ovviamente è ben noto come il contesto italiano non sia favorevole a quella partecipazione che un’attenta dottrina ha recentemente definito “incisiva”, ma senz’altro l’incentivazione e la conoscenza, come anche la diffusione dei risultati conseguiti dalle imprese che si sono poste all’avanguardia su questo tema – almeno nelle forme della partecipazione organizzativa e di quella economica – potranno sostenerne lo sviluppo.

L’affermazione delle prassi partecipative, anche nei Paesi nei quali essa è regolamentata per legge, è sempre partita nelle imprese e i benefici cui mirano le imprese attengono, anzitutto, al miglioramento della produttività, della qualità e della competitività.

La misurazione del contributo al raggiungimento di questi risultati, apportato dalle pratiche partecipative e una loro più ampia conoscenza, anche come strumento di benchmark, può sostenere la diffusione delle pratiche di partecipazione.

Un circuito virtuoso che, proseguendo nella lettura parallela dei due fenomeni, sembra richiamare le dinamiche che hanno sin qui segnato lo sviluppo del WA che, nella fase iniziale della sua recente riscoperta, ossia ben prima che entrassero in vigore le norme che ne hanno poi favorito la diffusione, si è prodotto in buona parte proprio seguendo alcune best practice.

Il cambio di paradigma sottostante alla diffusione delle prassi di partecipazione (come anche di “vero” WA) dev’essere favorito assecondando e al contempo fornendo una guida alla nuova organizzazione del lavoro, ancora troppo legata al modello tayloristico, come forse ci dicono certe chiusure politiche e culturali esistenti dentro e fuori i perimetri delle imprese.

La “via italiana” alla mitbestimmung potrà rivelarsi non meno efficace di quella tedesca, soprattutto se si terrà presente che, se quanto ad inventiva siamo un grande Paese, non potremo restare ancora troppo a lungo uno dei Paesi a minor tasso d’innovazione. E posto che non c’è innovazione se non c’è il pieno dispiegamento delle possibilità dell’umano occorre anzitutto liberare queste ultime sviluppando (ossia eliminando i viluppi, anche culturali) nei quali la partecipazione è ancora spesso imbrigliata. Solo così l’impresa “4.0” potrà essere una realtà nella quale tutti contano e quindi inclusiva, partecipativa ed anche pienamente partecipata.