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Ieri la Confederazione europea dei sindacati (CES) ha organizzato un incontro sul futuro della UE, alla presenza di Juncker, Moscovici e del premier svedese. Anche a prescindere dai contenuti, si tratta di un segnale politico importante. Durante la crisi sono stati trasferiti enormi poteri decisionali alla Commissione, alla Banca centrale, al cosiddetto Eurogruppo (i ministri finanziari dell’Eurozona) e al Consiglio europeo. Data l’emergenza, probabilmente non c’era altra strada per salvare la moneta unica. Ma il regime economico che ne è uscito è chiaramente sbilanciato. La democrazia vive anche di pluralismo, di partecipazione e coinvolgimento delle varie associazioni e gruppi di interesse. Nell’Unione monetaria a decidere è una cerchia ristretta di funzionari ed esponenti degli esecutivi nazionali. A volte i primi smarriscono addirittura il senso del limite: è successo proprio ieri a Juncker, a cui è scappato uno sgarbatissimo “me ne frego delle critiche italiane”. Il calo di legittimità di cui soffrono oggi le istituzioni europee riflette anche questi aspetti.

La grande recessione ha oggettivamente indebolito i sindacati, che hanno perduto i margini di manovra a livello nazionale. Ciò è vero soprattutto nei paesi sud-europei che hanno dovuto chiedere assistenza finanziaria. La UE ha pagato il conto, ma ha anche imposto rigide condizioni in termini di contenimento del deficit e di riforme strutturali. È di colpo finita la concertazione ed è iniziata una fase basata sul motto “non ci sono alternative”, bisogna fare come dice Bruxelles. Vi sono stati, è vero, ripetuti tentativi di organizzare mobilitazioni trans-nazionali, come lo sciopero generale anti-austerità del 14 novembre 2012. Ma questa strategia ha ricevuto solo tiepidi sostegni da parte dei sindacati tedeschi. La marginalizzazione delle parti sociali nel governo dell’Unione monetaria è anche il frutto di divisioni interne, di interessi divergenti fra imprese e lavoratori dei paesi del Nord e del Sud. È questo che ha impedito la formazione di un fronte comune, lasciando mano libera ai leader di governo. Un episodio particolarmente emblematico merita di essere ricordato. Nel gennaio 2012 i sindacati spagnoli, timorosi di apparire troppo intransigenti agli occhi della Germania, incontrarono direttamente Angela Merkel per presentare le proprie proposte su pensioni e mercato del lavoro. Le chiesero anche di convincere Rajoy a riaprire la concertazione. Arrivò una telefonata, il primo ministro incontrò i sindacati, poi andò avanti per la sua strada.

Negli ultimi due anni le cose hanno iniziato a cambiare. Le divisioni fra Nord e Sud si sono attenuate, sindacati e datori hanno annodato un dialogo volto anche a rafforzare la propria voce istituzionale a Bruxelles. Nell’ultimo “Vertice sociale trilaterale” (una serie di incontri formali tra parti sociali e istituzioni UE) sono state presentate ambiziose proposte su investimenti e politica industriale. Ieri la CES ha discusso una articolata piattaforma di richieste volte a rafforzare la dimensione sociale dell’integrazione.

L’agenda è interessante perché intreccia due fili rivendicativi distinti. Il primo chiede più spazi per politiche nazionali di welfare. Il secondo chiede strumenti comuni UE per promuovere crescita e coesione. Il tutto in un quadro di sostenibilità economica e finanziaria. Ciò che si intravede è insomma una conciliazione fra la cultura della stabilità e della responsabilità tipica del mondo germanico (parti sociali incluse) e la cultura della solidarietà e della redistribuzione tipica del mondo latino.

Se non vuole degenerare verso una “econocrazia” oligarchica, il sistema politico UE deve aprirsi al pluralismo. Le associazioni intermedie possono svolgere un ruolo cruciale nel comporre gli interessi fra settori, gruppi sociali, territori, Stati Membri nel loro complesso. L’Europa ha un futuro solo se riesce a intrecciare in modo virtuoso la cultura del Nord e quella del Sud. Per i sindacati tedeschi, la sfida è soprattutto quella di farsi carico degli effetti negativi che le politiche di Berlino hanno sulla crescita e l’occupazione dei paesi deboli. Per i sindacati sud-europei, si tratta invece di appoggiare le riforme ancora necessarie a recuperare competitività e risanare stato e finanze pubbliche. Ciò che serve è insomma una sintesi fra diverse tradizioni e interessi, che davvero consenta alla UE (come si legge nella Piattaforma CES) di competere nel mondo globale con un modello economico e sociale equo e sostenibile.

 

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera dell’8 novembre