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L’Italia è al terz’ultimo posto per la condivisione delle attività domestiche tra uomo e donna all’interno dei paesi Ocse. Le donne spendono mediamente più di 3 ore e 20 minuti, contro un’ora scarsa degli uomini. Peggio di noi fanno solo il Messico e il Giappone. Siamo invece tra i più virtuosi sul fronte della genitorialità condivisa: la differenza nel tempo di cura per i figli tra mamma e papà è di soli 12 minuti al giorno. Aggiungici genitori e suoceri che abitano sotto lo stesso tetto e il gap sale a 13 minuti: meglio di noi fanno solo la Svezia (8 minuti) e la Norvegia (6). È la fotografia che ci consegna l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico su 26 dei suoi paesi membri. I dati sono tratti dalle rilevazioni nazionali (per l’Italia l’Istat e la sua ultima indagine sull’uso del tempo): non inediti dunque ma molto interessanti perché, per la prima volta, mettono a confronto i paesi facendone emergere le differenze.
 

 

I numeri non ci premiano: nonostante il virtuosismo dei padri, l’Italia resta fanalino di coda nella condivisione del lavoro non retribuito considerato in tutti i suoi aspetti (non solo cura o faccende di casa ma anche spesa, spostamenti, ecc.): siamo al 21° posto, a tre ore di differenza come è noto, tra uomo e donna. Guardando agli uomini più virtuosi spiccano, invece, gli scandinavi: danesi (186 minuti di lavoro non retribuito al giorno) e norvegesi (180), seguiti da australiani (172 minuti), sloveni (166 minuti) e olandesi (163 minuti).

L’Ocse fa luce anche sulla differenza di genere nel lavoro retribuito. E i dati sono quasi sempre speculari a quelli relativi alla cura: gli uomini turchi lavorano 209 minuti al giorno in più rispetto alle donne turche, seguono il Messico (207), il Giappone (197), l’Irlanda (138) e il Portogallo (121). C’è più equilibrio invece nei paesi scandinavi: 40 minuti in Finlandia, 56 in Svezia, 64 in Danimarca e 65 in Norvegia. Ma anche negli Stati Uniti (61 minuti), paese in cui entrambi i partner tendono a lavorare full time e a “esternalizzare” la cura. E, un po’ a sorpresa, in Francia (57 minuti). L’Italia si posiziona malino: sedicesima su ventisei (il gap è di 101 minuti), peggio della Spagna (85 minuti) ma meglio dell’Olanda (114 minuti), due paesi agli antipodi per quanto riguarda la diffusione del part-time. I dati Ocse sono la prova del nove per capire in quali paesi sta prendendo piede quello che le analiste del welfare hanno da tempo definito come il modello dual earner – dual carer, dove cioè entrambi i componenti della coppia si dedicano – in egual misura – al lavoro e alla cura e che si fonda sull’idea di un’economia a full-time ridotto.

A quasi vent’anni dalla sua prima formulazione (con la filosofa femminista Nancy Fraser), quel paradigma resta ancora sostanzialmente sulla carta. Con poche eccezioni: guardando infatti a entrambi i dati sul “gap” (nel lavoro e nella cura), sono ancora una volta i paesi scandinavi ad avvicinarsi maggiormente all’equilibrio ideale. Fanno bene anche Stati Uniti e Canada. La Francia accelera sul lavoro retribuito (grazie alle 35ore) ma resta indietro rispetto alle mansioni di casa. La Germania si conferma tutto sommato conservatrice su entrambi gli aspetti (un’ora e quaranta minuti il gap sulla cura, un’ora e mezza quello sul lavoro). Sempre meglio però dell’Italia (tre ore la cura, un’ora e quaranta il lavoro).

I paesi bassi meritano una parentesi tutta loro. Nel 2000 infatti il governo promulgò il “Work and Care Act” con il quale incentivò il part-time lungo sia per le donne che (almeno sulla carta) per gli uomini spingendo il politologo Jelle Visser a definire l’Olanda la prima “part-time economy” al mondo. Era l’inizio di un laboratorio politico. Ma nonostante gli uomini olandesi siano oggi tra i più disponibili alla cura, un’attenta lettura dei dati ci spinge a ipotizzare che quella riforma non sia riuscita nel suo intento. Nel lavoro retribuito infatti lo squilibrio tra uomo e donna è enorme: 114 minuti a favore dei maschi portano l’Olanda al diciannovesimo posto nella performance, meglio solo di paesi come il Portogallo, l’Irlanda, il Giappone e il Messico. Che cosa ci dicono questi numeri? Che il lavoro part-time resta ancora una prerogativa quasi esclusivamente femminile e che la conciliazione vita-lavoro è, in sostanza, un affare per donne.

I Paesi Bassi servano da esempio: l’introduzione acritica del part-time, se non supportata da una rivoluzione culturale e organizzativa, non cambia davvero le cose. Tutt’al più, rafforza i ruoli tradizionali di genere. Con buona pace dei tempi condivisi.
 

* Questo articolo è stato pubblicato sul blog del Corriere della Sera "La Ventisettesima Ora" il 10 marzo 2014

 

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