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Sono sempre più numerose le aziende che mettono a disposizione risorse economiche o competenze in favore del territorio o del terzo settore, così come le imprese che realizzano progetti di welfare aziendale in favore dei propri dipendenti e delle comunità in cui operano, spesso contrattando con il sindacato. Tali pratiche rientrano nella più ampia denominazione di responsabilità sociale d’impresa (RSI), di cui tra l’altro abbiamo recentemtne provato a tratteggiare i confini, in un contributo pubblicato pochi giorni fa, approfondendo il ruolo dell’Unione Europea e l’articolato corso d’azione messo in essere dalla Commissione UE. 

In questo articolo, invece, si andrà ad approfondire il ruolo del sindacato nell’orizzonte della RSI, attraverso un’intervista concessa da Maurizio Petriccioli, segretario confederale della CISL alla guida del Dipartimento di democrazia economica, economia sociale, fisco, previdenza e riforme istituzionali. Il sindacato, infatti, ha un rilevante ruolo nelle pratiche di RSI poiché è il soggetto che negozia con l’impresa i progetti di welfare rivolti ai dipendenti, partecipa alle trattative per la regolamentazione nazionale e internazionale, è protagonista dei processi di dialogo tra imprese e società civile come l’EU Multi-Stakeholder Forum on CSR.

Nell’intervista al segretario Petriccioli, emergono alcuni elementi interessanti. In primo luogo viene posto l’accento sulla dimensione contrattuale della RSI; non è sufficiente che l’impresa adotti comportamenti positivi, è necessario che implementi strategie frutto di un costante dialogo con le parti sociali. Attraverso la contrattazione è inoltre possibile stabilire obiettivi e criteri di valutazione.
Sebbene la contrattazione locale (aziendale, distrettuale…) sia fondamentale per la gestione dei progetti di welfare aziendale, questa non è più sufficiente in quanto in un’economia globalizzata basata su scambi internazionali anche le regole e i contratti devono essere globali; la sfida che ora deve affrontare il sindacato è superare la contrattazione nazionale per arrivare a definire accordi internazionali.

Un ulteriore aspetto d’interesse è il ruolo dei cittadini, i quali possono scegliere di premiare e incentivare le imprese socialmente responsabili acquistando i loro prodotti. Questo però comporta oneri per il cittadino che deve informarsi sulle diverse imprese e sui loro comportamenti, e deve poi rischiare di acquistare prodotti a un prezzo più alto. È bene però considerare che adottando un approccio contrattuale alla RSI, il fattore reputazionale è importante, in quanto la reputazione è uno dei principali fattori che spinge un’impresa a stipulare accordi su questioni sociali e ambientali, quindi le scelte d’acquisto possono influire notevolmente sui comportamenti delle aziende.

Nel dialogo con Petriccioli si delinea inoltre un quadro generale ove le istituzioni europee hanno avuto un forte ruolo di spinta, ma che si è perso nel corso degli anni, ove acquisisce importanza la contrattazione tra le parti sociali che però amplia il proprio raggio d’azione, divenendo internazionale.


Segretario Petriccioli, in cosa consiste la sua attività? Com’è strutturato il Dipartimento di democrazia economica, economia sociale, fisco, previdenza, riforme istituzionali e come si colloca nella segreteria confederale della Cisl?

Il lavoro del Dipartimento di democrazia economica, economia sociale, fisco, previdenza e riforme istituzionali della Cisl nazionale si caratterizza per un impegno costante di elaborazione documentale finalizzato all’informazione e al sostegno dell’attività delle strutture regionali e provinciali della Cisl e delle federazioni di categoria. In dettaglio ci occupiamo di riforme istituzionali; politiche fiscali, dei prezzi e delle tariffe; federalismo fiscale; previdenza obbligatoria e complementare; democrazia economica e partecipazione dei lavoratori al capitale e al governo dell’impresa; economia sociale e responsabilità sociale dell’impresa e liberalizzazioni e privatizzazioni. Interagiamo con le Istituzioni per migliorare le politiche pubbliche su questi temi nell’interesse dei lavoratori e dei pensionati che noi rappresentiamo.

A partire dal 2001, con l’uscita del Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” si è sviluppato un forte impegno dell’Unione Europea in materia di Responsabilità Sociale d’Impresa. Come valuta le politiche europee in materia di R.S.I.?

L’Unione ha finora assolto un ruolo di incubatrice delle migliori prassi in tema di responsabilità sociale. Ma dopo l’adozione del Libro Verde del 2001 e l’istituzione del Forum europeo multistakeholder i passi in avanti sono stati pochi.


L’uscita del Libro Verde ha dato luogo a un confronto tra la Commissione Europea e i vari attori coinvolti come le imprese, il terzo settore, i gruppi ambientalisti, le associazioni dei consumatori e i sindacati. La Cisl ha partecipato a questo confronto? Con che modalità? Mentre come si è posta la Confederazione Sindacale Europea?

La Ces ha abbracciato una “via contrattualista” mettendo in guardia contro i pericoli dell’autoreferenzialità. La Cisl crede che a livello europeo l’individuazione di standard minimi potrebbe contribuire ad orientare più efficacemente il mercato e la concorrenza interna ma, soprattutto, a definire i contenuti di clausole sociali da imporre nelle transazioni “da e verso” Paesi extracomunitari, al fine di creare un argine efficace, nei confronti della concorrenza esterna contro i rischi di dumping sociale ed ambientale.

Nel 2011 è stata varata la strategia europea in materia di responsabilità sociale delle imprese per il periodo 2011-2014. La Cisl come valuta questa strategia? Ritiene che l’Unione Europea possa fare di più per promuovere la Responsabilità Sociale d’Impresa?

La “Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di responsabilità sociale delle imprese” ha affermato un principio importante e cioè che il “rispetto della legislazione applicabile e dei contratti collettivi tra le parti sociali” viene indicato come “ un presupposto necessario” per far fronte alla responsabilità sociale ma questa affermazione non è stata poi suffragata da ulteriori iniziative legislative che possano contribuire a definire meglio il perimetro ed i contenuti della “responsabilità sociale”. Questo perché la contrattazione collettiva di livello nazionale difficilmente può costituire un argine nei confronti di imprese multinazionali che operano su uno scacchiere più ampio di quello “controllabile” dai processi contrattuali collettivi nazionali.
Le fonti del diritto internazionale cercano, ad esempio, una protezione generale attraverso i Codici di condotta che contengono regole ispirate a principi che possono sembrare addirittura ovvii e vaghi a livello di certi ordinamenti giuridici nazionali, per la cui violazione sono già contemplate specifiche sanzioni. Eppure quelle stesse pratiche assumono un rilievo completamente diverso se vengono inquadrate a un livello sovranazionale, dove l’applicazione dei principi dell’Organizzazione internazionale del lavoro, delle linee guida Ocse per le multinazionali, e del Global Compact potrebbe contribuire a limitare i rischi di dumping sociale, a sconfiggere l’uso del lavoro minorile e a migliorare le condizioni di benessere di centinaia di milioni di lavoratori e lavoratrici.
Non posso imporre ad un’impresa di assumere obbligatoriamente comportamenti socialmente responsabili e di aderire a regole internazionali ma posso, una volta che essa volontariamente ha aderito a dei codici e a delle regole di condotta controllarla, agire con incentivi e disincentivi reputazionali, sanzionare chi dichiara il falso, alterando la concorrenza sul mercato.

Successivamente alla strategia comunitaria, i vari Paesi europei, tra cui l’Italia, hanno varato piani nazionali. Il Piano d’Azione Nazionale per la Responsabilità Sociale d’Impresa promosso congiuntamente dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dal Ministero dello Sviluppo Economico, prevede diversi obiettivi volti sia a favorire la pratica della Responsabilità Sociale d’Impresa presso le aziende, sia politiche pubbliche stimolanti, sia disincentivare pratiche scorrette o ingannevoli da parte delle aziende, sia migliorare il rapporto tra aziende, comunità locali e terzo settore. La Cisl ha partecipato all’elaborazione del Piano? Come lo valuta? Ormai la fase d’attuazione è conclusa, gli obiettivi possono dirsi almeno in parte raggiunti? Ritiene che le istituzioni italiane possano fare di più per promuovere la Responsabilità Sociale d’Impresa?

La RSI non è il puro rispetto delle regole ma non è nemmeno il semplice monitoraggio o l’elenco delle buone pratiche e dei casi di studio. Se guardiamo alle linee guida alle multinazionali dell’OCSE o ai principi dell’Organizzazione Internazionale del lavoro e ai ritardi che constatiamo nella loro applicazione, se guardiamo al problema del rispetto delle condizioni nuove di sopravvivenza in alcune zone degradate del mondo, sappiamo che il puro rispetto delle regole è già un risultato, è già un obiettivo.
Ci sono imprese anche nazionali che si qualificavano come socialmente responsabili e i loro abusi e i loro disastri hanno coinvolto e travolto la fiducia di centinaia d’investitori e stakeholder.
Il Piano d’Azione Nazionale per la Responsabilità Sociale d’Impresa ha rappresentato sicuramente uno strumento importante soprattutto per definire come oggi la responsabilità sociale viene vissuta dalle imprese italiane, per operare una moral suasion, favorire, cioè, un clima e un contesto culturale atto ad impiantare la RSI, per fare il punto sull’applicazione dei codici di condotta e delle linee guida OCSE e soprattutto per creare un’occasione di confronto fra i diversi soggetti rappresentativi del mondo del lavoro, dei consumatori e delle imprese.
Tuttavia, è necessario fare qualcosa di più sul versante della prevenzione e della sanzione degli abusi perché al riconoscimento reputazionale per chi adotta comportamenti socialmente responsabili deve accompagnarsi la sanzione reputazionale per chi commette abusi o diffonde informazioni non corrette o che possono alterare la concorrenza. Si può fare dando vita a sedi, tavoli permanenti di confronto e monitoraggio non solo istituzionali e non solo centrali, adeguando progressivamente le regole istituzionali (diritto societario, trasposizione delle direttive) per favorire e per stimolare la RSI

Nel 2001 il Libro Verde aveva definito la R.S.I. come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”, nel 2011 la Strategia Europea come “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”. Per la Cisl cosa si intende con RSI.? Qual è l’impresa responsabile?

Noi abbiamo sempre portato avanti una strategia volta a superare l’approccio autoreferenziale tipico dell’autoregolamentazione basata sulla mera adesione delle imprese a codici standard di riferimento. La volontarietà dei comportamenti, liberamente assunti dalle imprese, non implica anche l’autoreferenzialità. L’uso dello strumento contrattuale può consentire di garantire un accettabile compromesso fra volontarietà e non autoreferenzialità, tramite la procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore. Tale produzione normativa costituisce un “bene meritorio” anche per gli stakeholder non coinvolti nel processo contrattuale. Per questo la responsabilità sociale dell’impresa va trasformata in “un processo” partecipato e condiviso dentro e fuori la comunità d’impresa.


Secondo lei qual è il ruolo del sindacato in relazione della RSI? Cosa può fare per promuoverla? Vi è un legame tra RSI. e contrattazione?

La responsabilità sociale dell’impresa deve interessare il sindacato e deve essere incorporata all’interno dei processi contrattuali. Ma di quali processi contrattuali? La mia risposta è che la pretesa di ingabbiare, regolare o codificare i comportamenti “sociali” dell’impresa, all’interno dei processi contrattuali nazionali è limitata e perdente. Limitata perché l’impatto sociale dell’impresa, come abbiamo visto, assume dimensioni internazionali. Perdente, perché le imprese perché l’evoluzione tecnologica e dei processi commerciali consente all’impresa di spostarsi da un Paese all’altro ricercando le migliori convenienze di natura fiscale e di diritto del lavoro, vanificando le regole poste con la contrattazione nazionale o aziendale di prossimità o regionale. Siamo immersi dentro una competizione globale che coinvolge anche il mondo del lavoro ma siamo sprovvisti di regole del lavoro globali. Con la conseguenza che l’impresa locale che accetta di essere “socialmente responsabile” spesso si trova a soccombere di fronte alla concorrenza di “imprese socialmente irresponsabili”. Per questo occorre una “globalizzazione delle regole”, dei codici e dei comportamenti, anche di quelli liberamente e volontariamente assunti dall’impresa.

Secondo lei, in Italia vi è un buon sviluppo della RSI? Sono numerose le imprese che hanno pratiche responsabili serie e strutturate? Cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione? Può fare esempi virtuosi?

No, in Italia, così come in Europa e nel mondo, non c’è ancora un buono sviluppo della RSI.
Non dobbiamo nasconderci, infatti, che molte imprese che si sono approcciate alla RSI hanno fatto non per convinzione ma per prevenire rischi o danni legati all’immagine della condotta aziendale. Le imprese che hanno intrapreso i percorsi di responsabilità sociale più interessanti sono quelle in cui i consumatori hanno avuto la possibilità di conoscere e di controllare l’intera filiera del processo produttivo e commerciale (Nike, Adidas ecc.), o nelle quali i consumatori stessi hanno assunto la qualità di soci.
Ma i consumatori compreranno i prodotti più sostenibili? Premieranno sempre le imprese che più seriamente adottano comportamenti di responsabilità sul piano sociale e ambientale? Agire sul versante del consumo responsabile, per il sindacato, significa ricercare una rinnovata alleanza con i consumatori e che inglobi sempre di più nelle sue strategie contrattuali e nella sua sfera di attenzione strumenti quali il bilancio sociale, il marketing, l’attenzione verso profili “extracontrattuali” quali l’ambiente, il fisco, la previdenza, il welfare aziendale.
Ecco che abbiamo bisogno di sostenere l’impresa responsabile non solo dal lato del consumo dei beni e servizi prodotti ma anche da quello del finanziamento dei suoi processi produttivi, il che ci porta a considerare il secondo versante d’azione che è quello dell’investimento responsabile. In un’epoca in cui gli scandali finanziari sono all’ordine del giorno ed il capitalismo fatica a trovare una nuova rotta, la responsabilità sociale dell’impresa può “pagare”, anche in termini di nuove opportunità per le imprese, anche dal lato “finanziario”. Lo sviluppo della “finanza etica” tramite i fondi comuni dedicati e l’investimento socialmente responsabile dei fondi pensione possono generare “valori” e nuove leve competitive importanti anche dal lato delle opportunità di “capitalizzazione” e di finanziamento delle imprese.

 

Quando si affronta la RSI. emergono temi delicati come la trasparenza, la valutazione e la certificazione delle pratiche: il timore è che qualche impresa possa fingersi responsabile e nascondere pratiche di tutt’altro genere (magari effettuate in altre parti del mondo). Qual è lo stato dell’arte in Italia? Vi sono modi per accertare che un’impresa sia veramente responsabile?

La cultura della sostenibilità richiede sia un adeguato livello di diffusione dell’informazione, sia una normativa che ne garantisca la veridicità dei contenuti e la trasparenza, condizioni essenziali per evitare perturbazioni della concorrenza. Il bilancio sociale, ad esempio, può essere uno strumento utile a tale scopo ma mancano normative univoche per la sua redazione: questa deve rimanere volontaria ma una volta effettuata non può divenire mistificatoria. Il riconoscimento reputazionale per le imprese che dichiarano di prendere in considerazione aspetti sociali e ambientali nella loro attività deve essere accompagnato con una normativa che prevenga e punisca gli abusi.


Passiamo al legame tra RSI e welfare. Un’impresa responsabile può promuovere iniziative di welfare aziendale rivolte ai propri dipendenti. Questa pratica quanto è diffusa in Italia? Qual è la qualità dei progetti? In quali modi si potrebbe migliorare la situazione?

Il welfare aziendale è in crescita ma il suo sviluppo rimane limitato da norme di legge e vincoli fiscali frutto di una concezione “statalista” del welfare. I servizi sociali e assistenziali, nella normativa italiana, sono considerati ancora come un’elargizione spontanea effettuata dal datore di lavoro. Manca a livello fiscale il riconoscimento del ruolo della contrattazione ed una sua valorizzazione a tali fini. Ciò è dovuto non solo a ritardi del legislatore ma anche all’atteggiamento di alcune parti sociali che considerano ancora il welfare aziendale in contrapposizione al welfare pubblico. Il nodo sul “ruolo” integrativo o sostitutivo del welfare aziendale, rispetto a quello pubblico non è stato ancora sciolto. Osservo, tuttavia, che in una società sempre più caratterizzata da una straordinaria divaricazione dei percorsi personali (lavorativi e di vita) è necessario che l’offerta di welfare sia il più possibile adattabile alle esigenze individuali dei lavoratori e delle loro famiglie. Ciò significa che c’è uno spazio per rafforzare il carattere integrativo “qualitativo” del welfare e non solo quantitativo.

Vi possono essere poi iniziative a vantaggio della comunità promosse in collaborazione con differenti stakeholder come enti pubblici o organizzazioni del terzo settore. Nel contesto italiano come valuta il rapporto tra imprese e terzo settore? E i progetti sorti dalla collaborazione tra imprese ed enti locali (ad esempio Cresco Crescita Compatibile promosso da Fondazione Sodalitas)?

Quelle citate sono esperienze importanti che consentono di socializzare buone pratiche e di diffonderle, favorendo dunque la diffusione dell’informazione fra gli operatori e i consumatori, i costi e i vantaggi che l’assunzione consapevole, spontanea e non autoreferenziale della responsabilità sociale e sviluppando, dunque, valore sociale comune. Si tratta di progetti che possono contribuire a valorizzare anche l’importanza di un metodo di lavoro comune. Gli enti pubblici, le associazioni d’impresa e del terzo settore, le imprese e i sindacati possono cosi trovare spazi di lavoro comuni e concreti per sviluppare un clima e un contesto culturale atto ad impiantare la RSI, la democrazia economica e la partecipazione e scegliere un sistema di relazioni e rapporti indirizzato al dialogo preventivo.

L’azione responsabile a vantaggio della comunità può essere sviluppata a partire dallo stesso processo produttivo oppure essere costituita da azioni filantropiche come donazioni. Nel primo caso vi sono interventi di vario tipo come l’erogazione di servizi a condizioni vantaggiose per particolari clienti (disabili, anziani, residenti in zone svantaggiate…), la fornitura di tecnologie a prezzo ridotto per il terzo settore (es. il progetto Techsoup), l’attenzione alla qualità del prodotto e casi simili.. Come valuta questa modalità nel contesto italiano? Mentre la filantropia aziendale?

La RSI, infatti, non è filantropia. Per quanto la filantropia sia sicuramente preferibile alla speculazione e alla fuga dalle norme nazionali ed internazionali del diritto del lavoro e ambientale, essa si differenzia dalla Responsabilità sociale per l’assunzione di obblighi e percorsi che a cui, pur volontariamente, si sceglie di adeguarsi.  L’assunzione da parte dell’imprenditore e del sistema delle imprese di una problematica condivisa, insieme agli altri stakeholder è l’elemento che determina una governance “socialmente responsabile”. E la scelta partecipativa diviene la migliore garanzia per la comunità nella quale l’impresa opera.


Vi sono casi di responsabilità sociale che vedono coinvolti anche i lavoratori come quello che viene definito il volontariato d’impresa. Può descriverne l’evoluzione in Italia? Vi sono anche altre modalità di coinvolgimento dei lavoratori? Qual è il ruolo del sindacato?

Si tratta di esperienze importanti che però, a mio avviso, non vanno confuse con la responsabilità sociale d’impresa. Sono iniziative importanti che rientrano a pieno titolo nell’economia sociale. Assomigliano più al modo di lavorare dell’impresa sociale, nel senso che qui l’impresa assume un impegno sociale e finalità che esulano dalla sua normale attività professionale. Tuttavia queste esperienze mettono in risalto la grande volontà e capacità dei lavoratori e dei cittadini di dedicare una parte del proprio tempo ad iniziative solidaristiche, alla collettività, a progetti sociali o ambientali, in definitiva “agli altri”, agli ultimi e agli esclusi. Ma cosa differenzia, allora, la Rsi dall’economia del dono e dello scambio? La mia risposta è che la differenza sta nell’assunzione da parte dell’imprenditore di una problematica condivisa che definisca le proprie responsabilità assieme a quelle dei diversi soggetti che con lui entrano in rapporto e la condivisione dei processi che riguardano quelle responsabilità.

L’Italia è un Paese in cui il tessuto produttivo è composto prevalentemente da PMI. Queste stanno sviluppando la RSI.? Come possono essere supportate?

Le PMI innovative sono quelle maggiormente sensibili alla qualità dei processi e al rapporto con gli stakeholders. Tuttavia, il tema della certificazione e del controllo degli aspetti sociali e ambientali presenta un costo. L’approccio contrattuale potrebbe consentire di limitarlo, in pratica creando “valore reputazionale”, anche grazie al coinvolgimento non autoreferenziale dei diversi stakeholder.
Per questo il sindacato deve integrare i temi della responsabilità sociale a pieno titolo nelle piattaforme di rinnovo dei contratti collettivi nazionali e aziendali.

Questa è intervista è stata gentilmente concessa il 10 settembre 2015.