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Meno welfare agli immigrati, anche quelli che provengono da altri Paesi UE. Con questa proposta, David Cameron ha lanciato da qualche mese un attacco alla libertà di movimento dei lavoratori, uno dei pilastri portanti del mercato interno e dell’intera costruzione europea. Le reazioni di Bruxelles e dei Paesi dell’Est sono state finora molto negative. Ma dalla parte del premier inglese potrebbe ora schierarsi uno strano «compagno di letto»: il Partito socialdemocratico tedesco. Durante le feste, la ministra Andrea Nahles (Spd) ha infatti proposto di escludere i migranti UE dai sussidi di disoccupazione per almeno un anno dopo il loro arrivo. Pochi giorni fa, Angela Merkel si è dichiarata d’accordo. Sulla scia della crisi dei rifugiati, l’opinione pubblica sta diventando sempre più tiepida rispetto alla politica delle porte aperte. Un recente sondaggio Ard rivela che oggi due terzi dei tedeschi vorrebbe chiudere le frontiere, dodici punti percentuali in più rispetto all’estate scorsa.

Come valutare le richieste britanniche ora in parte condivise da Berlino? I migranti intra-UE sono circa 14 milioni. La loro incidenza sulla popolazione autoctona è maggiore nel Regno Unito, in Germania, nei Paesi nordici e nel Benelux. I dati economici segnalano che per i Paesi riceventi i benefici in termini di tasse e contributi sono superiori ai costi in termini di welfare. È però vero che, durante la crisi, in alcune aree geografiche e settori occupazionali vi è stata concorrenza diretta fra immigrati e lavoratori nazionali, soprattutto quelli con basse qualifiche. In molte città del Nord Europa le comunità di polacchi, romeni, bulgari si concentrano in alcuni quartieri, rendendo particolarmente visibilià la loro diversità linguistica, culturale, spesso di costumi. E non sono mancati casi di opportunismo e frodi nella fruizione delle prestazioni sociali. Come ben sappiamo, si trattadi fenomeni che riguardano anche i nativi. Ma quando i protagonisti sono gli immigrati, lo scalpore è più alto. 

Gli elettori nazionali tendono a non distinguere fra migranti intra o extra-UE e sovrappongono gli effetti dell’integrazione europea con quelli più generali della globalizzazione. I partiti euroscettici sfruttano questa confusione, cavalcano e spesso istigano paure e diffidenze, diffuse in particolare fra i cittadini economicamente più vulnerabili. Per ora, nella maggior parte dei Paesi riceventi i favorevoli a mantenere le  porte aperte ai migranti intra-UE sono ancora la maggioranza, intorno al 51%. Ma i margini sono stretti, e rispetto a due anni fa il calo è stato massiccio. 

A oggi, il diritto UE vieta le disparità di trattamento fra nazionali e non nazionali. Che piaccia o no, Bruxelles dovrà però rassegnarsi ad ammorbidire qualche regola. Bilanciare la salvaguardia fra libertà di movimento e il «cattivo umore» degli elettori non sarà certo facile. Le richieste di Cameron (quattro anni di attesa prima di aver diritto al welfare) sono eccessive. La soluzione sta nel mettere a punto percorsi di accesso differenziato. Ai migranti che s’inseriscono da subito nel mercato del lavoro andrebbero riconosciuti, come oggi, pari diritti dal primo giorno. Per i migranti senza lavoro, i non attivi e i familiari a carico (soprattutto se restano nei Paesi di origine) si dovrebbero invece ammettere limitazioni. L’Unione Europea non è solo uno spazio economico, è anche un insieme di «case nazionali» con proprie tradizioni di solidarietà e pratiche di condivisione sociale. Almeno in una prima fase, è comprensibile che il migrante UE non venga percepito come concittadino, anche se ha un lavoro. L’essenziale è che non venga respinto, né trattato come un intruso o, peggio ancora, sfruttato: salari più bassi, lavoro irregolare, inadeguata tutela sindacale e così via. Questa è la linea rossa che non deve essere oltrepassata. 

In gioco non è solo la salvaguardia del mercato unico (libertà di circolazione), ma anche il legame fra il progetto europeo e i valori dell’eguaglianza e della pari dignità. La lingua inglese ha una apposita parola per denotare chi non è più straniero ma non è ancora un cittadino a pieno titolo: denizen. Per chi si trova in questa condizione, le regole da imporre sono quelle dell’ospitalità fra vicini, basate sulla reciprocità e la buona condotta. Da parte di chi viene ospitato, ma anche di chi ospita.