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La prima settimana post-Brexit si è conclusa con segnali non certo rassicuranti. Sui tempi e le modalità di uscita del Regno Unito dalla UE continua a regnare una grande incertezza. In Spagna per la seconda volta le elezioni non sono riuscite a produrre un governo. In Austria si tornerà presto a votare per il Presidente della Repubblica. Nel loro incontro di Berlino, Merkel, Hollande e Renzi (il «nuovo direttorio») si sono sforzati di rassicurare opinioni pubbliche e mercati, ma hanno anche mostrato di non avere una strategia condivisa su come tenere insieme la UE e rispondere all’ondata euroscettica. La Cancelliera ha riproposto l’immagine di un’ «Europa dei risultati», capace di portare benefici tangibili ai cittadini (soprattutto ai giovani). Ha però ribadito che bisogna rispettare i patti e le regole vigenti. Ancora «compiti a casa», dunque: niente concessioni. Hollande e Renzi hanno rilanciato l’immagine di un’Europa «sociale».

Il Presidente francese ha chiesto un bilancio comune dell’Euro-zona, sostegni agli investimenti pubblici e privati, armonizzazione fiscale e sociale. Renzi ha difeso la UE come “casa comune”, ma dicendo che occorre renderla più «umana» e più equilibrata nei rapporti fra paesi creditori e debitori. Persistono dunque forti divergenze fra la visione germanica della UE e quella latina. La prudenza tedesca è comprensibile. Merkel è sotto attacco da parte degli euroscettici di casa propria, strenui oppositori di ogni forma di redistribuzione fra paesi. La Cancelliera è anche mossa da una preoccupazione autenticamente paneuropea. Se salta la «cultura della stabilità», i mercati internazionali si spaventano e l’euro rischia di crollare. Altrettanto comprensibili sono gli appelli di Hollande e Renzi. Nei Paesi latini l’euroscetticismo è alimentato non solo dall’immigrazione (come nel Regno Unito, in Olanda o in Austria), ma anche dall’austerità.

Molti elettori sono ormai convinti — a torto o a ragione — che a Bruxelles interessino solo il mercato e il pareggio di bilancio, senza riguardo per il welfare, la povertà, le diseguaglianze. Se l’Europa tradisce la «cultura della solidarietà», sono i cittadini a spaventarsi. Anche in questo caso l’euro rischia di crollare, aprendo la porta ad una spirale di possibili exit.

Da questa infernale tenaglia si può uscire solo in un modo: riconciliando stabilità e solidarietà entro un quadro simbolico (e poi istituzionale) che le contenga entrambe e sappia così parlare sia ai mercati sia agli elettori. Stabilità significa capacità di durare nel tempo. Oggi le norme Ue si concentrano troppo sugli equilibri finanziari di corto periodo e poco sulle risorse necessarie per prosperare nel lungo periodo. Prendiamo il caso della Grecia: persino il Fondo monetario internazionale riconosce che questo Paese non ha nessuna possibilità di tornare a crescere «stabilmente» (appunto) alle condizioni imposte dalla Troika, prevalentemente incentrate sui saldi di bilancio.

Solidarietà significa condivisione dei rischi comuni e aiuto reciproco in caso di avversità «immeritate». Non è un principio alieno al processo di integrazione. È stato uno dei criteri guida dei Padri fondatori e ha ispirato nel tempo le politiche di coesione. Alcuni Paesi ne hanno approfittato e oggi l’Europa germanica teme che la solidarietà incoraggi l’opportunismo, premiando le cicale a scapito delle formiche. Senza responsabilità da parte di chi riceve aiuto, la condivisione genera risentimento.

È soprattutto ai leader dei tre Paesi più grandi che tocca oggi il compito di ricomporre la cornice europea di valori e obiettivi. In essa devono trovare spazio anche i problemi dell’immigrazione e della sicurezza. Ma i temi cruciali sono quelli economico-sociali, attraversati dal fossato culturale fra Nord germanico e Sud latino.

Dopo lo choc della Brexit, chi resta «dentro» deve riflettere bene sulla casa comune, sulla sua missione, sugli strumenti più adatti a proteggerla, a mantenerla prospera e coesa. L’euroscetticismo è un nemico agguerrito e insidioso, la battaglia sarà lunga. Il primo fronte su cui i leader filoeuropei devono combattere è quello del discorso pubblico. Impegnandosi all’interno di ciascun Paese, ma con l’obiettivo di salvaguardare l’intera Unione.


Questo editoriale è comparso anche su Il Corriere della Sera del 1 luglio 2016