6 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Il futuro del lavoro non è mai stato tanto arduo da prevedere. Può sembrare un’affermazione infondata: in fondo già altre volte, nel passato, si è passati attraverso trasformazioni di grande impatto che hanno modificato sostanzialmente le forme e il vissuto del lavoro.

È accaduto con il passaggio dall’agricoltura all’industria moderna, e poi si è ripetuto in occasione di ogni rivoluzione industriale. Eppure ogni volta la nascita di nuovi lavori – in settori diversi rispetto a quelli in cui l’innovazione tecnologica si è sviluppata, perché l’”effetto reddito” ha superato quello di sostituzione – ha finito per compensare nel medio-lungo termine l’estinzione di attività tradizionali – fossero quelle del maniscalco o del palafreniere – provocata dall’introduzione di nuove tecnologie.

Il più delle volte migliorando la stessa qualità delle condizioni di lavoro:
finora infatti i nuovi posti di lavoro che hanno sostituito quelli distrutti sono risultati generalmente migliori e meglio retribuiti di quelli che l’innovazione ha sostituito.

Gli effetti delle innovazioni tecnologiche

La certezza che l’automazione nel lungo periodo crei tanti posti quanti ne distrugge oggi però vacilla. Da qualche anno assistiamo a un fenomeno che genera un segnale d’allarme per l’occupazione. Le nuove tecnologie non si propongono più soltanto in sostituzione della forza fisica, risparmiando agli umani i lavori più pesanti e logoranti. Straordinari progressi nel campo dell’intelligenza artificiale consentono di sostituire funzioni che fino a poco tempo fa non si sospettavano automatizzabili. E le maggiori competenze richieste per produrre e gestire queste tecnologie riguardano un numero esiguo di posti di lavoro, con la conseguenza di un saldo negativo rispetto al quale non è affatto chiaro quale alternativa perseguire.

Sembrano temi futuribili, ma in realtà gli effetti di questa trasformazione sono già in atto. La lenta uscita dalla recessione sta avvenendo all’insegna di una crescita senza occupazione. A farne le spese sono i lavoratori industriali meno qualificati, sostituiti in fabbrica dai robot, ma anche la classe media impiegata nel settore dei servizi. Non è più solo l’impiegato allo sportello ad essere sostituito dal bancomat, ma è lo stesso analista finanziario che rischia di essere reso obsoleto da robo-advisor e nuove fintech.

Gli algoritmi intelligenti mettono le macchine in diretta competizione con gli umani per una serie di funzioni sempre più ampia e sofisticata. La sicurezza che guidare un automezzo – ed è solo un esempio tra i molti possibili – metta al riparo dalla globalizzazione, perché ci sarà sempre bisogno di conducenti, è scossa da un futuro ormai prossimo in cui il mestiere di autista potrebbe essere cancellato da veicoli a guida autonoma. Altro che la battaglia per salvare i conducenti di taxi dall’assalto di Uber…

Quindi la questione nasce da una profonda discontinuità, perché la tecnologia è entrata di prepotenza in un terreno che si pensava dominio riservato in via esclusiva alla capacità cognitiva degli umani. L’automazione che stiamo vivendo non segue la logica incrementale alla quale eravamo abituati e che ci aveva garantito il tempo necessario ad adattarci elaborando nuove competenze. I computer stanno dimostrando di emulare le nostre capacità, e in più casi persino a superarle, ad un ritmo sconvolgente.

Come gestire la transizione verso il "lavoro del futuro"

Le forme istituzionali ed organizzative, così come gli stessi paradigmi culturali, fanno fatica a prendere le misure di questa nuova realtà. Per rendersene conto un buon punto di osservazione è quello dell’International Labour Organization (ILO), l’agenzia delle Nazioni Unite che nella sua placida sede di Ginevra vive nell’equilibrio un po’ anacronistico delle sue tre componenti: rappresentanti governativi, sindacati e organizzazioni datoriali. Una tripartizione che sempre meno riesce a rappresentare le nuove dinamiche del lavoro, in cui la frammentazione e la precarietà della “gig economy” sembrano costituire la tendenza dominante.

Interrogarsi sul futuro del lavoro è quindi un’iniziativa decisamente opportuna, specie in vista dei festeggiamenti del centenario dell’ILO che sarà celebrato nel 2019. La riflessione ha mosso i primi passi con una conferenza dedicata al tema, alla quale Euricse ha partecipato come una delle poche organizzazioni invitate a portare la voce dell’economia sociale. Già questa sottovalutazione di un settore in costante crescita occupazionale è di per sé un indizio.

Di fronte alla questione di come gestire la transizione verso il lavoro del futuro gli schieramenti nella platea dell’ILO sono stati piuttosto prevedibili. Mentre tutti si sono detti d’accordo nel celebrare al passato le virtù del lavoro, che da costrizione imposta si è gradualmente evoluto nell’epoca moderna a strumento di emancipazione individuale, le analisi rivolte al futuro hanno preso direzioni divergenti. Di fronte alla sfida dell’automazione si sono levate molte voci che hanno invocato forme pubbliche di regolazione, vuoi come tassazione dei robot vuoi come enforcement di norme pubbliche rivolte a garantire la qualità del lavoro. Applicando schemi di pensiero alquanto tradizionali i fautori di queste soluzioni sembrano davvero credere nella possibilità rassicurante di ricondurre l’ignoto al noto, imponendo un freno al processo di sostituzione degli umani con le macchine. Peccato però che la storia dimostri la fragilità di questa impostazione, che non è mai riuscita ad imbrigliare lo sviluppo tecnologico nelle maglie degli interventi normativi.

Di contro, i meno persuasi che i processi di trasformazione tecnologica possano essere arrestati hanno argomentato a favore di forme di mitigazione dell’impatto della ristrutturazione del mondo del lavoro mediante meccanismi di redistribuzione del reddito. Con gradazioni diverse di volontarismo: dalla proposta, invero non molto argomentata sotto il profilo della sostenibilità economica, di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato fino all’idea, apparentemente meno visionaria ma in realtà più intrigante dal punto di vista concettuale, di introdurre degli schemi di profit sharing a partire da nuove forme di proprietà degli strumenti di innovazione tecnologica, per redistribuire l’automation dividend tra coloro che vengono minacciati dall’automazione. Anche in questo caso però, come per i sostenitori dell’intervento normativo di freno all’automazione, gli ostacoli non mancano, perché meccanismi di redistribuzione di questa natura non potrebbero funzionare su scala esclusivamente nazionale ma richiederebbero di essere introdotti a livello globale e con tempistica simile. E comunque non molto si è detto a Ginevra sulle forme che questi nuovi modelli di proprietà degli strumenti di innovazione tecnologica potrebbero assumere.

In ogni caso, quella che emerge da entrambi gli approcci è l’impressione che la riflessione sia ancora agli inizi e serva ancora un lungo processo di creazione dell’infrastruttura concettuale, regolativa, formativa, e istituzionale per inquadrare le nuove forme del lavoro. La tentazione di ricondurre all’interno delle categorie esistenti la sfida del futuro è ancora molto forte, e lo si avverte soprattutto nel modo in cui fenomeni come l’economia sociale non vengono quasi presi in considerazione.

Un nuovo ruolo per l’economia sociale e per la "care economy"

Eppure – in una prospettiva come quella che Euricse indaga – un’analisi non superficiale dei meccanismi di automazione aiuterebbe a mettere in luce come non tutte le competenze umane siano rimpiazzabili nel breve-medio termine da sistemi di intelligenza artificiale. Se sul fronte della pattern recognition la partita ormai sembra chiusa, non altrettanto vale per le capacità che riguardano problem solving e dimensione emozionale e creativa, che sono tratti cruciali di tutti i lavori basati su un ruolo importante dell’interazione umana. Ciò si traduce in opportunità di sviluppo nel settore dei servizi alla persona e sociali, intesi nel senso più ampio ed evolutivo. Un settore in cui la sfida oggi consiste nell’incrementare il valore delle attività high touch, gestendone la trasformazione in lavori con un più elevato contenuto di competenza, con una maggiore stabilità e con maggiori tutele.

La “care economy” è stata citata marginalmente nell’incontro di Ginevra, ma senza indagare più di tanto né la rilevanza che essa è destinata ad assumere, anche in termini economici e occupazionali man mano che aumenta la domanda pubblica e privata di servizi, né le implicazioni nei termini dei nuovi approcci organizzativi e imprenditoriali che potrebbero contribuire sostanzialmente a tracciare le prospettive del lavoro del futuro. Eppure più di uno dei problemi evocati nella conferenza ILO si presterebbe ad essere affrontato in una logica di economia sociale.

Si pensi alle potenzialità del modello cooperativo, soprattutto nelle forme delle cooperative di lavoro, nell’ambito delle attività ad alto contenuto relazionale e fiduciario come appunto i servizi di cura. Oppure si pensi anche alle potenzialità del modello cooperativo, come cooperative di consumo, in quanto possibile declinazione delle forme collettive di proprietà richieste per la realizzazione dei profit sharing scheme con cui ridistribuire il dividendo digitale. Una opportunità concreta, se solo si affrontasse il problema dal lato di forme originali di organizzazione per mantenere la proprietà dei dati individuali in capo ai cittadini, al fine di evitarne lo sfruttamento gratuito da parte delle grandi corporation del settore digitale, anziché inseguire queste sul terreno in cui primeggiano sognando di sostituirle con cooperative platform.

O si pensi ancora al tema del controllo della qualità del lavoro – il decent work che sta tanto a cuore dell’ILO – lungo le filiere internazionali di fornitura, in cui oggi prevale un meccanismo di sostanziale deresponsabilizzazione della grande impresa nei confronti del piccolo fornitore. Quando la supply-chain sposta la produzione in paesi in cui la tutela del lavoro è fragile, e la grande azienda committente rifiuta di assumersi la responsabilità dell’intera catena (benché non rinunci affatto ad esercitare il proprio controllo sui processi produttivi), l’enforcement di standard di lavoro decente può essere promosso a livello decentrato, supplendo alle carenze dei poteri pubblici con l’azione di organizzazioni intermedie di tipo cooperativo, che aiutino i soggetti locali a esercitare un potere negoziale nei confronti delle lead company.

Sono solo due esempi di come il dibattito sul futuro del lavoro potrebbe beneficiare di un approccio che tenga conto delle opportunità offerte dall’economia sociale. Il percorso è appena agli inizi: l’auspicio è che anche questa voce venga tenuta in conto.