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Il piano di privatizzazione delle Poste prevede un’interessante novità: la cessione gratuita di una quota di azioni ai dipendenti (quasi 150 mila), che entreranno così nel capitale aziendale dando vita ad una nuova esperienza di "democrazia economica". La proposta del governo arriva pochi giorni dopo una risoluzione del Parlamento europeo che, lo scorso 16 gennaio, ha invitato i governi a favorire la partecipazione del lavoratori agli utili d’impresa. Circa il 25% delle aziende Ue già adottano schemi di profit sharing, comprese le Poste tedesche, austriache, belghe, inglesi e portoghesi. E, come è noto, oltre alla condivisione degli utili, il modello "renano" di capitalismo prevede altre forme di coinvolgimento dei lavoratori: quella più riuscita è la co-gestione, introdotta dal cancelliere Schmidt nel 1976, che include i sindacati nei consigli di amministrazione delle imprese.

Nel nostro Paese la partecipazione economica dei lavoratori è stata vista con sospetto sin dagli albori della Repubblica, a dispetto dell’articolo 46 della Costituzione che ne auspica la promozione. In parte è colpa del Fascismo e dei suoi improvvidi disegni di "socializzazione" delle imprese, che avrebbero dovuto condurre alla completa abolizione del lavoro dipendente come fattispecie contrattuale. Ma la causa principale di perplessità e sospetti (anche da parte delle imprese) sta nel marcato radicalismo della sinistra italiana e del suo più grande sindacato: la Cgil. Che spazio poteva infatti avere la collaborazione dei lavoratori alle scelte aziendali in una strategia volta a "fuoriuscire" dal capitalismo tramite una dura lotta di classe? Certo, negli anni Settanta emersero correnti più moderate, sia Trentin che Lama flirtarono esplicitamente con gli orientamenti delle socialdemocrazie continentali (concertazione e cogestione, appunto). Ma l’esigenza di conservare unità interna e di non avere nemici a sinistra mantennero la Cgil su posizioni molto distanti da quelle tedesche e decisamente più massimaliste rispetto a quelle degli altri due grandi sindacati nazionali. Esaurito il breve esperimento di convergenza e moderazione durante i governi di unità nazionale (1976-1978), gli anni Ottanta segnarono il ritorno di una strategia di antagonismo conflittuale da parte della Cgil e di netta rottura con la Uil e la Cisl. Intorno agli anni Novanta, è stata proprio la Cisl (durante la segreteria Marini) a portare alla ribalta per la prima volta anche in Italia i temi della democrazia economica: la partecipazione finanziaria dei lavoratori è diventata parte integrante della strategia di questo sindacato, che ne ha sostenuto le ragioni non solo nell’arena delle relazioni industriali ma anche in quella politica, in sede di concertazione con i vari governi.

L’integrazione economica europea ha favorito nell’ultimo decennio dinamiche di ibridazione fra sistemi. Le forme di dialogo sociale e di partecipazione economica dei lavoratori si sono rapidamente diffuse anche al di fuori del contesto "renano", spesso ad opera delle imprese tedesche all’estero. In Veneto, due anni fa la Volkswagen ha dato vita con un contratto aziendale al primo esperimento italiano di cogestione. Persino all’interno della sinistra sindacale il conflitto ideologico sta lasciando il posto a modalità e stili di confronto più pacati e pragmatici. La Cgil è ancora diffidente verso la democrazia economica. Ma non più per petizione di principio, come scelta di campo, bensì sulla base di argomenti interni alla logica di mercato: «Meglio che i rischi d’impresa restino in capo agli imprenditori». Certo l’anima del sindacalismo massimalista e "di classe" si sta facendo ancora sentire nei dibattiti in corso per il congresso Cgil che si terrà a maggio. Il clima generale nel Paese è però maturo per affrontare questi temi in modo empirico: quali sono le cornici regolative capaci di far emergere buone pratiche collaborative fra datori di lavoro e dipendenti, capaci di generare ricadute positive in termini di crescita e equità distributiva? Anche se non è fra le sue pressanti priorità, il governo Letta sta lavorando a un provvedimento volto a sostenere con incentivi le parti sociali (e i contratti aziendali) che prevedano prassi partecipative. Non dobbiamo per forza diventare "renani". Ma aprirsi alle sperimentazioni in un contesto economico sempre più fluido e globalizzato è senz’altro uno sviluppo positivo, un segno che le nostre relazioni industriali sono diventate più mature. E anche un’occasione per i sindacati di recuperare un ruolo di co-protagonisti nelle scelte di cambiamento, non solo in quelle che difendono a oltranza lo status quo.


Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 25 gennaio 2014

 

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