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Nel suo “Rapporto sulla sostenibilità fiscale 2015” Bruxelles evidenzia, ancora una volta, che la tenuta dei conti pubblici del nostro Paese, nel medio periodo, è garantita principalmente da tre elementi: l’avanzo primario (che il Governo indica, in media, pari al 3% nel periodo 2015-2019), la crescita del Pil e, scrive la Commissione, «la piena attuazione delle riforme pensionistiche adottate in passato», cioè quella approvata a fine 2011 dal Governo Monti. La riforma Fornero (241/2011), ha infatti assicurato un contenimento della spesa di 68 miliardi entro il 2020, al netto dei 12 miliardi impegnati per le salvaguardie degli esodati. Ma nonostante questo, l’attenzione della Commissione sulla “partita pensioni” è sempre molto alta. Perché? Vediamo alcuni numeri.

Il primo dato preso in esame dall’UE è il rapporto della spesa per pensioni sul Pil. Nel 2015 il rapporto comincia a decrescere principalmente per effetto di due fattori: ripresa del prodotto interno e del graduale innalzamento dei requisiti d’accesso alla pensione, restando comunque uno dei livelli più alti in Europa.

Le riflessioni su questo dato non mancano. Cesare Damiano, Presidente della Commissione Lavoro alla Camera, controbatte: «Vorremmo che i conti sull’incidenza della spesa previdenziale sul Pil, fossero depurati dai 43 miliardi di tasse pagate nel 2013 sulle pensioni e dagli esborsi per l’assistenza. Si scoprirebbe che il 15,3% calcolato dall’Istat scenderebbe al 10,7%, allineando la nostra spesa a quella degli altri Paesi europei». La discussione circa la separazione previdenza-assistenza nella spesa dell’Inps, come evidenzia anche il "3° Rapporto sul “Bilancio del Sistema Previdenziale Italiano", che sarà presentato il 17 febbraio alla Camera dei Deputati, è ancora aperta (e meriterebbe più attenzione).

Se il rapporto spesa/Pil è comunque in discesa, la spesa per pensioni presenta, all’opposto, un trend di crescita. Nel 2015, le prime stime della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, indicano che la spesa per pensioni sarà pari a circa 258,9 miliardi. Nel 2016 la spesa dovrebbe arrivare a 261,9 miliardi, per giungere i 282,4 miliardi nel 2019. Più 20 miliardi di euro nei prossimi tre anni, anche con legislazione invariata. Un andamento, di fatto, fisiologico per il graduale raggiungimento dei requisiti per la pensione dei “baby boomers”. Cambiare le regole fissate dalla Riforma Fornero, che, unite alle riforme precedenti, permettono una minore incidenza della spesa per pensioni di circa 60 punti di Pil fino al 2050, rischia di generare un ulteriore incremento della spesa e, quindi, minore sostenibilità dei nostri conti pubblici, ha avvertito l’UE.

Addio flessibilità in uscita, dunque? Forse ancora no, le proposte ci sono. La Commissione Lavoro della Camera ha studiato un meccanismo di flessibilità che prevede l’uscita anticipata, con penalizzazione sull’assegno entro un tetto massimo dell’8%: «siamo in grado di dimostrare che è a costo zero e che anticipando la pensione di 4 anni (con 35 di contributi), si possono, con il turnover, aprire le porte delle aziende ai giovani», sostiene l’ex Ministro Damiano. Sul piatto anche la proposta del Presidente Inps Boeri, che propone una pensione anticipata con correzione attuariale sull’assegno a 63 anni e 7 mesi di età, 20 anni di contributi e avendo maturato un importo minimo di 1.500 euro. La partita è più che mai aperta e si gioca su più tavoli: separazione previdenza-assistenza, bisogno di flessibilità e necessità di crescita. Quale sarà l’esito?

Questo articolo, firmato da Alberto Nalin, è stato pubblicato anche sul portale Il Punto, cui va il nostro ringraziamento per la possibilità di riproporlo sul nostro sito in forma integrale.