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Il timore di molti analisti si è avverato. I dati Istat sull’occupazione relativi a febbraio 2016 sono una doccia fredda per il governo e per la valutazione sull’efficacia del Jobs Act e della decontribuzione. La paura era quella della fine del trend positivo delle assunzioni a tempo indeterminato una volta esauriti gli incentivi della legge di stabilità del 2015. Paura che sembrava sventata con i dati positivi di gennaio, celebrati come una conferma del cambio di rotta introdotto dalla riforma del mercato del lavoro. Ma a chi aveva seguito l’andamento annuale, e i dati dell’Inps relativi a gennaio, era già parso chiaro come i nuovi occupati di gennaio non erano altro che una coda statistica del grande boom occupazionale di dicembre 2015, ultimo mese in cui le imprese potevano utilizzare gli incentivi.

I numeri confermano proprio questo. Nel mese di febbraio si sono persi 97mila posti di lavoro, un calo dello 0,4%. Questo fa sì che il tasso di occupazione italiano, uno dei più bassi d’Europa, resti inchiodato al 56,4%, oltre due punti inferiore al dato pre-crisi, anch’esso già ai tempi molto basso. Ciò significa, considerando il dato della forza lavoro italiana, che nel nostro Paese oggi lavora una persona su tre. È facile cogliere le conseguenze sul welfare, sul sistema pensionistico e sui consumi.

La gravità di questi numeri è evidente analizzando i dati lungo le coorti anagrafiche. Sia nella fascia 25-34 che 35-49 anni si riscontra un ampio calo degli occupati, ben 125 mila in meno. È evidente che la crisi continua a colpire duramente proprio quelle persone che dovrebbero essere nella fase centrale del percorso lavorativo, con danni sociali ancora non chiaramente compresi. Infatti il trend non è un fulmine a ciel sereno, ma una costante che ha accompagnato le statistiche dell’ultimo anno, nel quale gli unici occupati in crescita sono gli over 50.

Venendo al Jobs Act e alla legge di stabilità notiamo come il maggior numero di posti di lavoro persi a febbraio è a tempo indeterminato, -92mila. Segno che l’intervento statale volto a convincere le imprese a utilizzare questo tipo di contratto non risponde oggi alle esigenze produttive contemporanee, caratterizzate da esigenze di dinamismo, flessibilità, progettualità alle quali il tempo indeterminato non sa dare una risposta convincente. Il New York Times ha riportato in questi giorni proprio un saggio di due importanti docenti statunitensi che conferma empiricamente che negli ultimi dieci anni le traiettorie del mercato del lavoro si sono mosse lungo la rotta degli “alternative work arrangements” come lavoratori a chiamata, lavoro tramite agenzia, freelancers ecc. Una volta ridotti drasticamente gli incentivi, quindi, sembra venire a meno per le aziende italiane il vantaggio di questo tipo di assunzione. Non sembra quindi avventata l’analisi dei ricercatori della Banca d’Italia quando sostiene che gli incentivi più che le norme sui licenziamenti hanno aiutato l’occupazione nel 2015.

Ma è sul fronte economico-finanziario che sorgono i problemi e le critiche maggiori. Secondo gli ultimi dati Inps, rivisti rispetto allo scorso mese, nel solo 2015 sono stati oltre 1,5 milioni i contratti di lavoro che hanno usufruito dell’esonero contributivo. Questo fa sì che, secondo le prime stime, nel corso del triennio 2015-2018 la decontribuzione costerà 19,5 miliardi, a fronte di una copertura prevista di 15 miliardi, generando un buco di 4,5 miliardi di euro che si somma agli allarmi che la stessa INPS sta lanciando da tempo rispetto alla sostenibilità del proprio bilancio. Tutto questo, già difficilmente giustificabile in una situazione positiva, è aggravato dal fatto che questo massiccio investimento non ha portato a una inversione di tendenza nel panorama delle assunzioni italiane, né dal punto di vista qualitativo né da quello quantitativo.

Si obietta spesso che senza questi incentivi non sarebbero state possibili neanche le nuove assunzioni. Non possiamo saperlo, e l’obiezione potrebbe anche essere fondata, ma questo non elimina la necessità ex-post di valutare se il gioco valeva la candela. E la risposta oggi appare drammaticamente negativa, confermando la dura realtà che una legge non può creare occupazione, ma può al massimo incentivare alcuni comportamenti degli attori economici. Comportamenti che restano tali unicamente ad incentivo in vigore, e che variano non appena questo si esaurisce.

Dire tutto questo non significa essere gufi. Questo è esattamente l’articolo che chiunque ha a cuore il mercato del lavoro italiano non avrebbe mai voluto scrivere, e non possiamo che sperare in una ripresa vera dell’occupazione. Non basta il nome Jobs Act per creare occupazione, basta vedere i dati sull’occupazione americana del 1 aprile 2016, che mostrano un panorama completamente diverso, con 215mila occupati in più e il 5% di disoccupazione. Il primo passo è quello di riconoscere cosa non va, cambiando rotta quando necessario e prendendo scelte coraggiose che non si esauriscono nell’arco di 12 mesi. Produttività, politiche attive, ricollocazione, formazione, contrattazione decentrata, sono queste le sfide che le istituzioni comunitarie continuano a chiederci. Forse dovremmo ritornare alle amate/odiate parole “ce lo chiede l’Europa”.

Questo articolo è stato pubblicato anche su Linkiesta.it; riprodotto su autorizzazione dell’autore.