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Nel discorso pubblico italiano si parla con una certa frequenza dei «vinti della globalizzazione» e il rischio di un’overdose di retorica è già dietro l’angolo. Lo dimostra la confusione nella quale si incorre nell’individuare quali siano veramente i nostri perdenti e di conseguenza è ancora più arduo immaginare le policy anti esclusione. Prendiamo la figura chiave dell’operaio dell’industria automobilistica che in Gran Bretagna ha votato per la Brexit (soprattutto contro i londinesi ricchi e cosmopoliti) e il suo collega del Wisconsin che ha scelto Donald Trump per fermare la delocalizzazione in Messico. Da noi le cose stanno diversamente: le misure di protezione delle tute blu hanno sostanzialmente tenuto e le categorie industriali hanno rinnovato quasi tutti i contratti nazionali strappando soluzioni vantaggiose. Più sotto però nel mondo delle piccole imprese l’occupazione manifatturiera è diminuita drasticamente e si è perso un quarto della capacità produttiva. Sono andate fuori mercato molte aziendine che si sono trovate di fronte a una doppia pressione combinata: la concorrenza delle produzioni asiatiche a basso costo del lavoro e la debolezza della domanda interna. L’universo operaio però (finora) non si è spaccato, si è diviso in più segmenti e le differenze diverranno più evidenti solo in un futuro prossimo.

Le tecnologie del 4.0 faranno emergere una figura polivalente e moderna, il grosso delle tute blu dovrà lottare nei confronti di un nuovo ciclo di automazione sostitutiva, ma dove si è espressa una vera frattura e troviamo già dei «vinti» è in un altro segmento di classe operaia, quello dei servizi a basso valore aggiunto come la consegna merci e i call center. Qui la pressione della globalizzazione è diretta, determina il livello delle paghe ma soprattutto l’insicurezza del posto di lavoro e una forma organizzativa che puzza di sommerso.

Chi ha pagato un’altra rata onerosa del conto globale è il ceto medio. La piccola manifattura e il piccolo commercio non hanno retto la pressione del low cost asiatico o dei minimarket. Per le professioni del terziario professionale è stata invece la crisi della domanda interna a vestire i panni del carnefice generando una retrocessione di mercato e di sicurezze. Troppa offerta e poca domanda e del resto il numero di avvocati e architetti che c’è in Italia è da record europeo. Ad aggravare la condizione del ceto medio c’è poi un elemento psicologico: la diffusa percezione di un ulteriore slittamento prossimo venturo. Non abbiamo toccato il fondo, pensano, anzi. Arriviamo ai giovani: su di loro non si è esercitata una pressione diretta della globalizzazione, eppure sono quelli che stanno pagando il prezzo più salato. Il Censis ha calcolato che rispetto a 25 anni fa i giovani di oggi hanno perso il 26,5% di reddito in confronto ai coetanei di allora, contro un calo per l’universo della popolazione dell’8,3% e un incremento del 24,3% degli over 65. Nel calvario della nuova generazione quindi più che i cinesi pesano i vecchi ritardi italiani, quelli che ci hanno impedito di crescere negli ultimi venti anni. Sono quei ritardi che fanno ammattire i liberal — che Trump vede come il fumo negli occhi — e rispondono ai nomi di scarsa concorrenza, eccesso di burocrazia, avversione per la libera iniziativa, bassa mobilità sociale. Ovviamente ragionando per grandi aggregati sociali si rischia di mettere in secondo piano le condizioni pressoché emergenziali di alcuni segmenti più bassi: la povertà assoluta è cresciuta, così come è aumentata incredibilmente quella minorile.

La ricognizione sui «vinti» non è completa se si omette di ricordare come negli anni della Grande Crisi si sono creati fenomeni di polarizzazione che non possono essere sintetizzati nella mera formula dell’arricchimento dei Paperoni, dell’1% ultraricco. Pescando dalla fenomenologia più recente capita di constatare come sia durante il ponte dell’Immacolata sia nelle feste di fine anno il numero degli italiani andati in vacanza abbia ampiamente superato i livelli dell’anno precedente e anche la loro spesa media è aumentata. Per carità, si tratta di una rimodulazione del modo di fare le ferie, meno estero e più soluzioni intelligenti, ma comunque il dato non va rimosso.

Lo stesso indice di Gini negli anni della Grande Crisi in Italia non si è mosso, fotografa le differenze di reddito delle famiglie e quindi non riesce a restituirci la fotografia delle disuguaglianze interne (ai nuclei familiari) e dell’arbitraggio che avviene ogni giorno tra i soldi dei nonni e il non-reddito dei nipoti (per inciso la maggiore curva dell’indice di Gini risale in Italia agli anni 90 con la politica dei redditi pre-euro). Non bisogna dimenticare infatti che i nuclei con capofamiglia pensionato possiedono il 51,3% dei titoli di Stato, il 41% delle obbligazioni private e persino il 21% delle azioni (dati Censis). La mappa delle disuguaglianze e delle contraddizioni sociali come si può vedere è assai variegata, per questi motivi la retorica sui «vinti» deve lasciar spazio a una ricognizione puntuale e all’individuazione di policy su misura, quasi sartoriali. La spesa pubblica a pioggia purtroppo le disuguaglianze tende ad acuirle e non a temperarle.