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La fotografia del mercato del lavoro diffusa dall’Istat segnala una tendenza preoccupante: l’occupazione femminile è ferma. Anzi, nel mese di febbraio quasi 50.000 donne sono diventate inattive per «scoraggiamento». Difficile trovare un posto, ma ancor più complicato conciliare le esigenze familiari con un eventuale lavoro. Le donne che restano intrappolate nella famiglia sono 2,3 milioni. Il 40 per cento possiede un diploma superiore o una laurea: uno spreco enorme di abilità e talenti. Soprattutto al Sud, dove risiede quasi la metà delle scoraggiate.

Sui circoli virtuosi del lavoro femminile si discute ormai da un decennio. Banca d’Italia stima che se l’Italia avesse il tasso di occupazione medio Ue il Pil farebbe un balzo in avanti di 7 punti. Eppure niente. È vero, abbiamo una struttura produttiva particolare: piccole imprese dove una maternità può creare seri problemi, un’economia dei servizi ancora poco sviluppata. I pregiudizi e gli stereotipi di genere, le pratiche discriminatorie sono ancora molto diffuse e radicate. Ma il vero, grande problema è la conciliazione. Mancano servizi che consentano a madri e figlie di «esternalizzare» almeno in parte il lavoro di cura. Ciò vale soprattutto per l’assistenza agli anziani, sempre più longevi ma spesso non più autosufficienti. Le famiglie che si prendono cura in modo diretto e continuativo di un parente anziano sono il doppio rispetto alla Svezia. Se ci sono anche i figli il carico aumenta esponenzialmente. Dopo la maternità, una donna su quattro rinuncia al lavoro. I padri (quelli giovani) hanno cominciato a collaborare, ma il tempo di cura delle donne è ancora più del doppio rispetto a quello dei loro partner.

Promuovere seriamente l’occupazione femminile ha un costo. Bisogna finanziare servizi sociali, congedi parentali (compresi quelli dei padri), incentivi fiscali e così via. Non deve fare tutto lo Stato, può dare un contributo significativo anche il secondo welfare, capace di mobilitare risorse private. Ma non facciamoci illusioni, servono anche fondi pubblici, e soprattutto una regia da parte del governo.

A metà degli anni Duemila alcune lungimiranti ministre delinearono un’«agenda donne» che è poi diventata un fiume carsico. Ogni tanto sparisce e anche quando c’è non riesce a dare frutti. Solo parole, neppure troppo entusiaste e sempre accompagnate dal solito ritornello, i vincoli di bilancio. Per altri scopi, non altrettanto virtuosi, le risorse si sono però trovate: svariati miliardi di euro per le famose deroghe pensionistiche e per tagliare le imposte sulla casa. L’«agenda donne» è sprofondata sotto terra, una scelta che contrasta non solo con le politiche da tempo attuate in altri Paesi, ma con le stesse raccomandazioni Ue.

Promuovere la conciliazione e, per il suo tramite, l’occupazione femminile è per l’Italia un enorme investimento sul futuro. Il lavoro delle donne accresce la prosperità e, col tempo, crea nuovi posti di lavoro. È inoltre dimostrato che la frequenza di asili nido e scuole materne di buona qualità consentirebbe ai nostri figli e nipoti di realizzare, domani, tutto il loro potenziale. Ma l’investimento in servizi genera anche benefici immediati. Il reddito della famiglia aumenta, le donne riescono finalmente a realizzare la loro doppia aspirazione: essere al tempo stesso madri e lavoratrici. Possibile che la politica non capisca e non si impegni? È un caso abnorme, in Europa, di miopia collettiva, di autolesionismo. Che va al più presto superato.


Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 2 aprile.