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Negli ultimi anni ad Italia Lavoro abbiamo lavorato molto sul tema dell’innovazione organizzativa e della conciliazione vita-lavoro. Ebbene sì, ci abbiamo provato. Grazie ad un progetto del Ministero del Lavoro denominato La.Fem.Me e forti di una squadra di collaboratori capaci di intervenire dentro le aziende su vari aspetti – organizzazione del lavoro, flessibilità oraria, gestione della maternità/paternità, fisco, welfare e relazioni industriali – abbiamo lavorato su quaranta aziende (a fronte di 90 adesioni iniziali: alcune imprese, come accade in questi casi, si sono durante il pecorso un po’ perse per strada).

Aziende e consorzi di imprese per lo più di piccole dimensioni. Diciamo fra i 20 e i 500 dipendenti. Abbiamo offerto attività di informazione, formazione e consulenza. Era tutto gratuito ma quando le aziende ci stavano i costi del cambiamento ci sono stati. Starci ha voluto dire infatti provare a mettere in discussione l’organizzazione e fare un investimento, cosa non sempre facile. Continueremo a lavorarci: la strategia del Ministero del Lavoro ha trovato riscontro nel nuovo PON Occupazione e ci saranno sicuramente spazi per coinvolgere molte più aziende e per avere un impatto anche sul welfare aziendale.

Oggi, senza titubanze, possiamo dire che la vision era giusta: esiste infatti un legame tra le esigenze di recupero di produttività delle aziende e le esigenze di equilibrio vita-lavoro. Questa relazione però non è automatica e non tanto perché il rapporto è squilibrato a favore delle aziende, magari fosse solo questo il problema. Anzi, il connubio è positivo quando si prova a tenere in considerazione entrambe le esigenze, quelle di flessibilità delle imprese e quelle delle persone (approccio win win). E questa cosa è più facile se in azienda c’è una presenza di donne che supera il 30% degli addetti. Il punto è che quando ci si presenta alle aziende bisogna provare ad alzare lo sguardo e capire quale sia il problema di carattere organizzativo, non semplicemente prospettare soluzioni circoscritte, favorevoli per la conciliazione. Perché gli innesti positivi che abbiamo trovato sono tanti e rispondono sempre a problemi di carattere più generale. Questo vuol dire che forse dobbiamo cambiare l’approccio ai problemi e considerare il tema dell’equilibrio vita-lavoro come uno dei fattori della cosiddetta “flessibilità ricca”, per cui l’impresa si adatta ai cambiamenti del mercato non con l’abbattimento dei costi e l’irrigidimento dei tempi di lavoro ma puntando sul rinnovamento dei processi interni, sul coinvolgimento e l’apprendimento delle persone, sul lavoro di gruppo e sulla ricerca di convergenza tra produttività, competitività ed esigenze delle persone.

Quindi, per ottimizzare gli interventi ispirati al binomio produttività ed equilibrio vita-lavoro bisogna tenere insieme più dimensioni. Ne propongo alcune che abbiamo avuto modo di verificare nella nostra esperienza.

1. L’identificazione di nuovi orari, i mutamenti nei sistemi di turnistica, le modifiche organizzative o l’adozione di piani di welfare aziendale, se passano per un coinvolgimento diretto dei lavoratori e delle lavoratrici consentono effettivamente di inserire anche le esigenze di cura o in generale altre esigenze di equilibrio vita-lavoro. La partecipazione è inoltre indispensabile per far capire dove si sta andando e perché. Molte aziende, infatti, richiedono più flessibilità in relazione alle esigenze del mercato e gli obiettivi di carattere strategico ed operativo devono essere condivisi. E’ importante poi incrociare le preferenze dei lavoratori e delle lavoratrici e le esigenze aziendali. Nulla può essere dato per scontato ma è preferibile agire nella consapevolezza che le esigenze e le opzioni organizzative possono essere le più diverse e a volte poco prevedibili. Condividere è cosa diversa da comunicare o da informare.

2. Le soluzioni non sono standardizzabili. Gli esiti positivi delle misure adottate sono strettamente legati alla capacità di costruire interventi mirati, di partire da esigenze specifiche, dai dati e dalle informazioni di dettaglio sui processi di lavoro, sull’organizzazione, sui ruoli, etc. E’ pertanto necessario procedere sempre prioritariamente con una fase di diagnosi dei processi produttivi, delle mansioni dei lavoratori e quindi successivamente prevedere uno o più piani di intervento coerenti con gli obiettivi di flessibilità e conciliazione che si intendono raggiungere. La selettività è cosa diversa dagli interventi a pioggia o da semplici sostegni finanziari per l’innovazione organizzativa o le azioni positive.

3. La polivalenza aiuta i processi di innovazione perché una maggiore sostituibilità dei lavoratori e delle lavoratrici consente di ampliare le opzioni di flessibilità organizzativa e oraria delle aziende; un maggiore grado di fungibilità tra i lavoratori consente di adottare schemi orari più flessibili a beneficio dell’azienda e degli stessi lavoratori. Al contrario la forte specializzazione, a volte la presenza di figure professionali “insostituibili”, rende necessariamente più rigida l’organizzazione. Polivalenza è cosa diversa dal demansionamento. Forse sarebbe il caso di sottolineare maggiormente questa importante differenza e considerare il cambio di mansioni come un valore per la crescita professionale delle persone individuando, caso per caso, soluzioni contrattuali specifiche. E utilizzando allo scopo i Fondi interprofessionali.

4. Il welfare aziendale non dovrebbe essere sganciato dai processi di riorganizzazione. Le aziende nel corso degli ultimi anni hanno espresso un grande interesse nei confronti dello sviluppo di piani di welfare aziendale. È innegabile constatare che le potenzialità di “defiscalizzazione” che la normativa italiana prevede per determinati beni e servizi conferiti ai lavoratori costituisce un grande ambito di curiosità per le aziende che vedono in questo la possibilità di ridurre “legalmente” il costo del lavoro. Se ad un nuovo schema orario o organizzativo si affianca anche un piano di benefits, questo sarà sviluppato con maggiore motivazione e responsabilità, producendo quell’ulteriore valore aggiunto in termini di produttività, benessere, miglioramento del clima aziendale, riduzione dell’assenteismo. Particolarmente interessanti nell’ambito del progetto sono stati, ad esempio, i casi in cui le fonti di finanziamento del piano di welfare sono derivate da una riduzione degli sprechi, identificati insieme ai lavoratori e alle lavoratrici. Il welfare aziendale collegato alla innovazione organizzativa è cosa diversa dai piani di welfare per distribuire benefits. A riguardo aiuterebbe molto una piccola modifica alla legislazione attuale per rendere tutte le misure di welfare contrattuali e non solo alcune, come prevede oggi la normativa visto che sono, in genere, concepite come liberalità da parte del datore di lavoro.

5. Prevedere delle misure selettive e non a pioggia – come è stato già evidenziato – è più difficile da realizzare ma è più efficace. Per farlo è necessario disporre di esperti capaci di offrire soluzioni sostenibili alle aziende medio-piccole. Questa attività consulenziale è parsa particolarmente preziosa per le aziende che hanno potuto beneficiare del supporto del progetto. A sua volta il progetto si è concentrato su dimensioni di imprese meno abituate ad accedere al sistema della consulenza organizzativa. Così come non esiste lo standard e c’è bisogno di soluzioni personalizzate, non esiste il consulente omni-comprensivo. Al riguardo ha funzionato molto la multidisciplinarità. Concentrarsi su questi temi presuppone la presenza di più competenze in grado di rispondere, in team, alle problematiche delle aziende.

6. Nel percorso di innovazione organizzativa è auspicabile che i rappresentanti dei lavoratori cooperino con la direzione aziendale. In particolare, è necessario che insieme siano coinvolti nella definizione delle regole (ma anche nella individuazione dei limiti) delle diverse opzioni organizzative e orarie, così come delle regole per l’accesso ai benefit del welfare aziendale, lasciando poi sul livello operativo la libertà di scelta e di preferenza dei lavoratori e delle lavoratrici. In alcune situazioni nel corso del progetto è parso difficile scindere il doppio livello (delle regole e dell’operatività), dato che i rappresentanti dei lavoratori e la direzione aziendale in molti casi si sono fatti interpreti anche delle esigenze specifiche dei lavoratori e delle lavoratrici non considerando le numerose opzioni e preferenze che questi possono esprimere (come evidenziato anche sopra). Esiste un livello in cui il sindacato può offrire un contributo determinante: a nostro avviso è quello delle rappresentanze aziendali dei lavoratori. Anche in questo caso crediamo ci sia bisogno di rafforzare le competenze di questo livello di rappresentanza di fronte a scenari sempre più complessi.

L’impresa comprende bene che cosa vuol dire diminuire le percentuali di assenteismo, diminuire i costi di turnover, diminuire gli sprechi, gestire le assenze per maternità, avendo la consapevolezza, specie per le piccole aziende, che la maternità è un costo. Agire tenendo conto di queste dimensioni può significare dare un senso diverso alle tutele e provare a renderle effettive tenendo in considerazione le esigenze di entrambe le parti. Cambiare linguaggio e cambiare approccio forse offre una nuova prospettiva per promuovere il lavoro delle donne.
 


Riferimenti

Il portale del progetto La.Fem.Me


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