Il disegno di legge delega per il contrasto alla povertà, rimasto al palo con la fine del Governo Renzi, da qualche settimana ha finalmente ripreso il proprio iter in Senato, dove il 2 febbraio scadranno i termini per la presentazione di eventuali emendamenti. Abbiamo discusso con Maurizio Bernava, Segretario Confederale Cisl e Responsabile delle Politiche Sociali, della Salute e della Riforma delle Pubbliche Amministrazioni, di quello che possiamo aspettarci e di ciò che resta ancora da fare.

Cosa succederà nelle prossime settimane sul fronte del ddl povertà?

Il prossimo 2 febbraio scadono i termini per la presentazione degli emendamenti al Senato e sembra che al momento la tendenza del Parlamento e del Governo sia quella di approvare il ddl povertà come è uscito dalla Camera, senza quindi ulteriori modifiche. Noi – e con "noi" mi riferisco sia alla CISL sia all’Alleanza contro la povertà, di cui la CISL è parte – abbiamo però sottolineato che quanto fatto è insufficiente. È insufficiente il disegno di Legge delega e, complessivamente, è insufficiente la politica con cui il Governo italiano continua ad affrontare la questione della povertà.


Quali sono i miglioramenti necessari?

In primo luogo, sarebbe importante che l’ammontare del beneficio economico tenesse conto del costo dell’abitare. L’insostenibilità dei costi della casa è spesso causa dell’impoverimento e questo purtroppo accade anche in famiglie che dispongono di un reddito da lavoro. In particolare, riteniamo che l’ammontare del trasferimento economico non possa non tener conto dei costi dell’abitazione. In questo modo peraltro si introduce un elemento che permette di differenziare i trasferimenti su base territoriale, dato che i costi dell’abitare variano sensibilmente a seconda di dove si risiede.

In secondo luogo, è importante che si definiscano i servizi essenziali su cui si struttura il reddito di inclusione. Purtroppo in Italia manca un’infrastrutturazione sociale omogenea, avere un’indicazione dei servizi essenziali sarebbe allora particolarmente significativo.


Queste modifiche sarebbero sufficienti perché l’Italia si doti finalmente di una misura di reddito minimo?

No, per andare nella direzione del reddito minimo, oltre che migliorare la delega, il Governo dovrebbe farsi carico di un piano nazionale di contrasto alla povertà che consenta di incrementare gli investimenti nel tempo e di rafforzare il sistema dei servizi locali.

Come CISL, ma anche come Alleanza, stiamo lavorando in questa direzione: chiediamo uno scatto in più. Non basta la Legge delega, è necessario che il Governo assuma un piano di investimenti pluriennale vero, di risorse significative, di infrastrutturazione di servizi.

Se la lotta alla povertà è una priorità, devono essere messe in campo azioni strategiche non solo attraverso leggi e investimenti ma anche attraverso un piano strategico di lungo periodo. Lo stesso Governo Renzi, cui si deve molto del lavoro fatto fino a ora, ha rinviato al 2018 l’avvio del piano nazionale di contrasto alla povertà. Noi pensiamo invece che il governo deve farsi carico ora di definire il piano. La proposta dell’Alleanza è chiara: la povertà assoluta è una delle priorità da affrontare e con 7,1 miliardi di euro in quattro anni si potrebbe coprire l’intera platea di chi è in povertà assoluta.


Questi 7,1 miliardi garantirebbero la parte passiva della misura (il trasferimento monetario) o anche la parte attiva (il riordino dei servizi sociali locali)?

La stima elaborata dall’Alleanza tiene conto di entrambi gli aspetti. È chiaro comunque che si tratta di una stima, una volta che si mette veramente mano alla ristrutturazione dei servizi si parte da quello che c’è in termini di strutture fisiche, amministrative, istituzionali, di personale. La ristrutturazione dei servizi è una sfida che il Paese non ha mai affrontato, ma è davvero arrivato il momento. Noi pensiamo che tutto il sistema debba ruotare intorno ai Comuni (magari consorziati fra loro) e che le Regioni debbano assumere un ruolo di programmazione e di orientamento insieme allo Stato.

In sostanza, devono essere i Comuni a fare economia di scala, a mettere insieme i servizi, il personale, eccetera. È un processo di ristrutturazione, di riqualificazione del personale, di conversione, tutto questo va fatto in fretta. Anzi, diciamo che andava fatto 15 anni fa.

La presa in carico degli utenti da parte dei servizi sociali comunali non si fa per legge. Serve piuttosto un sistema omogeneo per tutto il territorio nazionale. Ma purtroppo sappiamo che abbiamo venti modelli di servizi educativi, venti modelli per i servizi sociosanitari eccetera. Così non può funzionare, abbiamo bisogno di modelli omogenei e indirizzi chiari.

Una volta approvata la delega, i decreti attuativi potrebbero comunque introdurre ulteriori miglioramenti?

Sì certo, ma alcuni miglioramenti andrebbero fatti già al Senato, se la durata della legislatura lo consentirà. Biosgna però capire che la questione è talmente urgente che non è più possibile rimandare. Credo che la lotta alla povertà sia la priorità del nostro paese e che la politica debba darvi seguito con spirito di servizio.

Come valutate il fatto che (al momento) il rafforzamento dei servizi locali sia alimentato dal fondo sociale europeo?

Questa scelta fa capire che siamo ancora in una prospettiva di sperimentazione. I fondi strutturali sono infatti, per loro stessa natura, sperimentali. Certo è che questi fondi potrebbero essere utili in una fase di avvio, ma è chiaro che dell’infrastrutturazione dei servizi dovrebbe farsi carico il governo nazionale. In sostanza, può andar bene fare lo start-up con questi fondi, ma poi servono risorse strutturali.

Quindi servirebbero finanziamenti a regime e di natura pubblica?

In realtà il piano potrebbe prevedere anche forme di cofinanziamento sussidiario che coinvolgano ad esempio il mondo delle fondazioni. In sostanza, potrebbe costituirsi un fondo che attinge anche a finanziamenti privati, se questi sono mirati all’obiettivo di solidarietà. Nella situazione attuale, tutto il Paese è chiamato a fronteggiare la povertà perché essa mina profondamente la crescita, la coesione e la democrazia. In particolare, il Fondo nazionale politiche sociali, che è stato di fatto svuotato, potrebbe diventare lo strumento utile a investire in questa direzione anche attingendo a risorse private. Un intervento di questo tipo sarebbe il segnale che il Paese sta imboccando una strada di civiltà e di solidarietà.


Se si arrivasse al piano e alla sua implementazione, che ruolo potrebbe giocare la CISL?

I Comuni devono orientare le risorse verso i fabbisogni prioritari e noi possiamo fare molto su questo. Possiamo contribuire a costruire un dialogo con i Comuni (singoli o associati), le parti sociali e l’associazionismo per individuare, a livello territoriale, le priorità.

Immaginiamo un percorso in cui la lotta alla povertà sia una priorità e siano assunte azioni congiunte di welfare istituzionale, welfare privato, welfare contrattuale e aziendale, welfare civico. In sostanza, nel territorio dovrebbero crearsi le condizioni per far convergere risorse di diversa natura e realizzare la ristrutturazione dei servizi. Il confronto, le proposte, la discussione sono nel nostro DNA, è quello che facciamo tutti giorni. Abbiamo un patrimonio relazionale, di relazioni tra persone, tra associazioni, eccetera. Abbiamo a mente un welfare che chiamiamo civico, mutualistico.

Per parecchi anni un modello di welfare di questo tipo dovrebbe essere orientato verso forme pattizie, penso in particolare agli accordi contrattuali orientati su questa priorità. Lo Stato da solo non ce la fa, serve allora un welfare integrato in cui tutti – Governo, Regioni, enti locali, sindacati, associazioni, mondo imprenditoriale, fondazioni – diano un contributo. Tutto questo non è un sogno, si tratta piuttosto di una scelta ormai necessaria.