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Il 9 e 10 novembre a Milano, Confartigianato organizza un incontro nazionale per presentare "Nuovo Sociale", un grande progetto avviato dall’organizzazione con l’intento cambiare l’approccio nello sviluppo di servizi sociali in un’ottica maggiormente innovativa, inclusiva e a trazione territoriale.

Si tratta di un’iniziativa (come spiegato anche in questo articolo) che non vuole tanto riorganizzare forme di sostegno e welfare per i piccoli imprenditori e le loro famiglie, quanto sostenere un riposizionamento dell’azione politica di mediazione degli interessi, propria da sempre dell’organizzazione, per promuovere di processi per un nuovo sviluppo ed un nuovo benessere delle comunità locali. Confartigianato dimostra così la volontà di diventare un vero e proprio protagonista del secondo welfare, attraverso un’impostazione che permetta di rispondere a rischi, preoccupazioni, esigenze e bisogni sociali di tutti i cittadini, producendo nuove relazioni sociali, crescita e sviluppo grazie alla leva del welfare.

Per approfondirne genesi, sviluppo e prospettive di "Nuovo Sociale" abbiamo intervistato Mario Vadrucci, Direttore Generale di INAPA – Istituto Nazionale di Assistenza e di Patronato per l’Artigianato, ovvero l’ente che all’interno di Confartigianato Imprese ha avviato il lavoro di riflessione che ha portato alla nascita del progetto.


Dottor Vadrucci, partiamo dall’inizio. Può spiegarci quali sono le ragioni che hanno spinto Confartigianato, che ha una lunga e valida tradizione nel campo dei servizi alle persone e alle famiglie, strutturata specialmente tramite gli Uffici Provinciali del Patronato, a ripensare presenza e offerta sul fronte del welfare e del Sociale in generale?

L’idea è nata nel corso del 2014 quando il Governo ha paventato la possibilità – poi confermata con la Legge di Stabilità 2015 – di un netto taglio dei fondi destinati ai Patronati. È stato il fattore che, come INAPA, ci ha spinti ad iniziare a ripensare seriamente un modello che per tanti anni si è basato quasi esclusivamente sull’aiutare le persone a svolgere vari adempimenti burocratici per poi offrire loro alcuni servizi standard – di cui per inciso proprio le pratiche adempitorie erano ragione e finalità stesse del servizio –, più o meno apprezzati. Un compito certamente importante ma che, visti i cambiamenti in atto nella nostra società, ci sembrava dovesse essere integrato e direi ri-fondato su ben altro, che andasse più a fondo e affrontasse le situazioni di vita delle persone. Che andasse all’origine dei principali problemi del nostro tempo.

Si tratta di una grande sfida. Soprattutto culturale. Noi veniamo da architetture istituzionali che per oltre cinquant’anni si sono fondate su grandi e soprattutto definiti settori produttivi, sociali, economici, istituzionali: ognuno sapeva qual era il suo compito, sapeva cosa fare. Oggi siamo in piena metamorfosi di questo scenario: i grandi cambiamenti in atto a partire dalla seconda metà del Secolo scorso hanno reso pressoché indefiniti questi “confini”. Ci siamo quindi posti il compito di essere quanto più possibile vicini alle situazioni vitali delle persone, dentro i loro “contesti di vita”. In questo senso fare i documenti per ottenere la pensione o svolgere altri adempimenti “classici” legati la previdenza (che tra l’altro sono gli unici ancora finanziati dal Pubblico), rappresentano solo un motivo per costruire relazioni vere con gli altri, indipendentemente da chi sta davanti o dietro una scrivania. È l’esperienza di poter contare su qualcuno, è questo ciò che genera valore, non tanto un risultato in sé. Che spesso, peraltro, è di difficile stabilizzazione.

Partendo da queste considerazioni ci siamo mossi ed abbiamo iniziato ad esplorare nuove strade per affiancarci ai cittadini, scegliendo di andare più a fondo delle loro esigenze per cominciare a sostenerli nella ricerca di soluzioni adeguate ai loro bisogni. E soprattutto, al di là delle emergenze, per costruire con loro un percorso da fare insieme che corrisponda alle loro aspettative, anche se al momento queste non sempre ben inquadrate. In pratica abbiamo iniziato a prendere in considerazione l’idea di approcciarci a loro in un’ottica di “secondo welfare”. Poi, con l’introduzione degli incentivi a favore delle imprese in tema di welfare [Legge di Stabilità 2016, nda], abbiamo definitivamente deciso di procedere con un irrobustimento del processo in tal senso. Le incentivazioni fiscali sono state certamente importanti per fare questo passo ma, come detto, il processo era avviato, ed è frutto soprattutto di una chiara scelta politica piuttosto che di questo o quel vantaggio contingente.


Come si colloca questo nuovo approccio nella più ampia strategia di Confartigianato?

Confartigianato è un’Associazione che rappresenta le PMI, sistemi d’azienda dove i dipendenti sono spesso gli stessi familiari o collaboratori, talmente “vicini” da essere considerati parte della famiglia. E comunque pressoché tutti soggetti conosciuti, visto che l’80% degli italiani vive in Comuni sotto i diecimila abitanti. Sostenere bisogni e realizzare aspettative di persone che lavorano nel sistema artigiano significa pertanto sostenere il sistema stesso, che con la crisi si è molto indebolito.

Un sistema, quello artigiano, che peraltro è parte a sua volta dei sistemi di cittadinanza e societari locali, al punto di averne determinato le fortune – penso al periodo 1960-1990 – come anche di non riuscire alle volte a diventare qualcosa d’altro, a maggiore valore intendo. Mettendosi d’accordo, ovviamente, su cosa voglia dire oggi generare profitto e valore per le comunità locali italiane.

In questo senso crediamo che il Patronato possa essere un punto di riferimento per tutti i bisogni delle famiglie: della non autosufficienza, della sanità domiciliare e non, dei bisogni di cura, di consulenza, dei soggetti più deboli o più in difficoltà per varie ragioni. In sintesi: tutto quello che riguarda problematiche di cittadini, persone e famiglie, per noi necessariamente riguarda anche le imprese. Una gestione più lungimirante delle problematiche sociali rende più agevole ed efficace la gestione dell’impresa, quindi non possiamo non affrontare questo tema. Le comunità locali, non scordiamolo, sono fiorite su sistemi di “intesa sociale”, anche spontanei ma pur validi e seguiti.


Come avete deciso di muovervi per strutturare questo nuovo approccio?

Ci siamo posti l’obiettivo di sviluppare un sistema che fosse il più possibile integrato e territoriale, proponendoci di costruire nuovi rapporti fra i piccoli imprenditori e gli attori locali, sia pubblici che privati.

La dimensione delle “nostre” imprese non ci consente di mettere in campo azioni simili a quelle dei cosiddetti “grandi”. Evidentemente noi non siamo la Fiat, non siamo Luxottica, lo dico con tutto il rispetto e la considerazione per queste importanti realtà: il nostro target aziendale è fatto di micro imprese che hanno meno di dieci dipendenti e che sono sparse su vasti quanto difformi e parcellizzati territori. In questo senso è stato evidente come fosse necessario immaginare un welfare territoriale, in cui le nostre imprese potessero essere protagoniste ma che, specialmente nei piccoli centri, si integrasse, anzi: fosse parte costituente dei nuovi meccanismi di sostegno sociale per rigenerare benessere per tutti.

Ci siamo quindi proposti di pensare a un modello che potesse adeguarsi ai diversi contesti, perché è evidente che le persone, le aziende e le famiglie hanno necessità differenti se sono in Lombardia, in Campania o in Sicilia. Abbiamo perciò scelto di sviluppare “panieri” di servizi basati sulle realtà contingenti e sulle storie locali da rivitalizzare, e non imposti a tavolino dall’alto. Abbiamo cercato di immaginare non un unico welfare standardizzato, ma un sistema che potesse essere a misura delle imprese, dei loro dipendenti e di chiunque, essendo protagonista della vita delle società locali, entrasse in relazione con loro, come anche che fosse in grado di integrarsi con quello che già esiste sui diversi territori.


Quali sono stati i vostri primi passi per andare in questa direzione?

Ci siamo fatti l’idea che anche nelle piccole imprese si possa realizzare un secondo welfare, convincendoci che per fare ciò non servano nuove norme o regole, ma che i rapporti che già ci sono nell’azienda possano essere di beneficio sia per l’imprenditore sia per ogni altro soggetto comunque coinvolto. Contemporaneamente ci siamo però accorti che, su questo tema, nelle PMI e in generale nel Paese c’è un grosso problema culturale: non è chiaro quello che sta accadendo al nostro sistema di welfare e cosa si possa fare per superare le grandi sfide del nostro tempo anche senza il contributo dello Stato. Così abbiamo fatto un lavoro “dal basso”, somministrando questionari alle Organizzazioni territoriali che hanno aderito al Progetto PER il “Nuovo Sociale”, per cercare di capire quali fossero i bisogni, le priorità per le persone che vivono le imprese e i territori, al di là di questa mancanza di consapevolezza. Ne abbiamo raccolti circa 4.200, e da lì siamo partiti.

Forti di queste evidenze, abbiamo chiesto alle Organizzazioni territoriali di Confartigianato di pensare insieme questo nuovo approccio alla questione sociale, e di conseguenza al welfare. Come per tutte le cose della vita, eravamo consapevoli che le sensibilità non fossero uguali – come si è soliti manzonianamente dire – “dall’Alpi alle Piramidi”, e sapevamo quindi che tra le Organizzazioni territoriali ci sarebbero state risposte differenti basate sulla diversa storia, la diversa sensibilità, le diverse strutture territoriali e sociali. Nonostante questo, più di 40 Organizzazioni territoriali hanno deciso di aderire al Progetto PER il “Nuovo Sociale”.

Il percorso è stato lungo ed ha coinvolto attivamente tutti i territori che hanno aderito al Progetto. Grazie a una partnership con MBS Consulting di Milano abbiamo potuto organizzare un lavoro importante, composto da momenti di confronto e formazione e, successivamente, da Laboratori di sperimentazione per individuare gli ambiti nel quale Confartigianato poteva “dire la sua”. Poi siamo passati alla vera e propria implementazione laddove i territori si sono dimostrati pronti.


Quindi avete già iniziato a sperimentare e a implementare alcuni servizi? Può farci un esempio?

Quello del welfare aziendale – o territoriale o comunitario che dir si voglia – è uno degli àmbiti in cui abbiamo sviluppato alcune soluzioni che sono già operative tra quasi tutte le Organizzazioni aderenti al progetto, con coinvolgimento sia dei collaboratori delle varie imprese aderenti sia dell’Area Persone di Confartigianato. Il servizio di welfare aziendale che proponiamo è composto da tre anime. Prima: comunicazione e sensibilizzazione nei confronti delle imprese e del loro territorio. Il primo ostacolo, anche in questo caso, è infatti far capire di cosa si sta parlando e quali vantaggi possono esserci per aziende e lavoratori. Seconda: la consulenza. Come Associazione aiutiamo le imprese nella comprensione delle questioni giuslavoristiche, nella strutturazione di soluzioni personalizzate e nell’individuazione della strada più adeguata per realizzarle, come ad esempio l’adozione di un regolamento o il ricorso al premio di produttività. Terza: l’offerta di una soluzione operativa percorribile per usare al meglio le risorse. e qui è stata particolarmente importante la partnership creata con la Piattaforma Tre Cuori.


Oggi nel nostro Paese sono molto numerosi gli operatori che si occupano di intermediare i servizi di welfare. Perché la vostra scelta è caduta proprio su Tre Cuori?

La principale ragione è valoriale. La mission del Progetto PER il “Nuovo Sociale” e la mission di Tre Cuori sono coincidenti sotto diversi aspetti. Tre Cuori ha l’obiettivo di affrontare il tema del welfare aziendale non solo come fornitura di beni e servizi, ma come sistema che sia veramente territoriale. “Condividere è moltiplicare” è l’idea generale che ci porta a dire che grazie al welfare aziendale possiamo fare anche welfare di comunità.

In tal senso le possibilità offerte dalla loro piattaforma vanno in questa direzione e ci sono parse sinergiche con i nostri obiettivi. È presente ad esempio uno strumento, denominato “Marketing Sociale”, che permette di accumulare risorse da riutilizzare per lo sviluppo di progetti di welfare territoriale, che possono andare a rispondere ai bisogni specifici della comunità attraverso risorse di diversa provenienza. Il concetto non è solo sviluppare welfare nelle imprese, ma trovare risorse che possano avere ricadute sociali anche sul territorio e per chi lo vive. Questa “esondazione” è forse l’elemento più interessante, perché è la parte visibile, la parte che può avere un significato nuovo: fare le cose bene sostenendo la “vecchia maniera” per salvarne le positività, ma che siano evidenti anche all’esterno in una forma nuova, visibile per tutti e non solo per chi all’interno dell’Organizzazione ottiene vantaggi legati al welfare aziendale.

Grazie a Tre Cuori speriamo di avere un ritorno di valore, di impatto, che crediamo possa essere un elemento significativo, perché visibile, evidente per la comunità. Tre Cuori ci permette infatti di moltiplicare il valore della nostra azione, da reinvestire nei luoghi dove persone, famiglie, imprenditori e protagonisti locali vivono e si confrontano.


Rispetto al percorso svolto finora, come ritenete di proseguire nei prossimi mesi?

Il lavoro dei prossimi mesi è rafforzare e vincolare quanto fatto e allargare il raggio della conoscenza. Banalmente, tutti parlano di welfare aziendale, ma come approfondire questo tema in un’ottica territoriale? E soprattutto, chi lo fa? Chi lo fa scendere in campo nel concreto? A noi spetta il compito arduo ma importante di far conoscere quali sono gli aspetti positivi nell’intraprendere un percorso di welfare all’interno delle proprie aziende, e far vedere che ciò è possibile e soprattutto redditizio. Non è una ricetta per l’impoverimento.

Non è facile perché la gente, soprattutto i piccoli imprenditori, sono stati abituati a un sistema dare-avere che non funziona più. Le relazioni venivano usate strumentalmente, per ottenere “merci sociali”. Così si arriva a non fidarsi più gli uni degli altri. Per problemi che non cessano, per tempi lunghi, la fiducia è decisiva. La logica del tornaconto immediato “corrompe” l’idea che, invece, il vero Valore che può generare una comunità coesa sta nel produrre relazioni sociali valide, in grado di ricostruire la cooperazione. Perché è la cooperazione che nel Secondo Dopoguerra rimise in piedi un Paese a pezzi, non ragionamenti di piccolo cabotaggio e di misero individualismo. Noi non vogliamo solo teorizzare tutto ciò: vogliamo farlo. Sarà un processo, non un insieme di azioni contingenti che scaturiscono da convenienze occasionali.

Confartigianato è la prima organizzazione in Italia che si affaccia in termini strutturati e di esperienza concreta nel panorama del welfare aziendale/comunitario con questo approccio. Al momento non mi risulta che altre organizzazioni, al di là delle considerazioni politiche, dei proclami o delle intenzioni dichiarate, abbiano sviluppato una proposta complessa e strutturata come abbiamo fatto noi. Per questo l’evento che si svolgerà a Milano il 9 e 10 Novembre prossimi sarà molto importante. In quell’occasione presenteremo esperienze reali di aziende, contratti e persone che hanno scelto di impegnarsi per cambiare il welfare nei propri contesti, aziendali e territoriali. Una cosa è organizzare convegni per parlare di normative o di possibilità, sempre ambigue nel nostro Paese, di loro traduzioni nella realtà. Un’altra è sperimentare nel concreto le disposizioni, dar loro gambe e organizzare incontri che ragionino su cosa ciò comporta. E soprattutto: per dire dove si vuole andare.


Come si strutturerà questo evento?

Abbiamo scelto di confrontarci con Istituzioni nazionali – come il Ministro Poletti, ad esempio – e regionali – i Presidenti di Lombardia e Piemonte, Maroni e Chiamparino –, perché una parte preponderante del welfare è ovviamente in mano ad esse. Vogliamo chiarire loro che ci siamo, che abbiamo fatto un percorso, abbiamo idee e strategie e siamo pronti a contribuire ad un rinnovamento e riorientamento radicale del sistema.

E poi abbiamo invitato chi prima di noi si è occupato di welfare comunitario e territoriale – Fondazione Cariplo in primis – e tutti gli altri attori che devono essere parte del cambiamento, come Sindacati e Confcooperative. Con loro abbiamo l’ambizione di avviare percorsi di collaborazione e soprattutto co-progettazione, e quindi – perché no – delle vere e proprie partnership. Pensiamo che le difficoltà di comprendere adeguatamente e poi governare la metamorfosi istituzionale, sociale ed economica in atto siano comuni. Perciò meglio fin da subito allontanarsi dalle pure logiche strumentali di “presidio corporativo” degli spazi di un tempo, peraltro dissoltisi, evitare egoismi infantili e lavorare insieme per superarle.

In più ci sarà tutto il mondo della nostra Confederazione: le 120 Organizzazioni territoriali, le Federazioni regionali, il mondo del Patronato, i pensionati… . Perché per intervenire sui cambiamenti in atto si ha qualche possibilità solo se si parte dal basso. Se si parte anzitutto da noi. E ciascuno da se stesso e dalla solitaria indelegabile insopprimibilità delle proprie scelte. Questo convegno segna dunque un passo molto importante per il Progetto “Nuovo Sociale” e per Confartigianato Imprese in generale, perché segna una tappa di un processo strategico che pensiamo possa essere utile a tutta l’Organizzazione e soprattutto all’Italia e ai suoi territori.