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Il 17 maggio l’Istat ha pubblicato il 25° Rapporto Annuale in cui dipinge il quadro economico e sociale della situazione italiana. Uno dei paragrafi più interessanti è “I tempi di lavoro delle donne: piccoli passi verso la parità di genere” all’interno del quarto capitolo. I dati pubblicati mostrano uno spaccato italiano in cui le donne sono penalizzate da un sommarsi di vari tipi di diseguaglianza. Perché se è vero che la crisi economica iniziata nel 2008 dà piccoli segni di cedimento da circa tre anni, è anche vero che questa flebile ripresa non ha sicuramente avuto un impatto omogeneo sul territorio, rafforzando le diseguaglianze già presenti in Italia.

L’occupazione in Italia

In generale, infatti, emerge che il numero di occupati, nel 2016, cresce a ritmi più sostenuti rispetto agli anni precedenti raggiungendo le 293 mila unità (+1,3%). L’occupazione femminile è cresciuta di più rispetto a quella maschile (1,5%), superando di 255 mila unità il numero registrato nel 2008, anno di inizio della crisi economica. Invece, tra gli uomini il numero di occupati uomini aumenta dell’1,1% tra il 2015 e il 2016, ma rimane comunque inferiore di oltre mezzo milione rispetto al 2008.

Nonostante questo dato, è utile ricordare che le differenze di genere sono rilevanti in tutti i settori, soprattutto contando le quote “rosa” tra le figure apicali. È sufficiente, infatti, osservare come nel 2016 il tasso di occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni si attesti al 48,1%, con una distanza di 18,4 punti percentuali rispetto a quello maschile (66,5%). È importante inoltre ricordare che i servizi di assistenza alla persona e alla cura, soprattutto degli anziani, sono ambiti non solo in cui l’occupazione è cresciuta, ma sono anche quelli storicamente appannaggio delle donne, rispetto a quelli dove l’occupazione è crollata, come per esempio l’edilizia o l’industria.

Le differenze che emergono fra uomini e donne sono un segno evidente che nonostante le piccole crepe, il soffitto di cristallo è ancora presente. Anzi, soprattutto intorno alle donne si stanno sempre più consolidando delle “pareti” di cristallo, frutto di “storiche” polarizzazioni presenti in Italia, come la differenza fra Nord e Sud, il divario fra i vari livelli di istruzione e l’influenza delle classi sociali.


Le differenze fra l’Italia e l’Europa…

La prima grande polarizzazione affiora quando si confronta l’Italia con il resto dell’Europa. L’Italia è tra i 14 paesi che hanno ancora un tasso di occupazione inferiore al 2008; le posizioni peggiori sono occupate da Grecia, Cipro e Spagna – presentano un divario di oltre 5 punti percentuali rispetto ai livelli pre-crisi, pur registrando una dinamica positiva nell’ultimo biennio. Il nostro Paese non ha ancora recuperato i valori del 2008, pur avendo un calo dell’indicatore più contenuto (1,4 punti percentuali in meno) rispetto ai tre Paesi citati in precedenza.

In tutti gli altri Paesi il tasso di occupazione ha superato il valore del 2008 e nella maggior parte di questi casi il livello dell’indicatore nel 2016 è al di sopra della media europea. Tra questi Paesi emergono soprattutto Svezia, Germania e Regno Unito (Grafico 1). Invece, rispetto all’anno precedente, in generale, il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni è cresciuto (tranne per il Lussemburgo).

Grafico 1. Tasso di occupazione 15-64 anni nei paesi della Ue per grado di recupero rispetto al 2008 – Anni 2008 e 2016 (valori percentuali)
Fonte: Eurostat, Labor Force Survey da Rapporto Istat 2017

Inoltre in Europa prosegue la crescita del part-time e del lavoro a termine. Per quanto riguarda il part-time, infatti, nel 2016 gli occupati sono aumentati di 599 mila unità nell’ultimo anno (+1,3%) e di oltre 5 milioni rispetto al 2008 (+13,1%); quelli a tempo pieno, invece, crescono dell’1,6%. L’incidenza del part-time sul totale degli occupati passa, tra il 2008 e il 2016, dal 18,1 al 20,4% del totale: l’incremento maggiore si rileva tra gli uomini, che passano da 9,6 a 12,2 milioni (+26,2%), mentre le donne salgono da 30,8 a 33,6 milioni (+9,1%).

Se gli anni della crisi erano caratterizzati dall’incremento esclusivo del part-time involontario, nel 2016 si rafforza quello volontario (+6,9% rispetto al +0,6% del part time involontario). Di conseguenza, l’incidenza del part time involontario sul totale degli occupati part-time diminuisce per la prima volta dall’inizio della crisi, attestandosi al 62,6% (dal 63,9 per cento del 2015). In Ue mediamente si assesta intorno al 26%.

In Germania, Paesi Bassi e Austria si rilevano i più alti tassi di part-time, rispettivamente 50,5, 28,7 e 28%. In Italia il dato sul part-time si assesta al 18,8%, rimanendo quindi sotto la media europea. Aumentano anche i dipendenti a tempo indeterminato sia in Europa (+1,8% rispetto al 2015) sia in Italia, con un ritmo analogo (+1,9%). L’incremento è più sostenuto tra le donne: rispetto al 2008 quelle con un lavoro a tempo indeterminato sono cresciute del 4,5%, mentre gli uomini segnano ancora un calo dell’1,3%.

In generale, nel 2016 in Italia l’aumento del tasso di occupazione prosegue a un ritmo simile a quello medio europeo e si attesta al 57,2% (+0,9 punti percentuali rispetto al 2015), un valore tuttavia lontano dalla media, soprattutto per la componente femminile. Infatti, il tasso di occupazione continua a essere più basso di quello del 2008 a causa del lento recupero dell’indicatore maschile, non compensato dalla crescita tra le donne.

…e le differenze fra Nord e Sud Italia

In Italia lavora meno di una donna su due (il 48,1%). Il dato medio, tuttavia, nasconde rilevanti variazioni su base territoriale. Ripartendo infatti la penisola in tre macro aree, emerge chiaramente la seconda grande polarizzazione che spesso caratterizza il nostro Paese: se l’occupazione femminile si attesta nelle regioni settentrionali al 58,2% e al 54,4% in quelle del Centro, nel Mezzogiorno riesce a trovare lavoro poco meno di una donna su tre (31,7%). Il dato appare ancora più preoccupante se si osserva il divario di genere: infatti, nelle regioni del Nord e del Centro si assesta intorno a 15 punti percentuali a vantaggio degli uomini, mentre al Sud si amplifica, raggiungendo valori intorno a 23 punti (Tabella 1).

Tabella 1. Tassi di disoccupazione e occupazione per sesso e ripartizione geografica (valori percentuali e differenze in punti percentuali)
Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze lavoro

Guardando ai tassi di inattività risulta inoltre evidente come il Mezzogiorno si caratterizzi per la presenza di un’elevata quota di donne da sempre fuori dal mercato del lavoro (intorno al 59%, rispetto agli uomini che si assestano intorno al 32%). Il divario è ancora più evidente comparando i tassi di inattività femminili del Nord e del Centro rispettivamente al 36,2 e al 38,6% (Tabella 2).

Tabella 2. Tasso di inattività per la popolazione di 15-64 anni per ripartizione geografica – Anni 2008, 2016 (valori percentuali e differenze in punti percentuali)
Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze lavoro

Il ruolo dell’istruzione e della classe sociale

L’Italia è da sempre caratterizzata come un Paese in cui la posizione socio-economica degli individui è strettamente associata al contesto socio-economico della famiglia d’origine. Questa connessione intergenerazionale tende a ostacolare processi di mobilità sociale ascendente. I dati del Rapporto Istat confermano la persistenza.

In generale, si può infatti osservare che possedere un titolo di studio elevato favorisce l’accesso nel mercato del lavoro per entrambi i sessi. Per le donne, per esempio, il tasso di occupazione aumenta dal 29,8% rilevato per chi ha ottenuto la licenza media e al 73,3% per chi ha conseguito il titolo terziario. Anche in questo caso, però, le differenze di genere appaiono evidenti.

Il primo grande cleavage si nota osservando la differenza fra uomini e donne a parità di livello di istruzione. Infatti, nonostante le donne raggiungano più alti livelli di istruzione rispetto agli uomini, se si guarda il tasso di occupazione fra i laureati, la differenza è di 10 punti percentuali a vantaggio degli uomini; tale differenza aumenta poi enormemente se si osservano i tassi relativi alla licenza media e al diploma (il divario qui è, rispettivamente, di circa 25 e 18 punti percentuali).

Se si considerano le differenze fra i titoli di studio, sembra che tra le donne avere un titolo di studio basso sia più penalizzante che fra gli uomini. Ciò suggerisce che l’istruzione fornisce un effetto “di spinta” occupazionale maggiore fra le donne: infatti, la differenza fra possedere una licenza media e un diploma sul tasso di occupazione per gli uomini è di 17,4 punti percentuali, ma sale al 24,9 per le donne. La differenza è elevata anche se si guarda al passaggio dal diploma alla laurea: per le donne è di 18 punti percentuali, per gli uomini si assesta intorno al 10. Quindi le donne sono fortemente penalizzate nel mercato del lavoro quando non riescono a ottenere un titolo di studio elevato, ma rispetto agli uomini lo sono anche quando ottengono un titolo terziario (Tabella 3).


Tabella 3. Tasso di occupazione per la popolazione di 15-64 anni per titolo di studio – Anni 2008, 2016 (valori percentuali e differenze in punti percentuali)
Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze lavoro

Il secondo cleavage emerge osservando i gruppi sociali: i tassi di occupazione femminili sono molto diversificati, come anche tra gli uomini. Tuttavia se si osservano i vari gruppi sociali, si nota come in tutte le classi le donne siano penalizzate all’accesso al lavoro, presentando sempre valori più bassi. La differenza maggiore si riscontra tra i giovani blue-collar (-24,7 punti percentuali). Tra le donne i valori più elevati si riscontrano nelle famiglie di impiegati, in quelle della classe dirigente e dei giovani blue-collar (tra il 67,3 e il 64,5%). Al contrario, presentano valori bassi i gruppi rappresentati da anziane sole e giovani disoccupati e da famiglie a basso reddito di soli italiani (rispettivamente 16,8 e 31,8%) (Tabella 4).

Tabella 4. Tasso di occupazione femminile e maschile per le caratteristiche socio-economiche familiari – Anni 2008, 2016 (valori percentuali e differenze in punti percentuali)
Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze lavoro, Indagine uso del tempo

Il modello male breadwinner

Tradizionalmente l’Italia si caratterizza per una forte asimmetria nella divisione dei ruoli nella coppia, a svantaggio delle donne: il lavoro familiare è infatti considerato ancora appannaggio delle donne. Si tratta peraltro di una divisione dei compiti familiari che caratterizza anche le famiglie che non seguono più il modello male breadwinner, e in cui anche la donna è inserita nel mercato del lavoro.

Dai dati dell’indagine su "Uso del tempo" del 2013-2014, risultava infatti che il 53,4% degli uomini era molto o abbastanza d’accordo con l’affermazione “È meglio per la famiglia che l’uomo si dedichi prevalentemente alle necessità economiche e la donna alla cura della casa”, così come il 45,1% delle donne italiane. I valori più alti si rilevano soprattutto nel Mezzogiorno e fra chi ha un titolo di studio più basso.

Si noti, tuttavia, che la permanenza di questo stereotipo si osserva – seppure con valori più bassi – anche tra le coppie sposate, dove entrambi i coniugi lavorano: il 38,8% degli uomini e il 28,1% delle donne considera positivo la persistenza di un modello tradizionale. Questo dato contribuisce a spiegare la bassa partecipazione femminile nel mercato del lavoro che – insieme alla nota mancanza di servizi di cura per anziani e bambini e, più in generale, alle misure per facilitare la conciliazione vita-lavoro – ha come conseguenza che la settimana lavorativa media, considerando sia il lavoro retribuito sia quello familiare, è di 46h52’ per le donne, contro le 39h30’ degli uomini.

Risulta quindi particolarmente pesante la settimana delle donne che svolgono sia un lavoro retribuito sia un lavoro familiare: le ore, infatti, salgono a 57h59’. Se si osservano, infine, le casalinghe si può notare come la differenza con gli uomini occupati è di sole due ore e mezza a settimana (Grafico 2).


Grafico 2. Tempo di lavoro totale (retribuito e familiare) svolto in una settimana media dalla popolazione tra 15 e 64 anni per genere e condizione – Anni 2008-2009 e 2013-2014 (durata media generica in ore e minuti)
Fonte: Istat, Indagine uso del tempo

Un modello paritario di genere: un percorso possibile?

Analizzando le varie fratture sociali e diseguaglianze che caratterizzano l’Italia e che penalizzano soprattutto le donne, è comunque possibile notare come ci sia un parziale miglioramento rispetto all’ultimo quinquennio. Ad esempio, l’indice di asimmetria del lavoro familiare, che misura la parte del tempo dedicato al lavoro domestico e di cura svolta dalle donne (sul totale di quello della coppia), nelle coppie dove entrambi lavorano è complessivamente sceso sotto la soglia del 70%, soglia che cinque anni fa era stata raggiunta solo dalle coppie di occupati con donna laureata.

Gli uomini inoltre hanno aumentato il loro contributo nella divisione del lavoro domestico (mediamente 1h50’ a settimana), dato però che si deve leggere anche alla luce del calo delle ore di lavoro retribuito. Infatti, la crisi economica ha generato non solo una perdita di posti di lavoro, ma anche una diminuzione delle ore di lavoro svolte dagli uomini. Inoltre, la condizione delle donne appare più equa quando il livello di istruzione è più elevato, come nelle famiglie di impiegati e nella classe dirigente, ma anche nel caso di nuclei familiari formati da giovani coppie, come nel caso dei blue-collar.

In conclusione, l’Italia è un Paese che si sta muovendo verso un modello di genere più paritario di divisione del lavoro, sia per quanto riguarda il mercato, in cui è migliorata la possibilità di accesso al lavoro retribuito; sia all’interno dei nuclei familiari, in cui sta avvenendo una distribuzione più equa dei carichi di lavoro. Tuttavia, questo percorso è ancora irto di ostacoli, non appare omogeneo dal punto di vista territoriale e presenta ancora profonde differenze tra livelli di istruzione, classi sociali e età.

In alcuni gruppi, infatti, la resistenza al cambiamento appare molto forte e il modello del male breadwinner, anche se non praticato completamente, si configura di fatto come norma sociale. Attualmente, ci si deve scontrare con una diseguaglianza che non è solo delle donne nei confronti degli uomini, ma anche fra Nord e Sud, fra classi sociali e livelli di istruzione: è per questo che le donne, tradizionalmente più deboli nel mercato del lavoro, si trovano ad affrontare non solo un soffitto di cristallo ma anche delle vere e proprie pareti, che la crisi economica ha rafforzato e che sembrano sempre più difficili da abbattere.

Fare passi avanti verso un modello paritario, quindi, significa ridurre le diseguaglianze in toto, produrre delle policies che prevedano un investimento, a livello territoriale, in servizi per l’infanzia, facilmente accessibili a tutti, così da diventare un volàno per la partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto delle madri, ma anche per un incremento del tasso di fecondità (ormai fermo a 1,35 figli per donna, come abbiamo evidenziato qui).

Infatti gli ostacoli all’accesso e alla permanenza delle donne nel mercato del lavoro continuano a essere particolarmente forti per questo gruppo. Nella fascia di età tra 25 e 49 anni, in cui l’attività riproduttiva interagisce con la presenza delle donne sul mercato del lavoro, l’occupazione femminile è più elevata tra le donne che vivono da sole (79,0 per cento), quelle in coppia ma senza gli (69,2 per cento) o in altra condizione (57,4 per cento). Invece, tra le madri di 25-49 anni, il tasso di occupazione si ferma al 54,1%.

Un altro elemento importante che emerge dal rapporto dell’Istituto Nazionale di Statistica è quello relativo al calo demografico e all’invecchiamento della popolazione italiana. I dati Istat sono inequivocabili: per aumentare la partecipazione al mercato del lavoro delle donne non sono sufficienti bonus bebè e assegni familiari (di cui abbiamo parlato qui).

Ormai dovrebbe essere chiaro come la parità di genere passi attraverso la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e all’istruzione: sono questi gli interventi che bisogna incentivare, in particolare creando servizi. Non sembra un caso se la fecondità è più elevata proprio nelle regioni dove le donne lavorano di più e ci sono più posti in asilo (Carlini, 2017), senza la necessità di slogan pro natalità confezionati ad hoc.

Riferimenti
Istat (2017), Rapporto annuale 2017. La situazione del Paese, Roma, Istat
Carlini Roberta, “L’inutile ossessione per i bonus bebè”, Left, 1 aprile 2017