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Non è stato forse un caso che, nel giro di pochi giorni, a Milano si sia discusso recentemente sulle possibili nuove modalità di gestione dei beni culturali: prima l’Associazione Civicum ha presentato l’esercizio affidato a Boston Consulting di redigere un “rendiconto trasparente” per la pinacoteca di Brera (ne aveva riferito Giovanna Mancini sul Sole 24 Ore del 14 ottobre); pochi giorni dopo, è stata presentata un’altra ricerca, curata da Martha Friel e Filippo Cavazzoni per la Società del Quartetto di Milano (di cui sono consigliere) che quest’anno compie centocinquant’anni e ha voluto festeggiare (anche) con questo studio sui bilanci delle principali società musicali italiane.

Dalle due presentazioni è emersa la medesima esigenza: quella di elaborare nuove forme di gestione dei beni e delle attività culturali; un esercizio, quest’ultimo, che è stato finora ostacolato dal pregiudizio ideologico secondo il quale parlare di gestione economica della cultura significhi automaticamente immiserirla irreparabilmente, tradirla e – horribile dictu! – privatizzarla. Naturalmente non è così: a Milano, la prima a compiacersi del nuovo strumento che le veniva messo a disposizione è stata la Sovrintendente di Brera, Sandrina Bandera.

Il punto è che la convivenza tra culture diverse resta ancora molto difficile. Nel caso di Brera, i curatori hanno espressamente presentato la ricerca come uno strumento propedeutico a elaborare strategie per aumentare le entrate (sia attraverso i biglietti che i contributi di partner privati): ma questo significa definire – come fanno tutti i grandi musei del mondo, pubblici e privati – una autentica strategia di sviluppo che risponda a una visione e al riconoscimento dell’effettiva missione che una istituzione culturale deve raggiungere, ossia la diffusione della cultura (obiettivo che, da solo, il contributo pubblico non riesce a garantire). Nel caso della musica e dello spettacolo dal vivo, la questione è identica; anche qui, infatti, si tratta di elaborare forme di gestione che consentano di far fronte alle fatali decurtazioni pubbliche (quest’anno felicemente evitate dall’amministrazione centrale) consentendo di continuare a distribuire musica (spesso in zone dove mancano altre iniziative) e dunque svolgere autentiche funzioni pubbliche, ancorché sotto la veste di soggetti privati: in questo caso, per esempio, avvicinando alla musica, e ai suoi sviluppi contemporanei, le generazioni più giovani.

Siamo così al cuore delle moderne riflessioni sulla riforma dello stato del benessere, orientate a inventare un nuovo modello di welfare che si affianchi a quello tradizionale, pesante, costoso e burocratizzato: un secondo welfare, appunto, di cui sono protagonisti istituzioni pubbliche, soggetti privati, fondazioni erogative, privati e terzo settore. Non è affatto detto che questo modello debba limitarsi all’assistenza o alla sanità, proprio perché la cultura rappresenta uno degli strumenti più efficaci per dare significato a una cittadinanza più matura (a parte il fatto che le ricerche dimostrano come la cultura serva anche a stare meglio fisicamente e ad affrontare con più efficacia certe patologie).

La riflessione sulla gestione economica dei beni e delle attività culturali, dunque, non rappresenta un cedimento ad arcigne pratiche ragionieristiche (con tutto il rispetto per i ragionieri, che forse dovrebbero essere chiamati con maggiore frequenza dalle istituzioni della cultura), ma una tappa per ridefinire il rapporto tra Stato, cittadini e soggetti privati: su un piano di parità, e senza illusioni che basti il generico appello agli sponsor per affrontare questioni che richiedono visione, strategie e tempi ragionevoli. Da questo punto di vista, anche le agevolazioni fiscali rischiano di non essere più sufficienti ad attirare i privati, che chiedono soprattutto di essere coinvolti in strategie di cui possano misurare gli effetti sulle comunità di riferimento. Ma questo richiede il superamento di antiche abitudini, basate sull’attesa messianica dei soldi pubblici e sul duello all’ultimo sangue contro i colleghi-concorrenti: i nuovi criteri di distribuzione del Fus, per quanto giudicati macchinosi dagli interessati, rappresentano un bel passo avanti in questa direzione, proprio in vista del passaggio, che si dimostra irrinunciabile, da una logica di competizione tra gli operatori per accaparrarsi le briciole a una di cooperazione per elaborare progetti.

 

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Sole 24 Ore del 2 novembre ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.