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L’ultimo film di Ken Loach affronta nuovamente, attraverso la storia di Daniel Blake, i processi di esclusione sociale nel Regno Unito, e forse ci consente di comprendere meglio le ragioni della recente Brexit.

In Ladybird Ladybird, Loach aveva già sottoposto ad una feroce critica il welfare state britannico, Maggie, la protagonista del film viene ritenuta incapace di provvedere ai propri figli dai servizi sociali, che intervengono negandole sistematicamente il diritto alla genitorialità. In Ladybird, i servizi sociali appaiono spinti da un intento vessatorio che invece di favorire un percorso di affermazione della soggettività di Maggie, la sferzano con ferocia quasi ad attendere il completo annientamento della sua agency.

Oltre 20 anni dopo, sedimentate le riforme del governo conservatore, il welfare che ci racconta Loach non ha affatto perso l’insensibilità di Ladybird, vi sono, tuttavia, una serie di nuovi elementi su cui si sofferma il film. Daniel Blake, dopo una vita di lavoro nei cantieri, viene colpito da infarto; non più in grado di lavorare, chiede di ricevere il sussidio per malattia. I servizi con cui interagisce il protagonista appaiono come un inespugnabile dedalo di procedure che hanno come obiettivo principale disincentivare la richiesta di sostegno economico. Blake è costretto a misurarsi con un welfare “prestazionale” che gli richiede continuamente di dimostrare la sua “proattività”, con la costante minaccia di ricevere sanzioni crescenti in caso di indolenza o conflittualità. Daniel e gli altri personaggi tentano, dal basso, di ricostruire una sorta di mutualismo delle relazioni di vicinato, un precario appiglio per non cadere definitivamente nella marginalità. Un tentativo di ricomposizione degli affetti che rimane però imbrigliato nell’assenza di grandi istanze collettive di cambiamento sociale. Il welfare che una volta avrebbe accompagnato amorevolmente il cittadino dalla culla alla bara, lo trasforma oggi in cliente, deprivandolo del ruolo di portatore di diritti, e nel caso di Daniel lo porta alla tomba. Loach naturalmente è Loach, il suo cinema viene costruito in base a vistose dicotomie, passate attraverso un setaccio a maglie grosse. Daniel vede il mondo con gli occhi di Ken, occhi che indugiano troppo spesso in giudizi moraleggianti, quasi a ribadire la primazia della classe operaia bianca, che però ha smesso di esistere, da oltre un ventennio, come soggettività politica organizzata nella vecchia Europa.

Al di là della capacità di Loach di cogliere l’emergere di nuove soggettività, che sono oggi al centro del conflitto sociale, la narrazione di Io, Daniel Blake ci consegna delle profonde inquietudini e ci interroga sull’approdo del welfare state. La riforma del Terzo Settore ci pone inevitabilmente di fronte ad un bivio, dischiudendo nuove opportunità e, contestualmente, aprendoci al rischio di legittimare un welfare lontano dai bisogni delle comunità. Per raccogliere questa sfida, sarà necessario dialogare e far dialogare soggetti diversi, costruire reti, ridare voci ai territori per restituire centralità ai bisogni, disegnare servizi che favoriscano processi di empowerment, comprendendo se e in che misura hanno generato un cambiamento nella vita dei cittadini. Basta, però, guardare all’effervescenza che caratterizza il dibattito in seno al Terzo Settore per capire che siamo ben attrezzati per raccogliere questa sfida.