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I sistemi pensionistici pubblici funzionano in modo diverso dalle assicurazioni private. Non si limitano a restituire i contributi versati, in base a calcoli attuariali, ma svolgono importanti funzioni di solidarietà fra gruppi sociali, fasce di reddito, generazioni. E si sforzano di tutelare l’adeguatezza delle prestazioni rispetto alle esigenze di vita del pensionato, come recita anche l’art. 38 della Costituzione. C’è però solidarietà e solidarietà. In una sentenza del 1995 che ha fatto scuola, la Corte di giustizia europea ha chiarito che si può correttamente parlare di solidarietà quando la redistribuzione si dirige dalle categorie più abbienti a quelle meno abbienti, dai gruppi sociali più forti a quelli più deboli. Sia la Corte, sia le istituzioni Ue hanno poi sempre insistito sull’equità intergenerazionale.

Nel sistema pensionistico italiano la solidarietà ha a lungo funzionato alla rovescia. La vecchia formula retributiva avvantaggiava di fatto alcune categorie «forti»: i dipendenti pubblici (pensiamo alle pensioni baby), molti dipendenti privati che si ritiravano dal lavoro in anticipo (pensioni d’anzianità), in generale le fasce di lavoratori con redditi più elevati. D’altro canto, l’importo delle pensioni più basse è a lungo rimasto inadeguato – almeno rispetto agli importi minimi previsti negli altri Paesi Ue. Bisogna resistere alla tentazione di «colpevolizzare» chi è andato in pensione con le norme vigenti nel passato, pensate in un contesto economico e demografico completamente diverso da quello di oggi e in parte connesse ad alcune patologie storiche del nostro sistema politico-partitico. È inutile piangere sul latte versato, adesso è urgente riflettere sul presente e sul futuro. Le riforme degli ultimi vent’anni (compresa quella di Elsa Fornero) hanno cercato di sanare le vecchie distorsioni, nel rispetto dei vincoli di bilancio. Quando la formula contributiva entrerà a regime, il sistema italiano sarà stato quasi interamente bonificato dalla sindrome della solidarietà alla rovescia. Restano però alcuni problemi. Innanzitutto le vecchie norme si rifletteranno ancora a lungo sui trattamenti in pagamento e sulla loro distribuzione fra fasce di reddito. Per fare solo un esempio, l’Italia è il Paese Ue che ha il più alto numero di pensioni superiori a 3.000 euro netti al mese, non interamente sorrette da contribuzione individuale.

E poi c’è il problema dei giovani. In teoria la formula contributiva garantirà trattamenti adeguati in base agli standard europei (circa il 70% della retribuzione). Ma tutto dipenderà dalla capacità di versare i contributi. In un mercato del lavoro flessibile, ciò non sarà facile, a meno che non si introducano regole volte ad attenuare il rischio di discontinuità. Il principio di solidarietà vorrebbe che tale rischio fosse condiviso da una platea molto ampia. Il saldo della gestione separata Inps (quella dove fino ad oggi sono confluiti i contributi relativi ai vari contratti «precari» dei nostri giovani) è da anni in forte attivo e potrebbe costituire una preziosa riserva per aiutare chi accumula buchi contributivi. Ma il surplus viene utilizzato per compensare il deficit delle gestioni in passivo, quelle che erogano il grosso delle prestazioni retributive a chi è già in pensione. Dai deboli ai forti, di nuovo.

La sentenza della Consulta ha aperto una controversia spinosa e delicata. A differenza di precedenti sentenze, questa volta i giudici hanno scelto (perché di una scelta si tratta) di non considerare il quadro generale del nostro sistema previdenziale e del nostro bilancio pubblico. A stupire, in particolare, è una delle motivazioni della sentenza: il blocco dell’indicizzazione sarebbe illegittimo non perché i diritti quesiti sono incomprimibili anche in presenza di una emergenza finanziaria, bensì perché il provvedimento incriminato non avrebbe fornito documentazione sufficiente a comprovare tale emergenza (sic). Il governo si trova ora costretto a un difficile atto di equilibrismo. Occorre bilanciare fra loro principi e vincoli trascurati dalla Corte e al tempo stesso evitare contrapposizioni fra gruppi sociali, fra «ragioni» e «torti» che non sono assoluti, ma relativi e che discendono dal percorso di sviluppo tortuoso e squilibrato del nostro welfare. Il governo prenda tempo, eviti strategie «giustiziere» e il linguaggio delle colpe e dei privilegi. Ma difenda le prospettive dei giovani e chiarisca che, d’ora in poi, le politiche di solidarietà dovranno funzionare nella direzione corretta. Dall’alto verso il basso, dai forti ai deboli, e non viceversa.

Questo articolo è comparso anche su Il Corriere della Sera del 14 maggio 2015

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