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Il 23 giugno si è svolto a Washington il Working Families Summit, una sorta di grande evento sulla conciliazione organizzato dal White House Council on Women and Girls, dal Dipartimento del Lavoro e dal Center for American Progress (CAP) per individuare strategie di policy con cui riformare il mondo del lavoro adeguandolo alle esigenze della società contemporanea. Politici, imprenditori, sindacalisti, studiosi, associazioni e cittadini si sono incontrati per discutere di soluzioni che possano migliorare la vita dei genitori lavoratori e incrementare di riflesso la competitività dell’economia americana nei prossimi decenni. Un evento ricco di idee interessanti anche per noi, per quanto calato in un contesto sociale ed economico così diverso.

Una questione di genere?

Anche negli Stati Uniti il lavoro sta diventando sempre più centrale nella vita delle donne, che rappresentano oggi il 47%, ovvero quasi la metà, della forza lavoro totale e il 49,4 % dei redditi americani.

Non solo: le donne sono diventate il principale breadwinner nel 41% delle famiglie e co-breadwinner nel 23%, dati che dimostrano quanto una variazione del loro stipendio possa avere ripercussioni sulla sicurezza economica familiare. Infine, se consideriamo che il 59% dei titoli di laurea sono conseguiti da donne, è evidente come inglobarle adeguatamente nel mercato del lavoro sia essenziale in termini di capitale umano e competitività.

Ciononostante, molti ambienti di lavoro non si sono adeguati ai tempi e troppe donne guadagnano ancora molto meno rispetto ai colleghi uomini, oltre a scontrarsi con barriere ineguali negli avanzamenti di carriera: detengono solo il 4,6% dei vertici e il 16,9% dei consigli di amministrazione nella lista delle aziende di Fortune 500 e il 17% delle posizioni senior di tutto il Paese.

Conciliazione e flessibilità

La prima via per supportare le famiglie che lavorano viene identificata nella flessibilità, così poco diffusa da essere definita una “vincita alla lotteria”. Che si tratti di orario flessibile, di telelavoro o di un’agenda flessibile, queste politiche aiutano lavoratrici e lavoratori a organizzare meglio i propri tempi, riducono l’assenteismo e aumentano la produttività. Lo dimostrano diversi studi: la produttività negli anni a venire non si conseguirà aumentando le ore di lavoro, ma migliorando i rendimenti dei lavoratori.

Il tema della flessibilità è particolarmente importante in un paese dove molti lavoratori (e il 70% dei lavoratori low-wage) non hanno accesso a permessi retribuiti e assentarsi dal lavoro significa perdere parte dello stipendio. Gli Stati Uniti rimangono la sola nazione industrializzata a non prevedere il congedo di maternità retribuito, e la sola economia avanzata che non garantisce il diritto all’indennità di malattia. L’accesso a questi diritti è ancora fortemente dipendente dal tipo di lavoro, penalizzando le mansioni poco qualificate, e dal settore di impiego (ad esempio, nel settore della ristorazione più del 70% non ha accesso alle indennità di malattia).

Ecco perché si stanno cercando strategie per garantire ai lavoratori permessi retribuiti (per motivi familiari, cure mediche o per malattia). Il Dipartimento del Lavoro ha annunciato nuove ricerche e nuovi finanziamenti per supportare gli Stati nell’istituzione di Paid Leave Programs statali, sulla scia dei casi di successo come New Jersey e California. I due Stati hanno implementato un programma di assicurazione per Paid Family Leave finanziato dai lavoratori attraverso piccoli contributi in busta paga che in cambio copre una parte di stipendio fino a sei settimane quando questi si assentano per motivi familiari. Un altro caso di successo il Telework Enhancement Act del 2010, che promuove il telelavoro nelle agenzie federali statunitensi.

Infine, molte aziende ed istituzioni offrono programmi di rientro per persone che si sono assentate dal lavoro per lunghi periodi, aiutandole a reinserirsi nel precedente – o in uno nuovo – ambiente di lavoro.

Le esigenze di caregiving

Nonostante gli Stati Uniti non abbiano un welfare tradizionalmente familistico come quello italiano, anche qui la cura dei familiari costituisce un nodo importante, scaricandosi spesso sulla figura femminile. Negli ultimi quarant’anni si è assistito a un profondo cambiamento delle strutture familiari, tanto che se nel 1970 milioni di famiglie potevano contare su un caregiver familiare full time – generalmente una donna -, oggi in 3 famiglie su 5 entrambi i genitori lavorano. E’ inoltre in atto una revisione dei ruoli: in una famiglia su 5 il papà è il caregiver primario del proprio bambino, mentre la mamma lavora.

La non disponibilità di personale o di strutture per la cura dei bambini a costi accessibili – solo il 69% dei bambini di 4 anni frequenta una scuola per l’infanzia e come ha ricordato Barak Obama, in 31 Stati una childcare dignitosa è più costosa della retta del college – ha implicazioni negative perché limita le possibilità di ottenere, ma anche solo di cercare un lavoro. Lo stesso si può dire per gli anziani, per i quali è urgente perseguire una long term care sostenibile e di qualità, soprattutto per le donne, che in media vivono più a lungo ma hanno meno risorse economiche (consideriamo tra l’altro che il sistema pensionistico è meno generoso di quello italiano).

Il problema tenderà ad aggravarsi soprattutto per la cosiddetta “sandwich generation”, schiacciata tra la cura contemporanea di bambini piccoli e genitori anziani. La questione si pone non solo in termini di quantità, ma anche di qualità. Molto interessante in proposito è l’esperienza di care.com, un portale che funge da raccordo tra domanda e offerta di caregiving, proponendo soluzioni che vanno dalla cura del bambino a quella dell’anziano a quella della casa, con specializzazioni (dall’Alzheimer alla fisioterapia) e esigenze (dai trasporti alle pulizie e in generale allo svolgimento di commissioni) diversificate. Un modello, secondo la fondatrice Sheila Marcelo, che consente di professionalizzare il caregiving, mettendo a disposizione personale qualificato e affidabile, oltre che di legalizzare questo tipo di attività, spesso sotto-retribuite, prevedendo un salario almeno pari al salario minimo.

Stipendi ineguali e working poor

Le donne guadagnano poco rispetto agli uomini, circa 6.250 dollari in meno l’anno. Per ogni dollaro che guadagna un uomo bianco non ispanico, una donna guadagna in media 77 centesimi, rapporto che si abbassa a 64 centesimi per le donne afroamericane e 54 centesimi per le ispaniche. Si stima quindi che equiparando il salario medio maschile e femminile, il tasso di povertà delle famiglie di queste lavoratrici scenderebbe dall’8.1% al 3.9%.

Si tratta di un argomento che si inserisce nel dibattito in corso in questo periodo – ripreso più volte anche nel corso della giornata – sull’innalzamento del salario minimo federale dagli attuali 7,25$ a 10,10$, che diventerebbe allora particolarmente importante per le donne. Rappresentando queste (e soprattutto quelle di colore) quasi i 2/3 dei lavoratori sottopagati, alzare il salario minimo comporterebbe direttamente un impatto importante per colmare il gender gap. Certo, non è un problema solo femminile, ma che coinvolge molti lavoratori, in particolare in certi settori a bassa retribuzione, come quello della ristorazione e in alcuni Stati (se in Georgia il salario minimo si attesta a 5,15$, Louisiana e Mississippi non hanno neppure un salario minimo). Il fatto è che gli Stati Uniti – come del resto molti paesi europei, tra cui l’Italia – hanno sempre più working poor, cioè persone che pur lavorando non riescono a guadagnare abbastanza da garantire a sé e alla propria famiglia la sicurezza economica. Consideriamo infine che numerosi benefits, tra cui l’assicurazione sanitaria, i congedi parentali, ecc. sono correlati alla condizione occupazionale.

Le reti

Fondamentale appare la costruzione di reti e la collaborazione tra tutti gli attori sociali e le comunità, come ribadito dal Vice Presidente Joe Biden, che ha portato l’esempio del lavoro che i club e le varie associazioni come le YMCA svolgono nella cura dei bambini e dei giovani ragazzi dopo la scuola. Ma anche la collaborazione tra gli stessi lavoratori, come dimostra New Belgium Brewery Company, birrificio che prevede particolari politiche per i propri impiegati – che dal 2013 detengono la proprietà dell’azienda – offrendo ad esempio un programma di permessi retribuiti. E, infine, l’importanza di costruire reti tra le stesse aziende, come ha testimoniato Makini Howell, leader della Main Street Alliance, un network che riunisce le piccole imprese locali per promuove politiche pubbliche dal basso, socialmente responsabili e sostenibili. Il network è stato ad esempio uno dei promotori delle leggi che hanno istituito i permessi retribuiti per malattia (Seattle’s Landmark Paid Sick Days) e il salario minimo di 15$ (che si discute in questi giorni) grazie alla collaborazione tra piccoli imprenditori, sindacati, organizzazioni non profit e di comunità. Bisogna considerare, inoltre, che il sistema di rappresentanza sindacale americano è molto più articolato e frammentato, oltre che meno influente. Su 100 lavoratori, infatti, solo 11 sono iscritti a un’associazione di categoria e la percentuale di iscritti nel settore privato fatica a raggiungere il 6%.

Diffondere una nuova cultura

Infine, è necessario promuovere un radicale cambiamento culturale. Un ambiente “family friendly” non è solo il frutto di politiche adeguate, ma anche di una mentalità che invece si scontra ancora troppo spesso con resistenze culturali, soprattutto in un modello economico come quello statunitense. Concetti consolidati come che cosa costituisce “lavorare duro”, quanto tempo deve essere speso in ufficio, o la divisione dei ruoli, possono influenzare il giudizio sui lavoratori nel posto di lavoro. Gli stereotipi di genere, ad esempio, trattengono molti uomini dall’usufruire dei permessi di cui potrebbero già disporre per la cura dei figli. Infine, l’idea che queste politiche per essere efficaci debbano essere aperte a tutte le famiglie, comprese quelle composte da genitori omosessuali, già riconosciute a livello federale oltre che in molti dei singoli Stati.
 

Riferimenti

Il sito internet del Working Families Summit

Working Families National Toolkit

Employment status of women by presence and age of youngest child, March 1975–2010

 

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