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Per una volta si può parlare di partecipazione delle donne al mondo del lavoro in modo positivo: l’analisi del mercato del lavoro del Comune di Milano, sviluppata dal progetto EQuIPE 2020 di Italia Lavoro per conto del Ministero del Lavoro, ci restituisce l’immagine di una città laboriosa, produttiva e in movimento, con tassi d’occupazione femminile allineati a quelli dei maggiori paesi dell’Unione europea. Una fotografia che è possibile analizzare in tutti i suoi dettagli nel Rapporto A Milano il lavoro è donna. Il mercato del lavoro milanese in un’ottica di generecurato da Roberto Cicciomessere, Lorenza Zanuso, Anna Maria Ponzellini e Antonella Marsala. Di seguito gli autori ci propongono alcuni dei dati più interessanti che emergono dalla ricerca.

Secondo i più aggiornati dati dell’Eurostat del 2015, quasi 65 donne residenti a Milano su 100 sono occupate (64,9%): valori ancora distanti 5 punti percentuali dal tasso d’occupazione femminile della Germania (69,9%), di soli 3 da quello del Regno Unito (68%), ma superiori a quelli della Francia (60,6%), della media europea (60,4%), della Spagna (52,7%) e ovviamente dell’Italia (47,2%) (figura 1).

 

Figura 1. Tasso di occupazione femminile (15-64 anni) dei residenti a Milano e in alcuni paesi dell’Unione europea – Anno 2015 (%)
Fonte: Rapporto “A Milano il lavoro è donna”.

Quando in una città quasi tre quarti delle donne sono attive perché lavorano o cercano un’occupazione (70%), significa che non solo siamo molto più in alto del dato medio italiano (54%) – questo già si sapeva – ma anche di quello europeo (68%). Non solo, quando in una città le donne sono inferiori solo di un soffio alla metà di quelli che lavorano (48% donne, 52% uomini), significa in buona sostanza che dobbiamo ricostruire pazientemente tutta la nostra rappresentazione del “lavoratore”. Come siamo lontani ormai, ad appena mezzo secolo di distanza, dal “maschio bianco nel fior dell’età”, il fulcro del mercato del lavoro come era stato teorizzato dagli economisti americani negli anni Sessanta. Purtroppo questa divisione di genere del lavoro resiste ancora nella media italiana (42% donne e 58% uomini) e soprattutto nel disperante Mezzogiorno d’Italia (37% donne, 63% uomini).


Figura 2. Occupati (15-64 anni) per sesso dei residenti nel Comune di Milano e nelle ripartizioni – Anni 2008-2014 (%)
Fonte: Rapporto “A Milano il lavoro è donna”.

A Milano, inoltre, si è consolidato nella pratica il modello della coppia “dual earners (“si lavora in due”) – e in qualche caso anche “dual caregivers” (“ci si occupa dei figli in due”) – come base per le convivenze familiari. Anche se, alla fine, non è detto che tutte amino le convivenze: ben un quarto delle milanesi dopo i trent’anni sono infatti single. In effetti, l’altra faccia di questa operosità femminile – in barba alla tesi che vorrebbe valida anche per noi quella relazione positiva tra occupazione e figliolanza che si osserva nei Paesi nordici e in Francia – è un tasso di fecondità al palo. A Milano, moltissime donne lavorano ma di queste pochissime – meno della metà – hanno figli conviventi. Nel capoluogo lombardo, nonostante una dotazione dei servizi per l’infanzia pubblici e privati più ampia rispetto alla media italiana, non è una città children-friendly.

In ogni caso, questa analisi del mercato del lavoro di Milano ci racconta, innanzitutto, che è possibile avere in Italia tassi d’occupazione femminili simili a quelli delle maggiori capitali europee (ma non di Roma) (figura 3) e una qualità del lavoro delle donne superiore a quello di molti paesi nordici − le donne rappresentano la metà del capitale umano milanese e degli occupati nelle professioni ad alta qualificazione − perché nel capoluogo lombardo, diversamente da Stoccolma, le donne, soprattutto quelle più giovani, non svolgono solo i tradizionali lavori altamente femminilizzati nella pubblica amministrazione, nella sanità e nella scuola, ma anche quelli che in precedenza erano appannaggio maschile.

Le donne milanesi sono le tecniche dell’organizzazione e dell’amministrazione, dei rapporti con il mercato, delle attività finanziarie e assicurative (funzionarie di banca, agenti assicurative, perite, agenti di borsa e cambio), le specialiste in discipline linguistiche, letterarie e documentali (scrittrici, giornaliste, interpreti e traduttrici a livello elevato, linguiste, filologhe, archiviste, conservatrici di musei), le specialiste in scienze giuridiche (avvocate) e le tecniche informatiche, telematiche e delle telecomunicazioni. La stessa quota di donne libere professioniste sta raggiungendo velocemente quella degli uomini. D’altra parte le milanesi sono più scolarizzate – più spesso laureate e più spesso diplomate – dei loro colleghi uomini.

Queste stesse informazioni offrono precise indicazioni per le politiche del lavoro: sono troppo poche le donne che hanno trovato l’attuale occupazione, soprattutto tra le più qualificate, attraverso i canali formali d’intermediazione della domanda e dell’offerta, con un ruolo dei centri pubblici poco significativo. Ma anche l’offerta formativa rivolta alle donne deve tenere conto delle dinamiche storiche del fabbisogno professionale delle imprese, della sempre maggiore presenza di un terziario avanzato che richiede forte innovazione tecnologica, promuovendo il superamento delle subculture di genere che ancora dividono le discipline ad alto contenuto tecnico-scientifico rispetto alle discipline umanistiche.

Figura 3 – Tasso d’occupazione femminile (20-64 anni) in alcune grandi città d’Europa – Anno 2011 (%)
Fonte: Rapporto “A Milano il lavoro è donna”, p. 28.

Dal punto di vista delle professioni, il terziario milanese risulta però profondamente polarizzato. Ma, attenzione, non tra uomini e donne: la segregazione è invece tra autoctoni e stranieri (20% del totale delle donne che lavorano abitualmente a Milano). Perché uomini e donne italiani occupano i due terzi delle professioni ad alta qualifica e uomini e donne stranieri oltre la metà delle occupazioni non qualificate. Le milanesi autoctone risultano dunque prevalentemente knowledge workers e le straniere prevalentemente impiegate nei servizi domestici e alla persona. Questa polarizzazione degli status occupazionali è in parte derivante dai diversi livelli di scolarità, dal momento che la larga maggioranza delle italiane ha una laurea o un diploma, e la larga maggioranza delle straniere ha solo scuola dell’obbligo o un diploma.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che fenomeni di segregazione si registrano anche all’interno della stessa popolazione immigrata: una quota troppo consistente di donne di alcune cittadinanze sono segregate a casa nel lavoro familiare e probabilmente non conoscono neppure l’italiano. L’insegnamento della lingua, attraverso corsi che devono essere proposti dalle istituzioni pubbliche, è la prima misura per farle uscire dal disagio sociale e dall’inattività.

Tuttavia, non si può non riconoscere che Milano rappresenta un laboratorio avanzato per tutte le nuove tendenze (quelle positive ma non solo) ed è così anche per quel che riguarda il lavoro: elevata quota di lavoro femminile, alti livelli di scolarità e di qualificazione, quota elevata di lavoratori stranieri regolari. Non poteva non essere più avanti anche nel processo di de-standardizzazione del lavoro, come vediamo sia dall’incidenza delle collaborazioni, sia anche dalla quota elevata di lavoro part-time. Che il part-time aumenti è buon segno non solo perché ci allinea ai Paesi più avanzati del nostro in termini di occupazione femminile ma perché da tempo crediamo che sia un vantaggio, per le donne ma anche per molti uomini, che l’orario di lavoro “normale” – le solite otto ore al giorno nella fascia centrale della giornata – cominci a differenziarsi e che il mercato consenta a ciascuno, in alcune fasi della sua vita, di lavorare solo le ore che vuole, o che può.

A Milano come a Roma la quota di donne che lavorano a tempo parziale è molto più elevata di quella degli uomini e il part-time maschile è spesso più involontario di quello femminile, tanto che corrisponde a una sorta di sottoccupazione: questa è d’altra parte, un po’ dovunque nel mondo, la realtà del part-time. Se è vero, infatti, che oltre il 40% le donne con figli – dipendenti e indipendenti – lavora a orario ridotto, è anche vero che il part-time è aumentato specialmente per la componente straniera e per le occupazioni meno qualificate: tra questi gruppi occupazionali, il lavoro part-time ha spesso un segno diverso da uno strumento di conciliazione tra lavoro e impegno familiare. Quasi due donne su tre che lavorano a orario ridotto non per loro scelta è costituito da straniere.

Nella ricca Milano ci troviamo dunque in presenza di aree di sottoccupazione non qualificata e poco pagata, la tipica area dei working poors. Ma siamo anche probabilmente in presenza di una quota preoccupante di occupazione “grigia”, ovvero di lavoratrici (in parte anche lavoratori) in professioni a bassa qualificazione – tipo colf e badanti, addette a bar e ristoranti, operatrici di imprese di pulizia e di servizi alle persone – che più o meno d’accordo coi datori di lavoro optano o accettano rapporti di lavoro solo in parte regolari, dichiarando meno ore di quanto fanno effettivamente, presumibilmente per evitare una parte del costo dei contributi e forse per restare sotto quel livello di reddito familiare che consente di accedere alle diverse prestazioni sociali e agli aiuti alle famiglie. Infine, non va escluso che una quota di part-time involontario segnali invece la presenza di un’area di lavori che sono sì ad alta qualificazione, ma molto saltuari (e non necessariamente ben pagati): i lavori tipici delle professioni autonome di seconda generazione e in particolare delle giovani nel loro lungo ingresso nella carriera. Che questi siano (anche) i lavori part-time di Milano fa un po’ tristezza.

In conclusione, a partire dalle evidenze emerse dalla ricerca, il progetto EQuIPE 2020 di Italia Lavoro ha tutte le risorse conoscitive per progettare alcune importanti sperimentazioni, a partire dal mercato del lavoro di Milano che, nonostante le criticità, può rappresentare un punto di riferimento per raggiungere l’obiettivo della maggiore e migliore occupazione femminile: si può essere tutti d’accordo che le milanesi al lavoro hanno oggi la formazione, le capacità, il titolo per prendere la parola non solo sul “lavoro femminile”, ma sull’insieme del lavoro che cambia, in una città in trasformazione. È questo l’obiettivo del progetto: coniugare maggiore flessibilità con maggiore occupazione, produttività e innovazione, non solo per le donne, ma per tutti i lavoratori. Pensiamo che i risultati di questa ricerca possano essere oggetto, nei prossimi mesi, di ampio confronto anche con le istituzioni locali, Regione e Comune prima di tutto, per provare a concordare alcune azioni mirate anche settoriali, così come potrebbe risultare interessante realizzare altri studi simili con questo dettaglio e approfondimento su altre realtà metropolitane.


Riferimenti

Il Rapporto "A Milano il lavoro è donna"

Il sito del progetto EQuIPE 2020 di Italia Lavoro