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Su La Lettura, supplemento domenicale del Corriere della Sera, Maurizio Ferrera riflette sul volume "Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato" di Albert O. Hirschman. Ormai divenuto un classico, e ora riproposto da Il Mulino arricchito da una introduzione di Angelo Panebianco, questo saggio si propone di dimostrare agli economisti l’utilità di accogliere indicazioni provenienti dalla politologia, delineando un reticolo concettuale (lealtà-defezione-protesta) capace di spiegare in modo unitario i comportamenti in risposta a fenomeni di crisi di diverso tipo: nelle aziende, nei servizi, nei partiti, negli Stati. Un modello ancora valido per capire le difficoltà di oggi. Hirschman, economista ebreo nato a Berlino nel 1915, lasciò la Germania dopo l’avvento al potere di Hitler. Nel 1940 si trasferì negli Stati Uniti, dove insegnò nelle più prestigiose università: Columbia, Harvard, Princeton. Autore di molti saggi famosi, ebbe anche importanti incarichi istituzionali. 

 

Negli anni Sessanta, Albert Hirschman si occupava di economia dello sviluppo. Riflettendo sulle vicende della Nigeria, lo studioso della Columbia University s’imbatté in uno strano fenomeno. Nonostante una serrata competizione con l’auto-trasporto privato, le ferrovie nigeriane funzionavano sempre peggio. I treni erano di proprietà pubblica, ma Hirschman notò che l’insuccesso della concorrenza era dovuto a una sindrome più generale. La clientela sensibile alla qualità poteva “defezionare” e servirsi degli autobus. Gli utenti dei treni restavano molto numerosi, ma erano poco esigenti. Senza defezioni di massa né proteste organizzate, il management delle ferrovie non si curava perciò di qualità o efficienza.

Qualche anno dopo l’esperienza africana, Hirschman scrisse un breve libro che lo rese famoso non solo agli scienziati sociali ma anche al grande pubblico: Exit, Voice and Loyalty, ora apparso in italiano con il titolo Lealtà, Defezione e Protesta. Di fronte al deterioramento di un servizio, un’associazione privata, un’organizzazione politica e così via, il consumatore/cittadino ha davanti a sé due opzioni: uscita (la defezione) o voce (la protesta). La scelta dipende essenzialmente da un terzo fattore: il grado di attaccamento, anche emotivo, verso l’entità di riferimento. Se c’è “lealtà”, il costo della defezione è più elevato: invece di abbandonare il campo, il consumatore/cittadino preferisce protestare, sperando che le cose migliorino.

Nella sua ossatura, il modellino di Hirschman è estremamente semplice. Rispetto ad altre opposizioni binarie (pensiamo a “dentro-fuori” oppure alle espressioni inglesi “walk-talk” – andarsene o discutere – o “flight-fight”, fuggire o combattere), la triade di Hirschman ha almeno due pregi. Innanzitutto, distingue chiaramente fra una dimensione orizzontale (l’uscita come movimento spaziale fra un dentro e un fuori) e una dimensione verticale (la voce come manifestazione di scontento verso chi “sta in alto”). In secondo luogo, la triade suggerisce che la scelta fra defezione e protesta non è arbitraria, ma legata al filtro della lealtà. Insomma: il modello è semplice, ma la sua articolazione interna lo rende “magico”, come ebbe a dire il grande politologo norvegese Stein Rokkan.

Il modello è stato nel tempo variamente arricchito: a defezione e protesta si sono aggiunte altre opzioni. La prima è il “silenzio”, come quello degli utenti che continuavano ad usare gli scalcagnati treni nigeriani. A ben guardare, il silenzio è la vera alternativa sia all’uscita che alla voce. Di fronte al deterioramento qualitativo, non si sceglie immediatamente fra defezione e protesta, ma fra entrambe e il silenzio, il non far nulla. Hirschman potrebbe rispondere che il silenzio è la massima espressione di lealtà: right or wrong, my country, dicevano gli ufficiali di marina ai tempi della Rivoluzione americana. Ma possono esserci ragioni diverse. Spesso non si reagisce perché il deterioramento qualitativo non è percepito, oppure non c’interessa. E possono darsi anche forme di silenzio “frustrato”. A metterle in luce è stato un politologo canadese, Anthony Birch, sulla base di un esperienza personale. Quando ero in ospedale, raccontò Birch, spesso mi veniva voglia di alzare la voce per i molti disservizi subiti. Ma non osavo farlo, per paura che medici e infermiere poi mi trattassero ancora peggio. Il silenzio, in altre parole, può essere motivato dalla paura di ripicche. La lealtà in questo caso non c’entra, si tratta piuttosto di un calcolo interessato.

Un’altra possibile opzione è l’entrata, come corrispettivo dell’uscita. Hirschman la cita nel libro ma non ne intuisce in pieno la rilevanza, anche come possibile reazione a situazioni di (presunto) declino qualitativo. In politica internazionale, le invasioni territoriali da parte di eserciti stranieri sono state spesso esplicitamente giustificate in termini di slealtà o di incapacità dello Stato aggredito nello svolgere le proprie funzioni (failing states). Oppure pensiamo ai flussi migratori. In questo caso vi sono sia “uscite” dai Paesi d’origine, sia “entrate” nei Paesi riceventi, le quali a loro volta possono provocare la protesta dei nativi. I fenomeni migratori presentano poi varie opzioni miste: si può protestare per uscire, oppure per restare. Tornando sul suo modello dopo la caduta del Muro di Berlino, Hirschman stesso mise in evidenza una interessante sequenza. Dapprima vi furono le proteste di molti cittadini tedeschi che volevano emigrare all’Ovest, dopo l’aperura delle frontiere ungheresi: wir wollen raus, vogliamo uscire. Poi vennero le manifestazioni a Berlino contro il regime socialista da parte di quanti volevano restare: wir wollen bleiben. A patto che venisse instaurata la democrazia.

Una terza opzione (oltre a silenzio e entrata) aggiunta dal dibattito è infine l’“occultamento” (hiding). L’esempio emblematico è l’evasione fiscale, che è cosa diversa sia dalla fuga di capitali (uscita), sia dalle proteste o scioperi fiscali. Chi evade nascondere ciò che possiede, nel modo più “silenzioso” possibile. L’occultamento può essere scelto per molti motivi e da vari attori: gli oppositori di un regime autoritario, o gli immigrati clandestini.

Il modello di Hirschman non fornisce solo un lessico descrittivo, ma anche una base per elaborare teorie. In scienza politica, lo ha mostrato soprattutto Stein Rokkan, con i suoi importanti lavori sulla formazione degli stati nazionali in Europa. Questo processo è stato imperniato sulla “costruzione di confini” da parte di élite in cerca di potere. Impossibilitati ad uscire, i vari gruppi subalterni iniziarono ad alzare la voce, al fine di migliorare le proprie condizioni. Le élite reagirono concedendo diritti e promuovendo l’omogeneità linguistica e culturale dei cittadini, in modo da renderli più leali verso la nazione. Ricordiamo la famosa frase di Massimo D’Azeglio: “Fatta l’Italia, facciamo gli Italiani”.

L’integrazione europea funziona oggi in modo diametralmente opposto: rimuove le barriere e incoraggia la libertà di movimento, ossia le uscite e le entrate. Con ciò essa disturba però quelle istituzioni nazionali (come il welfare state) frutto di lunghe lotte sociali e proteste politiche. L’ondata euroscettica può essere vista come una reazione all’eccesso di apertura. Il Front National ha alzato la voce quando si è accorto che in Francia poteva entrare liberamente il famoso idraulico polacco: una minaccia al lavoro dei nativi. Dal canto suo la Brexit riflette la paura di molti inglesi nei confronti degli immigrati.

Lealtà, defezione e protesta è uno di quei rari “piccoli grandi libri” che influenzano il modo di pensare e di fare ricerca per lunghissimo tempo. Come ben dice Angelo Panebianco nella sua Introduzione, il modello di Hirschman è molto duttile, ci aiuta a decifrare una vasta gamma di situazioni sociali. Per questo è riuscito a conservare, a distanza di cinquant’anni, tutta la sua originaria freschezza.


Questo articolo è stato pubblicato su La Lettura del Corriere della Sera del 26 febbraio 2017 e riprodotto previo consenso dell’autore