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Giovedì 22 settembre si è svolto il Fertility Day, promosso dal Ministero della Salute “per aumentare la conoscenza sulla salute riproduttiva e fornire strumenti per la tutela della fertilità”. Il tema, complice una campagna di comunicazione molto discussa, nelle ultime settimane ha suscitato un acceso di dibattito. Fermo restando che la maternità è una scelta libera e personale e, come tale, non può essere spiegata, incentivata o contenuta come una qualsiasi variabile, proviamo a fare luce sul problema e sugli strumenti che il welfare può offrire per sostenere davvero la natalità in Italia, leggendo un po’ di dati e provando a capire se e come si può invertire il trend. 

 

I numeri della denatalità

Nel 2015 le nascite nel nostro Paese sono state 488 mila, 15 mila in meno rispetto al 2014, nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia. Per il quinto anno consecutivo la fecondità è diminuita, giungendo a quota 1,35 figli per donna (Istat 2016). E mentre calano i nuovi nati la popolazione continua a invecchiare, raggiungendo un rapporto di 161,1 persone over 65 anni per ogni 100 giovani con meno di 15 anni. La simultanea presenza di una elevata quota di persone ultrasessantacinquenni e la bassa quota di popolazione al di sotto dei 15 anni colloca pertanto il nostro Paese tra i più vecchi del mondo, oltre che tra i più longevi, insieme a Giappone (indice di vecchiaia pari a 204,9 nel 2015) e Germania (159,9 nel 2015).

 

Le donne italiane, tra carichi di cura e lavoro

Il dibattito pubblico si interroga da anni ormai su questa tendenza, che possiamo attribuire ad una serie di ragioni, che spaziano dal percorso di emancipazione della donna, la cui realizzazione e identità non viene più definita esclusivamente nell’ambito familiare quanto anche lavorativo e sociale; all’idealizzazione della genitorialità, che sovraccarica di responsabilità e aspettative i possibili genitori; alla possibilità di intraprendere percorsi di vita sempre più indipendenti e diversificati, che non sempre si accordano con l’avere figli.

Oltre a queste ragioni, prettamente culturali, e legate a scelte strettamente personali, la bassa natalità è legata anche ragioni economiche e sociali, intervenendo sulle quali forse è possibile invertire questo trend.

Un primo elemento per cercare di frenare la denatalità è aumentare l’occupazione femminile. Il tasso di occupazione femminile in Italia è pari al 46,8%, oltre 13 punti sotto la media UE (59,6%), un gap che al Sud sale a 22 (2014). Eppure diversi studi riportano che dove c’è un’occupazione femminile alta si fanno più figli e dove c’è un’occupazione bassa se ne fanno meno. In un sistema in cui crescere dei figli è sempre più oneroso, infatti, contare su due redditi può fare la differenza. Inoltre, non dovere scegliere tra lavoro e famiglia, renderebbe la decisione di fare figli meno difficile.

Ma per potere continuare a lavorare, occorre investire in politiche per la conciliazione famiglia-lavoro, soprattutto in un paese in cui il welfare familiare risulta ancora così centrale. In Italia 650 mila donne inattive si prendono cura dei figli minori, di adulti malati o disabili, di anziani non autosufficienti. Queste donne dichiarano che vorrebbero lavorare, ma non possono farlo per l’insufficienza di servizi pubblici o per l’alto costo di quelli privati.

La percentuale di donne lavoratrici scende al 39% quando hanno tre o più figli, segno che la maternità impegna e costa: se lasciare il lavoro al primo figlio non sempre conviene, l’abbandono dell’impiego diventa quasi una scelta obbligata quando il costo dei servizi, in relazione al numero di figli, inizia a salire. I servizi per l’infanzia risultano oggi ancora molto scarsi: il tasso di copertura dei servizi per l’infanzia (30 ore) è pari al 13% fino a 3 anni (60% Danimarca e 26% in Francia) e 69% da 3 all’età scolare (91% in Danimarca e 46% in Francia). Il tutto in un contesto in cui i carichi di lavoro, soprattutto in alcuni settori, come il commercio – che si avvia verso orari 7/7, 24/24 – stanno diventando insostenibili per molti, figuriamoci per una donna.

Considerando inoltre che il continuo posticipare l’età del primo figlio impone spesso alle donne la contemporanea cura di figli e dei genitori anziani, è da considerare il fatto che ad oggi scontiamo anche la mancanza circa un milione di posti di lavoro nel settore dei servizi alle famiglie (stima che tiene già conto delle badanti e di altre forme di aiuto domestico “in nero”). Una difficoltà, quella relativa all’acquisto di servizi adeguati, che nella maggior parte dei casi porta a far ricadere gli oneri di cura sulla componente femminile.

 

Gli strumenti a disposizione

Allo scopo di potenziare la conciliazione, occorre dunque investire nei servizi, avendo il coraggio anche di cambiare radicalmente la distribuzione della spesa sociale pubblica, che destina alla famiglia solo il 4% delle risorse (confrontato al 60% destinato ad anziani e superstiti), cifra che nel continente europeo ci vede in coda insieme alla Turchia (Eurostat 2015).

Importante è anche potenziare e imparare a sfruttare quegli strumenti oggi a disposizione, come le reti tra imprese e le reti territoriali, per aggregare la domanda di servizi da parte dei soggetti più “dispersi”. Nuove opportunità possono arrivare dalla Legge di stabilità, dal Decreto Interministeriale del 25 marzo 2016 e dalla modifica dell’art.51 del TIUR, che hanno introdotto importanti agevolazioni su conciliazione e welfare aziendale (ad esempio l’ampliamento dei servizi per l’infanzia e l’inclusione della non autosufficienza) o dalla legge sullo smart working, attualmente in discussione in Parlamento. Sarebbe inoltre necessario supportare la nascita delle iniziative dal basso, come quegli spazi di coworking che offrono anche servizi dedicati alle mamme.

Un altro obiettivo da perseguire è l’adeguamento di questi sevizi al mondo del lavoro di oggi – che conta, ad esempio, 5,5, milioni di autonomi, di cui una crescente parte di professionisti non rientranti negli ordini professionali e quindi dalle scarsissime tutele in ambito di welfare – o alle nuove famiglie, sempre più distanti dal modello di famiglia tradizionale su cui il nostro sistema è stato strutturato. Si tratta di obiettivi che non possono prescindere da cambiamenti culturali, ad esempio relativamente alla cultura della maternitàda ostacolo ad opportunità anche per le aziende – e alla riduzione dell’asimmetria nei ruoli uomo-donna, ad esempio relativamente al congedo parentale.

 

Redditi e povertà: più attenzione ai giovani

Infine, la denatalità può essere attribuita in parte all’instabilità economica e all’impoverimento dei giovani adulti. Secondo un’indagine del quotidiano inglese The Guardian basata sui dati del Luxemburg Income Study database, mentre trent’anni fa i giovani adulti italiani guadagnavano più della media nazionale, oggi guadagnano il 20% in meno dei loro connazionali in diversi paesi occidentali.

Anche l’Istat, nel rapporto pubblicato lo scorso luglio, ha confermato che negli ultimi dieci anni l’incidenza della povertà assoluta è rimasta stabile tra gli anziani (4,5% nel 2005 contro il 4.1% del 2015), mentre ha continuato a crescere nella popolazione tra i 18 e i 34 anni – nel 2005 risultava in povertà assoluta il 3.1% delle persone in questa fascia di età, oggi sono il 9.9% – e in quella tra i 35 e i 64 anni, passata dal 2.7% del 2005 al 7,2% del 2015.

Il messaggio di fondo è una forte penalizzazione dei giovani rispetto agli anziani, che – come scriveva Lorenzo Bandera alcune settimane fa – con le loro pensioni contribuiscono spesso al sostentamento della famiglia allargata, soprattutto nei paesi mediterranei. Si tratta però di un sistema, come messo in luce da un’ampia letteratura, che alimenta la “trappola del familismo”, ostacolando lo sviluppo di percorsi autonomi di vita, e che per di più appare sotto forte stress, stanti le crescenti difficoltà all’interno delle stesse famiglie.

 

L’auspicio è quindi che “la giornata” sia seguita da una serie di riforme che vadano davvero a valorizzare la maternità e il ruolo dei genitori, in una prospettiva più inclusiva e adeguata alle aspettative e ai bisogni contemporanei